Potrebbe una pandemia come quella scatenata dal SARS-CoV-2 – questa stessa in una nuova ondata tra qualche anno oppure, recidiva, in un altro tempo; o anche un’altra epidemia prossima ventura – farci tornare improvvisamente all’era delle caverne? Caverne con quattro mura, senz’altro; con finestre, balconi, riscaldamento e aria condizionata, acqua corrente, elettricità, letti morbidi, dispense fornite di prodotti a lunga conservazione, frigoriferi e congelatori, connessione alla rete più veloce, fibre, 5G, 6G, e forse più di un paio di robot piuttosto intelligenti.

Abitazioni modernissime, ma pur sempre caverne, quando da queste non si può uscire se non in via eccezionale, autorizzazione alla mano? Senza dubbio, le tecnologie delle quali disponiamo oggi, agli inizi del XXI secolo, rispetto a quelle primordiali del Paleolitico, magari messe un po’ meglio a sistema e integrate a dovere sia sul piano strettamente tecnologico che su quello burocratico-amministrativo, ci consentirebbero di soddisfare quasi ogni nostra necessità, anche se fossimo costretti a una chiusura molto più estesa di quelle viste recentemente. Non è questo che vedo per il futuro; non un lockdown prolungato come un’era glaciale. Più che la riproposizione di una chiusura generale a tempo indeterminato (aspettativa generata dalla paura, dal timore che subito si ripeta ciò che è appena successo), avverranno nella società e nel nostro modo di vivere dei cambiamenti drastici, radicali, che porteranno la nostra civiltà, ancora una volta, sulla via di un miglioramento di tipo strutturale.

Cambiamento infatti è, insieme ad “adattamento”, la parola chiave di ogni periodo storico che si trova costretto a reagire prepotentemente a uno stop. Così, per esempio, è successo dopo l’attentato dell’11 settembre 2001 alle Twin Towers di New York. Tra le cose più evidenti, a seguito dell’attacco, è cambiato per sempre il nostro modo di volare. Al gate dell’aeroporto passiamo ora attraverso il body scanner, dispositivo di imaging che vede ogni cosa dentro di noi e le nostre valigie. Non abbiamo più potuto portare nei bagagli a mano forbicine, pinzette, taglierini; né bagnoschiuma, gel o liquidi, questo perché i terroristi utilizzarono strumenti del genere per dirottare gli aerei; più tardi (2006) sembra che altri terroristi avessero progettato di realizzare degli esplosivi liquidi per dirottare altri voli di linea. Non si trattò soltanto di questo. Un attentato come quello alle Torri Gemelle sembrava, all’epoca, impensabile; pura fantascienza. In tutta quanta la loro storia, gli Stati Uniti d’America non erano mai stati attaccati sul suolo nazionale.1 Lo shock fu enorme, per tutti noi. Avevano combattuto due guerre mondiali e diversi altri conflitti dagli anni Cinquanta in avanti, ma mai nessuno aveva “osato” o “potuto” attaccare la nazione all’interno dei suoi confini. Sembrò a molti che il mondo sarebbe cambiato per sempre, e così è stato, ma non nel senso negativo che ci si aspettava nell’immediatezza. E credo che fu proprio anche questo non aspettarsi un tale evento distruttivo, questo rimanere sorpresi e scioccati dall’assurda, impossibile catastrofe, che portò il popolo americano, e il mondo, a reagire in modo energico, coraggiosamente. Fu la paura, certo, a governare le vite di gran parte dell’Occidente per un periodo di tempo abbastanza lungo. Ci furono altre guerre, probabilmente inutili. Si scoprirono dei nemici sconosciuti. Se ne inventarono addirittura di nuovi, pur di dimostrare che la supremazia della grande potenza era ancora in piedi, vigorosa. Si era agli inizi del millennio, e i primi dieci anni (i cosiddetti “anni zero”) rappresentarono molto, moltissimo in termini di innovazione tecnologica, vuoi, forse, anche in virtù di questo evento che non turbò soltanto gli USA, ma buona parte del mondo. Furono quelli gli anni della diffusione di Internet e dei primi smartphone, della nascita di Facebook, di YouTube, di Wikipedia. Pura coincidenza? Non credo. Nasceva il mondo digitale come lo conosciamo adesso e con esso nasceva e cresceva una nuova generazione. E in questi giorni in cui fronteggiamo un problema forse ancor più insidioso e difficile del terrorismo, così come è sempre stato nella Storia, sarà lo stesso. Sarà, probabilmente, ancora una volta la paura a innescare la reazione. La paura che “finisca tutto”. La paura che la pandemia non finisca. Paura di morire, certo; paura di perdere il lavoro, perdere la casa, perdere le sicurezze guadagnate negli anni con l’impegno e la fatica. E la paura, magari non cosciente, di perdere, con questo, anche la propria identità. E proprio dall’identità, anche questa volta, come fu per gli USA nel 2001, si ripartirà. Bisognerà di nuovo sforzarsi di capire velocemente, molto velocemente chi siamo. Siamo ancora noi? Allora, quello che io vedo, almeno negli effetti immediati della pandemia attualmente in corso, in quelli già visibili e analizzabili, è che non solo durante la crisi il cambiamento e l’innovazione non si sono arrestati, ma anzi hanno in un certo modo accelerato la loro corsa (ed è proprio qui che si dimostra chiaramente la natura umanitaria dell’innovazione: che viene in nostro soccorso, in caso di pericolo o di bisogno).

LUCA TOMASSINI

LUCA TOMASSINI

Luca Tomassini è un imprenditore e accademico italiano. Fondatore, Presidente e Amministratore delegato del Gruppo Vetrya, è considerato uno dei padri della telefonia mobile italiana e tra gli innovatori più importanti del Paese. È stato nominato Cavaliere del Lavoro dal Presidente Sergio Mattarella e Grande Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. Già direttore dell’innovazione del Gruppo Telecom Italia è professore aggiunto alla Luiss Business School. È Presidente della Fondazione Luca & Katia Tomassini e, dal 2019, di VatiVision. Il suo gruppo è stato premiato più volte dal Great Place to Work Institute tra le imprese dove si lavora meglio in Italia. Ha pubblicato numerosi saggi, tra i quali, di recente, L’innovazione non chiede permesso (2018) e Vite connesse (2015).