Il pensiero intrattiene con i luoghi un rapporto speciale. Ci sono i pensieri che crescono verticalmente, come gli alberi di una foresta; altri sono saldi, rocciosi come le certezze della terraferma. Esistono anche pensieri burrascosi, inafferrabili come i mari e profondi come gli abissi. Il pensiero di Gilles Grelet appartiene a quest’ultima categoria: è un pensiero vorticoso come le maree, solitario come un navigatore che conduce un’esistenza errante, lungo rotte incerte. Se la filosofia è da sempre il tentativo di garantire un senso stabile all’esistente, quella di Grelet è allora una vera e propria anti-filosofia che si infrange contro ogni certezza per abbracciare la vastità e la mutevolezza della vita. Teoria del navigatore solitario, impossibile incrocio tra i lavori di Laruelle e Badiou, il diario che Thoreau scrisse a Walden e i romanzi di Herman Melville e Joseph Conrad, è il tentativo di articolare un pensiero all’altezza dell’irrequieto divenire del tutto. Libro “in cui il mare confluisce nella teoria” anziché esserne semplicemente l’oggetto e in cui i pensieri, spesso scritti con stile aforistico e poetico,affiorano taglienti come scogli dal flusso delle pagine, il Navigatore solitario “troppo marino per le persone d’intelletto, che conoscono solo la terra, troppo teorico per la gente di mare, che si appassiona solo alla vita”, è un’opera unica che a ogni lettura sembra svelarsi e diventare al contempo più enigmatica, dedicata a tutte quelle persone che, in qualche misura, vi si sono già riconosciute.
«Dimoro sull’acqua, senza lasciare mai la mia nave per più di qualche ora, senza incontrare quasi nessuno, vi ho preso quartiere e colto il mio quarto di mare, come si dice dei quarti di nobiltà. Da allora, non ho navigato perché farlo dava un senso alla mia vita, ma perché era la mia vita: se non migliore, quantomeno buona.»