Proponiamo un estratto da Revolution. Storia di una canzone dei Beatles dalla protesta alla pubblicità di Linda Scott e Alan Bradshaw, non solo il racconto di una delle più straordinarie vicende musicali del Ventesimo secolo, ma anche una riflessione sulla cultura pop, il capitalismo e i molti e diversi linguaggi e piani di significato che sono in azione quando usufruiamo di un prodotto culturale.
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Nel 1968, appena prima che John Lennon scrivesse Revolution, venne assassinato Martin Luther King. Lo stesso anno, la polizia aveva fatto sgombrare a forza gli studenti che occupavano gli uffici amministrativi della Columbia University; in Cecoslovacchia imperversava la violenta Primavera di Praga; a Grosvenor Square erano scoppiati scontri tra i manifestanti e la polizia londinese, mentre studenti e sindacalisti si riversavano a milioni nelle strade parigine, portando lo Stato a un passo dal crollo. In Cina era in corso la Rivoluzione culturale guidata dai giovani delle Guardie Rosse, e in Vietnam stava avvenendo il massacro di milioni di persone. Durante l’estate, mentre Paul McCartney e John Lennon discutevano sullo stile musicale di Revolution, una strage precedette le Olimpiadi di Città del Messico, Robert Kennedy fu assassinato e l’attivista Rudi Dutschke subì un attentato con arma da fuoco. Ma quando fu composta Revolution, i Beatles erano lontani da questi sconvolgimenti; ancora scossi dal recente suicidio del loro manager Brian Epstein, erano partiti per l’India per meditare con Maharishi a Rishikesh.
Distanti dal mondo da cui fuggivano, John decise di dire la sua su quel momento storico componendo Revolution, una canzone che tratta esplicitamente di politica contemporanea.
Nel marzo del 1966, John aveva inavvertitamente innescato un’accesa polemica dichiarando a una giornalista che reputava i Beatles “più famosi di Gesù”. Mentre il commento attirò poca attenzione nel Regno Unito, negli Stati Uniti scatenò una profonda ostilità, specialmente nel Sud, dove alcune stazioni radiofoniche misero i Beatles al bando e si svolsero manifestazioni contro il gruppo. Brian Epstein prese seriamente in considerazione l’idea di cancellare il tour statunitense dei Beatles e organizzò delle conferenze stampa per calmare le acque.
Durante il concerto di Memphis nell’agosto del 1966, evento molto contestato che avvenne nonostante il gruppo avesse ricevuto minacce di morte, l’esplosione di un petardo sul palco fece temere ai Beatles che qualcuno stesse sparando. In questo contesto, la band si trattenne dal fare ulteriori commenti politici e dichiarazioni controverse, e quella rimase la loro linea di condotta fino al suicidio di Epstein nel 1967. L’anno successivo, John era determinato a parlare esplicitamente di politica. Come spiegò due anni più tardi:
A quel punto volevo esprimere ciò che provavo sulla rivoluzione. Ritenevo fosse giunta l’ora di parlarne, cazzo, così come ritenevo fosse ora di smetterla di non rispondere sulla guerra del Vietnam, quando andavamo in tour con Brian. Fummo costretti a dirgli: “Stavolta abbiamo intenzione di parlare della guerra, non ci gireremo intorno come al solito”. E volevo dire cosa pensavo della rivoluzione. Ci avevo riflettuto sulle colline in India. E provavo ancora quella sensazione alla “Dio ci salverà”. “Andrà tutto bene”. […] Ma questo è il motivo per cui l’ho fatto, volevo dire la mia sulla rivoluzione. Volevo dirla a te o a chiunque ascolta, comunicare: “Tu che ne dici? Io dico questo”.
All’epoca, artisti folk come Joan Baez e Bob Dylan suonavano inni politici per la gioventù tormentata. Tuttavia, al principio della storia che vogliamo raccontare qui, la musica rock era considerata insignificante, non artistica e apolitica: una risposta puramente commerciale alle fantasie libidinose degli adolescenti. Ma se i Beatles dovevano ancora trattare esplicitamente di politica nella loro musica, stavano comunque affrontando una trasformazione radicale. Dal 1963 al 1966, passarono dall’essere “niente più che una buona band rock’n’roll che canta dimenticabili ritornelli romantici con uno stile gridato e un po’ stridulo” a “un gruppo raffinato ed estremamente talentuoso di compositori-parolieri-interpreti che potrebbero seriamente essere annoverati fra gli artisti di spicco della loro epoca”; non erano più un “gruppo di zazzeroni in giacca e cravatta”, ma “dei bohémien con capelli lunghi e abiti psichedelici”.
Questa trasformazione fu evidente anche nella loro musica. Per esempio, mentre il periodo precedente era stato caratterizzato da canzoni d’amore pop che parlavano semplicemente di relazioni ragazzo-ragazza, dal 1965 in poi i Beatles iniziarono a promuovere un tipo particolare di filosofia romantica. Le canzoni The Word, Strawberry Fields Forever, Fool on the Hill, Nowhere Man, Glass Onion e Within You Without You possono essere interpretate come il tentativo di offrire agli ascoltatori la guida a una visione più autentica del mondo che, pur non riconosciuta come tradizionalmente o esplicitamente politica, almeno da un punto di vista convenzionale, era comunque pensata chiaramente per influenzare il modo in cui la gente viveva la propria vita[…].
La canzone
Quando tornarono a Londra e si misero all’opera per registrare Revolution, John Lennon cantava sdraiato per trasmettere una serenità meditativa alla lenta canzone blues. Sorse una discussione fra i musicisti, con Paul, Ringo e George che reputavano la canzone troppo lenta e non abbastanza commerciale, mentre John insisteva sul fatto che quel ritmo permettesse al testo di essere compreso più chiaramente dagli ascoltatori, come si confaceva a un brano che era una dichiarazione politica. John cedette, e di conseguenza venne rapidamente sfornato e registrato un arrangiamento alternativo veloce e hard rock.
Fu quest’ultima traccia che comparve come lato B di Hey Jude alla fine di agosto, proprio mentre i canali televisivi trasmettevano le immagini della polizia di Chicago che picchiava i manifestanti alla convention democratica. Il singolo Hey Jude/Revolution venne pubblicato durante questo drastico cambiamento artistico e politico. Entrambe le tracce del nuovo disco erano audaci da un punto di vista “alternativo”: Hey Jude durava più di sette minuti, la Revolution in stile hard rock era politica, e i testi di entrambe andavano ben oltre le strofette dal sapore romantico che avevano dominato i brani pop del gruppo. Quando fu pubblicato il trenta agosto, il singolo balzò in cima alle classifiche britanniche e americane. All’apice di quel successo, l’addetto stampa dei Beatles annunciò che il nuovo album avrebbe debuttato in tempo “per intercettare la corsa alle compere natalizie”.
The Beatles con la sua più lenta Revolution 1 apparve infatti il ventidue novembre, e schizzò subito in testa alle classifiche degli LP su entrambe le coste dell’Atlantico; anche se il costo notevole (dovuto in parte al fatto che si trattava di un doppio album e in parte a un’imposta sui beni di lusso appioppata dal governo britannico) lo rese “fuori dalla portata di tutti tranne che dei ricchi pigri”. Ben presto il disco divenne noto come The White Album data la semplice copertina bianca, con il titolo stampato in rilievo. Richard Hamilton, “l’inventore del- la pop art britannica”, la disegnò con lo scopo dichiarato di farla apparire “una delle pubblicazioni artistiche più esoteriche in giro […] Per accentuare questa ambiguità, aggiunsi un tocco da editoria di nicchia numerando ogni singola copertina”. La numerazione era intesa sia da Hamilton che dai Beatles come una presa in giro: si trasformava in “edizione limitata” quella che sarebbe stata una prima produzione massiccia.
Pertanto il White Album era intriso di un’ironia che contrapponeva arte e commercio; come la pop art, l’album assumeva un atteggiamento ambiguo verso entrambi.
Altra ironia, insieme all’allusione, pervadeva la musica. Come Sgt. Pepper prima di lui, il White Album differiva da altra musica pop per il modo in cui citava stili musicali appartenenti a epoche e luoghi differenti: è un pastiche per eccellenza. Tuttavia, le canzoni del White Album spaziano moltissimo nel loro contenuto emotivo. In realtà, una parola come “ironia” non è abbastanza sfaccettata per cogliere la varietà degli stili adottati; in aggiunta, sono necessari termini come “satira”, “parodia” e “caricatura” – e per- sino “lamento”. Le canzoni erano piene anche di contenuti bizzarri che nulla avevano a che fare con le storie d’amore. Una canzone, Glass Onion, sfidava direttamente gli ascoltatori a non attribuire troppo peso alla musica dei Beatles, ma, in mezzo a molte altre canzoni che giocavano al limite dell’interpretazione tradizionale, pareva quasi un invito gratuito.
La band
È fuori discussione che i Beatles siano stati un gruppo molto commerciale; come dichiarò John Lennon negli anni Sessanta: “Cosa c’è di male nell’essere commerciali? Siamo la band più commerciale della Terra!”. Questo tipo di intento emerse chiaramente l’estate della fondazione della Apple Corps: un espediente fiscale dettato dal suicidio di Brian Epstein, con cui i Beatles cercarono di assumere il controllo dei propri affari e, magari, di costruire un impero commerciale. Misero in piedi una società dal nulla, un’organizzazione che esisteva solo sulla carta ed era costituita da varie divisioni – Apple Music, Apple Re- tail, Apple Films, Apple Electronics, Apple Records – “che comparvero tutte insieme, evocate dall’imperioso schiocco di dita di quattro multimilionari”. Ma la multinazionale era anche una “liberazione dal controllo di ‘quelli in giacca e cravatta’ […] la dimostrazione che gente sotto i cinquanta, senza gilet e colletti bianchi, fosse in grado di costruire e gestire un’organizzazione”.
Hey Jude e il White Album furono rispettivamente il primo singolo e il primo album a essere distribuiti con l’etichetta della Apple su ogni copia. Tuttavia, le tracce dei dischi non erano proprietà della Apple Records; al contrario, appartenevano per contratto alla casa disco- grafica dei Beatles, la EMI/Capitol Records. In questo caso, quindi, l’etichetta della Apple voleva essere semplicemente un marchio distintivo. In realtà, i Beatles produssero altri musicisti con la loro compagnia, e in quelle circostanze l’etichetta indicava proprietà dei diritti. Anche se in una lettera al giornale radicale Black Dwarf John Lennon aveva dichiarato che, nelle sue intenzioni, la Apple Records doveva mostrare come dei lavoratori si fossero riappropriati dei mezzi di produzione, i Beatles rifiutarono di pubblicare le canzoni della band Goldfinger, che aveva firmato con la compagnia, sostenendo che la loro musica non fosse abbastanza commerciale.
Inoltre, anche se i quattro non gradivano che le loro canzoni venissero associate ai prodotti di qualcun altro, erano aperti all’uso per scopi pubblicitari delle band gestite dalla Apple; nel 1969, la compagnia pubblicò un campionario su EP sponsorizzato dalla Walls Ice Cream. Il singolo Hey Jude/Revolution fu pubblicizzato assieme a tre dischi di nuovi artisti della Apple: Jackie Lomax, Mary Hopkin e la Black Dyke Mills Brass Band.
Così, all’epoca del suo debutto, la stessa Revolution in versione hard rock fu utilizzata per pubblicizzare, promuovere e commercializzare altri prodotti musicali della scuderia Apple. I Beatles fecero stampare le stesse pubblicità sia sui giornali radicali che sulla stampa musicale. Forse l’obiettivo era soltanto quello di sponsorizzare la loro musica raggiungendo il pubblico adatto, o forse inserire pubblicità sui giornali del movimento era un tentativo di sostenerlo da parte dei Beatles. Nel giro di un anno dalla fondazione, gli stessi Beatles si trovarono a lottare per il controllo della loro compagnia: la Apple Boutique, un negozio di Londra che vendeva indumenti e altri articoli, era fallita, e Paul aveva dipinto la scritta Revolution sulle vetrine oscurate – non un graffito di protesta, ma una pubblicità per il singolo.
Da Revolution di Linda Scott e Alan Bradshaw. In alto, foto di Neil Martin – Unsplash