Proponiamo un estratto del volume Caldo. Breve storia dello scioglimento dell’Artico di Mark C. Serreze, geografo e direttore del National Snow and Ice Data Center. Il libro ripercorre tutta la vicenda ambientale dell’Artico, attraverso decenni di esplorazione e ricerca sul campo. Un saggio non solo per saperne di più sullo scioglimento dei ghiacci, ma per guardare il futuro in prospettiva, perché quello sta accadendo è solo un’anticipazione delle catastrofi climatiche che interesseranno il resto del mondo e che vediamo già in atto.

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Gli scienziati sanno da tempo i cambiamenti dovuti al riscaldamento del pianeta sarebbero stati più pronunciati nella regione artica. Ma la realtà di quanto sta accadendo al Nord supera ogni aspettativa. Le temperature dell’aria nell’Artico stanno aumentando almeno due volte più velocemente di quanto accade nel resto del mondo. Questo riscaldamento fuori misura ha persino un nome: amplificazione artica. Le calotte polari e i ghiacciai artici si stanno sciogliendo, così come l’enorme calotta glaciale della Groenlandia, contribuendo all’innalzamento del livello del mare. La copertura di ghiaccio marino galleggiante dell’Artico è in declino, soprattutto in estate e all’inizio dell’autunno, con effetti sugli ecosistemi marini che si ripercuotono sulla catena alimentare dal fitoplancton agli orsi polari.

Il permafrost, il terreno perennemente ghiacciato, si sta riscaldando e scongelando, e gli arbusti e gli alberi si stanno diffondendo in quelle che erano aree della tundra senza alberi e battuta dal vento. Renne, caribù e buoi muschiati muoiono di fame in massa a causa delle croste ghiacciate formatesi in seguito alle piogge invernali sempre più frequenti e che inibiscono la ricerca di cibo. Immagini iconiche come quella di un orso polare in piedi su una banchisa che si restringe appartengono ormai al passato; i cambiamenti che si verificano nell’Artico sono ferite molto più profonde. In qualità di scienziato del clima che ha trascorso quasi 40 anni a studiare il nord, ho avuto la possibilità di osservare lo spettacolo dalla prima fila. E ogni anno che passa, lo osservo con crescente orrore.

Molte persone si sorprendono quando dico loro che un tempo ero scettico sul ruolo degli esseri umani nel cambiamento climatico. Quando i primi segni di un riscaldamento dell’Artico iniziarono ad emergere ad inizio anni Novanta, mi sembrava si trattasse di una variabilità climatica naturale – parte cioè di un ciclo naturale. I cambiamenti nei venti potevano spiegare i modelli emergenti del cambiamento di temperatura, così come l’evidenza che la copertura di ghiaccio marino fosse in declino. Per come leggevo io i dati, non c’era molto bisogno di invocare lo spettro dell’aumento dei livelli di gas serra. Non si trattava di stabilire se gli effetti del riscaldamento da effetto serra alla fine si sarebbero manifestati: la scienza era già in possesso di solide prove a questo riguardo. Si trattava invece di sapere se i cambiamenti attesi fossero già emersi, e non ero affatto convinto che lo fossero.

Anche all’inizio del Ventunesimo secolo, quando l’evidenza che l’Artico stava cambiando non poteva più essere ignorata, avevo ancora dubbi sul perché ciò stesse accadendo. Nel 2000, ho collaborato con alcuni colleghi che conducevano ricerche in diversi campi della scienza artica per lavorare a un’analisi completa delle prove del cambiamento emergente.

Abbiamo concluso che mentre alcuni dei cambiamenti osservati erano coerenti con gli effetti dell’aumento dei livelli di gas serra nell’atmosfera, per altri non era così. Ma i cambiamenti e le prove continuavano ad arrivare, divenendo sempre più pronunciati. Alla fine, mi sono arreso all’evidenza schiacciante che la causa fosse l’utilizzo dei combustibili fossili.

Il mio primo viaggio nell’Artico risale al 1982, in un’epoca in cui la regione era, per molti aspetti, ancora quella di un tempo, quella con cui le popolazioni del nord avevano vissuto per migliaia di anni, molto prima dell’era leggendaria delle prime esplorazioni del Diciannovesimo e inizio Ventesimo secolo. Appena uscito dal college e in procinto di entrare alla scuola di specializzazione, ho avuto l’opportunità di prendere parte a un progetto per studiare due piccole calotte di ghiaccio sull’altopiano Hazen dell’isola settentrionale di Ellesmere, nell’arcipelago artico canadese. Ero ingenuo ma pieno di entusiasmo, con l’aspirazione di diventare uno scienziato del clima. E se pure alla fine ho raggiunto quell’obiettivo, intraprendendo una carriera nella ricerca sul clima presso l’Università del Colorado a Boulder, non sapevo cosa mi attendesse – e cosa attendesse l’Artico.

Gli scienziati sono formati per essere scettici, richiedere prove e rimanere obiettivi; il mio scetticismo iniziale sul ruolo umano nel mutevole Artico riflette un’attitudine di questo tipo, e lo stesso vale per il mio totale capovolgimento di idee una volta che le prove sono diventate schiaccianti. Tento di rimanere oggettivo, ma essere oggettivo non significa essere privo di sentimenti. La questione del cambiamento climatico e di ciò che sta accadendo all’Artico è diventata personale. Ora mi ritrovo a far parte del coro di scienziati che, ogni volta che possono, affermano che il cambiamento climatico è reale, che la causa siamo noi e che l’Artico è un segnale di avvertimento per ciò che accadrà anche nel resto del mondo.

Un grande punto di svolta per me è stato nel 2017, quando le due piccole calotte glaciali nell’Artico canadese di cui mi ero occupato come giovane ricercatore si sono rivelate ormai prossime alla scomparsa. Un giorno di quell’estate, ho camminato lungo il corridoio del National Snow and Ice Data Center per visitare il mio collega Bruce Raup, che era profondamente coinvolto in un progetto per mappare tutti i ghiacciai e le calotte glaciali del mondo, facendo uso di dati provenienti da satelliti ad alta risoluzione.

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L’oggetto del suo lavoro è un bersaglio mobile perché la maggior parte dei ghiacciai e delle calotte polari del mondo si stanno riducendo e contribuiscono all’innalzamento del livello del mare. Mi è venuto in mente che avrebbe potuto essere interessante utilizzare questi dati ad alta risoluzione per controllare la situazione di quelle calotte glaciali. A Bruce è servito del tempo per trovare immagini satellitari prive di nuvole della regione, poiché l’Artico è generalmente coperto dalle nubi. Ma quando ha trovato la loro posizione, ingrandendo per vedere meglio, siamo rimasti sbalorditi. Le calotte glaciali si erano ridotte a un paio di chiazze di ghiaccio sporche, destinate a scomparire del tutto nel giro di pochi anni.

Ho visitato le calotte di ghiaccio abbastanza spesso per dire di conoscerle bene, per arrivare a sentirle mie. Vedere la loro scomparsa mi ha scosso nel profondo. Da allora, il mio impegno a parlare il più possibile di ciò che sta accadendo al nostro pianeta e all’Artico in particolare è diventato per me una missione.

Questo ci porta al mio libro, Caldo, un viaggio attraverso la mia carriera di scienziato del clima, trascorsa osservando e cercando di fare i conti con la trasformazione del Nord. Ispirato in gran parte dalla scomparsa di quelle due piccole calotte di ghiaccio, inizialmente ripercorre i primi anni, quando l’Artico era ancora l’Artico di un tempo. Descrive poi gli anni di confusione, quando io e altri nella comunità scientifica abbiamo iniziato a capire che l’Artico stava cambiando ma stavamo ancora cercando di capire perché. Infine ci porta al presente, dove le domande ruotano attorno al significato della trasformazione dell’Artico per il resto del pianeta e se l’Artico di un tempo possa mai tornare. È un libro che somiglia sia a un thriller, sia a una storia di ciò che significa fare scienza – un’attività squisitamente umana. Ma soprattutto parla di come uno scienziato un tempo scettico, messo di fronte a prove schiaccianti, abbia finalmente visto la verità.

Sono successe molte cose dalla prima pubblicazione di Caldo, nel 2018. Le due piccole calotte glaciali, come previsto, ora sono completamente scomparse; altre, sicuramente, faranno la stessa fine. Ondate di calore prima inimmaginabili colpiscono il Nord. Durante l’ondata di caldo estivo siberiano del 2020, la temperatura dell’aria nell’insediamento artico di Verchojansk, in Russia, ha superato i 37 gradi e, a causa di quell’ondata di caldo di lunga durata, in Siberia sono scoppiati enormi incendi boschivi. Anche lo scongelamento del permafrost sta presentando problemi crescenti nel nord, poiché il ghiaccio si scioglie e la superficie crolla. Ciò mette a rischio infrastrutture come edifici, condutture, piste e strade. Come esempio di spicco recente, lo scongelamento del permafrost ha portato alla rottura di un serbatoio di stoccaggio del carburante vicino a Noril’sk, in Russia, causando una massiccia fuoriuscita di olio combustibile in torrenti e fiumi.

Inoltre, le comunità di allevatori di renne lottano per mantenere in vita i loro animali di fronte a devastanti episodi di piogge sulla neve che rendono difficile il foraggiamento. I popoli del Nord non possono più fare affidamento sul prevedibile susseguirsi delle stagioni nel modo in cui facevano un tempo, e faticano ad adattarsi.

Passando all’oceano, la copertura di ghiaccio marino dell’Artico continua a ridursi e ad assottigliarsi. Ci sono molte parole e frasi diverse che i popoli del nord e gli scienziati usano per descrivere il ghiaccio marino, ma una delle più incisive è stata pronunciata uno scienziato a bordo del rompighiaccio tedesco RV Polarstern, che ha sostenuto l’Osservatorio multidisciplinare alla deriva per lo studio del clima artico (MOSAiC). Lo scienziato ha detto semplicemente: “Il ghiaccio marino sta morendo”.

Un Oceano Artico senza ghiaccio in estate sembra inevitabile; molti scienziati pensano che questo accadrà negli anni 2040 e la transizione è ben avviata.

Nel settembre 2020, il nuovo rompighiaccio russo Arktika a propulsione nucleare ha lasciato il porto per la sua prima missione operativa. Alla ricerca di ghiaccio spesso per testare le capacità della nave, ha invece trovato facile navigare fino al Polo Nord. Nell’agosto di quell’anno, sul lato atlantico dell’Artico, le acque libere dai ghiacci si estendevano fino a soli 5 gradi dal polo, consentendo alla Polarstern di compiere il proprio viaggio verso il tetto del mondo. Sembra sempre più che con meno ghiaccio, la rotta del Mare del Nord lungo la costa russa diventerà un’utile scorciatoia per la navigazione tra gli oceani Atlantico e Pacifico.

Le tensioni internazionali e la militarizzazione dell’Artico crescono man mano che le nazioni realizzano quanto sia importante sul piano strategico ed economico un Artico privo di ghiaccio, ricco di risorse e più facilmente accessibile. Proprio nei giorni in cui scrivo questa prefazione la Russia ha formalmente esteso la sua rivendicazione sui fondali dell’Oceano Artico fino alle zone economiche esclusive del Canada e della Groenlandia. Se la richiesta avrà successo, porterà con sé diritti esclusivi su tutte le risorse sotto il fondo del mare, come petrolio, gas naturale e minerali.

Siamo entrati nell’Antropocene, una nuova era in cui gli esseri umani rappresentano l’elemento più influente sul clima e sull’ambiente, e stiamo assistendo alla nascita di un nuovo Artico. Speriamo di avere la saggezza per creare una società globale unita capace di tutelare al meglio il nostro pianeta.

Da Caldo. Breve storia dello scioglimento dell’Artico di Mark C. Serreze. In alto, foto di Sergey Kuznetsov – Unsplash

Mark C. Serreze

Mark C. Serreze è un geografo americano, direttore del National Snow and Ice Data Center. Dal 2019 è professore emerito nel Dipartimento di Geografia della University of Colorado Boulder. I suoi studi sul surriscaldamento globale e sullo scioglimento dei ghiacciai artici sono conosciuti in tutto il mondo. Caldo è il suo primo libro tradotto in italiano.