Sono cresciuta in Gran Bretagna. Un’esperienza che mi ha lasciato (almeno) due segni indelebili.
Il primo è il mio amore per gli alberi. Vivevo in una famiglia turbolenta, perciò da teenager passavo il tempo sul grosso ramo basso di un enorme faggio. Un po’ leggevo, un po’ fissavo il cielo tra le fronde. Il faggio era imponente, alto almeno quanto la villa inglese a tre piani costruita lì accanto, e il sole filtrava tra il verde, l’oro e il blu delle sue foglie. L’aria sapeva di erba tagliata, luce d’estate e alberi centenari. Mi sentivo sicura e protetta, connessa a qualcosa infinitamente più grande di me.
Il secondo segno che porto con me è l’ossessione professionale per il cambiamento. Dopo il college ho iniziato a collaborare con una grossa azienda di consulenze, chiudendo fabbriche nell’Inghilterra del nord. Ho passato mesi con queste aziende dalle radici secolari, un tempo in grado di dominare a livello mondiale, ora tragicamente incapaci di reggere la concorrenza straniera.
Per anni ho tenuto separate queste due parti di me. Dato il mio percorso lavorativo, ho dovuto capire perché in molti tendano a negare l’evidenza e perché cambiare sia così difficile. Ho vissuto una bella vita, ho ottenuto una cattedra al MIT e sono divenuta un’esperta di strategie tecnologiche e cambiamento organizzativo, lavorando con organizzazioni di ogni forma e dimensione, per aiutarle a cambiare.
Passavo le mie vacanze facendo escursioni in montagna, guardando gli aceri fiammeggianti e i pioppi che tremolavano al vento. Per me lavoro e passioni appartenevano però a due compartimenti stagni.
Il mio lavoro mi faceva guadagnare bene, era divertente e spesso molto interessante, ma si trattava di qualcosa che facevo prima di tornare alla vita reale. E la vita reale erano le coccole sul divano con mio figlio. Sdraiarci assieme su una coperta sotto agli alberi, facendogli conoscere il mondo che amavo. Gli alberi mi sembravano immortali: una fonte di vita in rinnovamento costante che esisteva da un milione di anni e avrebbe continuato a esistere per un altro milione.
Poi, mio fratello – giornalista ambientalista freelance e autore del Libro degli esseri a malapena immaginabili, uno splendido saggio su creature che non dovrebbero esistere eppure lo fanno, e di A New Map of Wonders, una complessa meditazione sulla fisica degli esseri umani – mi ha convinto ad approfondire gli aspetti scientifici del cambiamento climatico. Chissà se sperava di farmi capire quanto quell’argomento fosse correlato al mio lavoro. Nel caso, c’è riuscito.
A quanto pare, gli alberi non sono immortali. Non intervenire sul cambiamento climatico avrà molti effetti, e uno di loro sarà proprio la morte di milioni di alberi. I baobab dell’Africa meridionale, tra i più antichi alberi del mondo, stanno morendo. E così i cedri del Libano. Nella parte occidentale dell’America le foreste muoiono più in fretta di quanto crescano. La comoda certezza sulla quale avevo basato la mia vita – che ci sarebbero sempre stati tronchi torreggianti e il dolce profumo delle foglie – era diventata qualcosa per cui combattere, e aveva smesso di sembrarmi una realtà immutabile.
La comodità della mia vita era inoltre uno dei motivi per i quali le foreste erano a rischio. E non si trattava solo di alberi. Il cambiamento climatico minacciava non solo il futuro di mio figlio, ma quello di ogni bambino. Lo stesso era vero per le sempre maggiori disuguaglianze che facevano crescere odio, estremismo e sfiducia.
Mi sono convinta che concentrarsi soltanto sul profitto a ogni costo stava mettendo in pericolo il futuro del pianeta e dei suoi abitanti. Ho quasi lasciato il mio lavoro.
Passare il giorno insegnando al Master di Business Administration (MBA), scrivendo saggi accademici e offrendo consulenze alle aziende perché guadagnassero ancora di più mi sembrava fuori luogo. Volevo fare qualcosa. Ma che cosa? Ci ho messo un paio d’anni per rendermi conto di essere già al posto giusto al momento giusto. Ho cominciato a lavorare con persone che avevano già avuto la bizzarra idea che le imprese potessero salvare il mondo. Un paio di loro dirigevano aziende da miliardi di dollari. La maggior parte erano però in imprese molto più piccole o in posizioni di minor prestigio. Tra di loro c’erano aspiranti imprenditori, consulenti, analisti finanziari, vicepresidenti e manager addetti agli acquisti.
Una di loro voleva utilizzare la sua azienda di tappeti in una delle zone più depresse del New England per offrire agli immigrati posti di lavoro da operai specializzati. In molti cercavano di rispondere alla crisi del clima investendo nell’energia solare o eolica. Uno si dedicava anima e corpo al risparmio energetico. Uno faceva in modo che la sua azienda assumesse e istruisse teenager a rischio. Un altro dava un lavoro ai carcerati, e un’altra ancora faceva in modo di rendere pulita l’attività di tutte le fabbriche che la sua azienda aveva aperto in giro per il mondo.
Molti si davano da fare perché il grande capitale investisse sui business leader impegnati a risolvere i grandi problemi della nostra epoca.
Si trattava sempre di abili imprenditori, consapevoli della necessità, per ottenere risultati su grande scala, di perseguire due obiettivi paralleli: far prosperare le aziende e cambiare il mondo. Erano tutti guidati dalla passione e dall’impegno, convinti che l’impresa privata fosse uno strumento potentissimo per affrontare problemi come il cambiamento climatico e arrivare a una trasformazione complessiva del sistema.
Mi è piaciuto tanto lavorare con loro, e continua a piacermi. Si sforzano di vivere in modo integrato, rifiutandosi di separare il lavoro dalle loro più radicate convinzioni. Lottano per creare quelle che uno di questi leader di mia conoscenza chiama organizzazioni “davvero umane”: aziende che trattano le persone con dignità e rispetto, volte tanto al perseguimento di valori comuni quanto alla ricerca di soldi e potere. Cercano di fare in modo che gli affari siano al servizio dei sistemi naturali e sociali fondamentali per tutti.
Temevo però che un simile approccio al management non potesse mai diventare mainstream, e che rimanesse limitato a poche persone eccezionali in grado di portare avanti sia l’impegno sia il profitto.
Credevo che alla lunga l’unico modo per risolvere i problemi sarebbe stato cambiare le regole del gioco: regolamentare le emissioni di gas serra e altre fonti di inquinamento in modo che ogni azienda fosse incentivata a fare la cosa giusta, aumentare il salario minimo, investire in istruzione e prevenzione, ricostruire le istituzioni per rendere le nostre democrazie effettivamente democratiche, trasformare il dibattito pubblico per renderlo all’insegna del rispetto e dell’impegno per il benessere comune.
Non pensavo che poche aziende impegnate potessero mettere in atto il necessario cambiamento sistematico. I miei studenti – stavo tenendo un corso di imprenditoria sostenibile – erano preoccupati come me. Mi ponevano due domande: posso davvero guadagnare mentre faccio la cosa giusta? Se ci riuscissi, cambierebbe davvero qualcosa?
Il libro che ho scritto è il tentativo di rispondere a queste domande, il risultato di quindici anni di riflessioni su come e perché sia possibile costruire un capitalismo redditizio, equo e sostenibile cambiando la nostra concezione dello scopo delle aziende, il loro ruolo sociale e il loro rapporto con stato e governo.
Non sto dicendo che ripensare il capitalismo sarà facile o economico. La mia carriera mi ha permesso di vedere in prima persona quanto sia difficile innovare. Per tanti anni ho lavorato con aziende messe in difficoltà dal cambiamento. Ho lavorato con la GM mentre cercava di resistere alla concorrenza della Toyota. Con Kodak mentre l’industria delle pellicole veniva messa in ginocchio dalla fotografia digitale. Con Nokia – che all’apice del suo successo vendeva più di metà dei telefoni cellulari al mondo – mentre Apple rivoluzionava il settore.
Trasformare le imprese può essere arduo. Trasformare i sistemi politici e sociali mondiali può esserlo ancor di più. Ma è senza dubbio possibile, e guardandovi intorno potete vedere che sta accadendo.
Mi ricordo una cosa che mi è successa qualche anno fa, mentre mi trovavo in Finlandia per una rilassante vacanza aziendale. Per la prima e ultima volta nella mia agenda avevo segnato tra gli appuntamenti “ore 17.00 – sauna”. Secondo i piani, mi presentai alla sauna, mi spogliai completamente e mi immersi nell’acqua bollente. “E ora”, mi spiegò la mia ospite, “è ora di un tuffo nel lago”. Senza protestare mi affrettai sulla neve (tutti erano attenti a non guardarmi: i finlandesi sono estremamente discreti su certe questioni) e con molta cautela ho usato una scaletta di metallo per calarmi all’interno di un buco ricavato nel ghiaccio ed entrare nel lago. Pausa. La mia ospite, dalla cima della scaletta mi stava guardando. “Sai”, mi disse, “oggi non me la sento di farmi il bagno”.
Attualmente passo gran parte del mio tempo lavorando con imprenditori che cercano di fare le cose in modo diverso. Si rendono conto del bisogno di un cambiamento. Sanno anche vedere la strada giusta. Ma esitano. Sono troppo indaffarati. Non se la sentono di agire già oggi. A volte è come se dal basso guardassi gli altri in cima alla scala che non hanno il coraggio di rischiare e di mettersi in situazioni potenzialmente scomode. Ma sono comunque piena di speranza, perché sono certa di tre cose.
In primo luogo, so che il cambiamento ci fa sentire così. Sfidare lo status quo è difficile, e spesso ci sentiamo soli e al freddo. Non deve sorprenderci che gli interessi dietro a chi da anni nega il cambiamento climatico oggi vogliano farci credere che non ci sia nulla da fare. Chi è al potere reagisce sempre così a possibili novità.
In secondo luogo, so che si può fare. Abbiamo a disposizione tecnologia e risorse sufficienti a sistemare quel che non va. Gli esseri umani hanno risorse infinite. Se decidiamo di ricostruire le nostre istituzioni, di dar vita a un’economia completamente circolare e limitare i danni che stiamo causando alla natura, possiamo riuscirci. Durante la Seconda Guerra Mondiale, i russi spostarono di più di mille miglia a est la loro intera economia in meno di un anno. Cento anni fa, l’idea che donne e neri valessero quanto gli uomini bianchi per molti era assurda. È una battaglia che stiamo ancora combattendo, ma è evidente che vinceremo.
Infine, sono sicura che abbiamo un’arma segreta. Ho passato vent’anni della mia vita lavorando con aziende che stavano cercando di trasformarsi. Ho imparato che così come era importante avere la giusta strategia, era cruciale anche ristrutturare l’organizzazione. Ma ho imparato soprattutto che queste condizioni sono necessarie ma non sufficienti. Le imprese che sono effettivamente riuscite a cambiare sono quelle che avevano un motivo per farlo: quelle che avevano uno scopo che non fosse solo la massimizzazione dei profitti.
Chi crede che il proprio lavoro abbia un significato che va al di fuori del mero egoismo è in grado di raggiungere risultati straordinari, e abbiamo l’opportunità di utilizzare questi obiettivi condivisi su scala mondiale.
Non è facile. A volte si ha davvero la sensazione di scendere lungo una scaletta di metallo per immergersi in un buco che attraversa trenta centimetri di ghiaccio. Ma non dimentichiamo che una sfida del genere non è solo difficile, è anche esaltante.
Fare qualcosa di diverso ci fa sentire vivi. Essere circondati da amici e alleati, combattere per quello che amiamo: tutto questo rende la vita più preziosa e ci dona speranza. Vale la pena di sfidare il freddo.
Venite con me. Abbiamo un mondo da salvare.
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In alto, foto di Justus Menke – Unsplash