Epistemologa del combattimento

Brenda Laurel racconta due storie diverse sulla prima volta che vide un computer.

Nella prima, ha dodici anni. È il giorno di Halloween, siamo in Ohio, è il 1962. Nel descrivere il suo costume – una pannocchia – dice, secca: “era l’epoca di Andy Warhol”. Il costume era stato confezionato dalla madre con una rete metallica riempita di cotone giallo. Brenda riusciva a malapena a vedere dai due buchi ricavati per gli occhi, ma la madre l’aveva convinta che avrebbe vinto il primo premio come miglior costume nella sfilata che si teneva nel supermercato del paese. Una volta raggiunto il locale, però, era già stato premiato un altro ragazzino. La madre di Brenda, una “donna minuta e combattiva convinta che il mondo le puntasse sempre il fucile contro” andò a lamentarsi con il responsabile, il manager del negozio di hardware. Come premio di consolazione, l’uomo prese un oggetto dallo scaffale e glielo porse: una piccola scatola di plastica con la parola ENIAC stampata sopra. “È un computer” disse.

Il gioco ENIAC aveva un mazzo di carte, ciascuna contenente una domanda. La ragazzina ne prese una in cima al mazzo – “Qual è la distanza tra la Terra e la luna?” – la inserì nella macchina, e fece girare una manovella sul lato. La risposta fu sputata fuori dall’altro lato: era stampata sul retro della carta. Brenda non aveva colto il trucco, e non poteva sapere che il vero ENIAC avrebbe dato la risposta con l’aiuto di un gruppo di donne programmatrici. Ma rimase meravigliata all’idea di una macchina in relazione con il cosmo. “Ebbi un’epifania” ricorda. “Per un momento mi sono sentita catapultata fuori dalla mia gabbia, lontana dall’epoca dei sussidiari e delle macchine da scrivere e in un tempo glorioso in cui i computer avrebbero dato risposta alle nostre domande difficili.”

Nella seconda storia, è più grande. È la metà degli anni Settanta, e la donna sta studiando per il PhD in teatro alla Ohio State, una materia di studi adatta all’aspirante vincitrice di una sfilata di costumi. Uno dei suoi più cari amici, Joe Miller, lavora in un laboratorio di ricerca lì vicino, e una sera la porta in studio, dopo l’orario di lavoro, per mostrarle il secondo computer della sua vita. Dipingeva, nella sua descrizione, “pixel da Marte”. Proprio come si era immaginata il giocattolo dell’ENIAC della sua infanzia, era una macchina che parlava con le stelle. Cadde sulle ginocchia. “Qualsiasi cosa sia,” disse “ne voglio un pezzo”.

Fortunatamente per Brenda, Joe aprì una piccola società di sviluppo software, il tipo di società che esisteva prima del monopolio di Apple e Microsoft. Il suo negozio scriveva programmi per CyberVision, un computer primitivo che veniva venduto esclusivamente da Montgomery Ward, ormai finito nel dimenticatoio. Si collegava a un normale schermo televisivo – il telecomando del televisore aveva la doppia funzione di mouse – e i programmi erano in musicassette standard, o “cybersette” con dati e audio su canali diversi. Come personal computer, CyberVision precorreva i tempi. Offriva un’intera serie di programmi: software finanziari, giochi, strumenti per l’istruzione, e favole animate per bambini, tutto reso in pixel su 2K di RAM.

Le favole furono la prima incursione di Brenda nell’arte del software.

Aveva studiato le favole a teatro, e la sua produzione itinerante di Robin Hood, messo in scena tra le querce del campus della Ohio State, era stata un successo per grandi e piccini. Nonostante la sua ignoranza in programmazione, Joe le chiese di andare a lavorare con lui, per progettare fiabe pixelate per CyberVision. Divenne la sua gavetta. “Senza sapere nulla è stato difficile”, si immerse nel mondo dell’informatica facendo “tutto, dal graphic design alla programmazione al preparare il caffè”. In quel periodo, il codice veniva tracciato a mano con carta e matita prima di essere convertito a mano nel linguaggio compreso dal microprocessore CyberVision CDP1802, un chip integrato utilizzato da una serie di microcomputer amatoriali e per i consumatori negli anni Settanta. Mentre tramutava Riccioli d’oro e i tre orsi in animazioni pixel a quattro colori, Brenda imparava i trucchi del mestiere.

In evidenza nel catalogo primaverile di Montgomery Ward nel 1978, l’originale CyberVision vendette nel primo anno diecimila copie, non male per un’azienda informatica di Columbus, Ohio. Ma il mercato dei personal computer era piccolo e la competizione serrata: Sears aveva i sistemi Atari, Radio Shack pubblicizzava i suoi computer Tandy, era appena cominciata l’età dell’oro delle sale giochi. Quando CyberVision chiuse nel 1979, Brenda non aveva ancora discusso la tesi. Ma non era importante, era diventata una game designer. Quando si trasferì in California per andare a lavorare alla Atari, vide l’oceano per la prima volta. […]

In California, Brenda progettava software per i computer Atari 400 e 800. Dal momento che Atari si era in origine fatta un nome coi videogame da sala giochi, l’azienda voleva che i suoi personal computer avessero la loro versione dei giochi più celebri, e Brenda impiegò un sacco del suo tempo e delle sue energie a eseguire il porting dei giochi Atari sui computer. La fecero impazzire: per come la vedeva, i giochi funzionavano già meglio su una console che costava un decimo. Quando il suo team riuscì a importare Ms Pac Man, andò dal presidente della divisione informatica e disse: “Sa una cosa? Non ce la faccio più. Lasci che le mostri una cosa.” Andò alla lavagna bianca ed elencò tutte le cose che pensava che Atari avrebbe dovuto fare con i computer da casa: finanza personale, istruzione, programmi di elaborazione testi. “E il tizio disse: ‘Il tuo stipendio è raddoppiato e risponderai direttamente a me’.”

Questo è il genere di salto tipico compiuto da Brenda: a piedi uniti. Quando decise che i sovrintendenti del dipartimento la volevano silurare, attraversò la strada per andare nel laboratorio di ricerca di Atari. A capo c’era Alan Kay, un informatico noto per il suo lavoro pionieristico nella programmazione orientata agli oggetti e per aver progettato finestre sovrapposte sul desktop di un computer. Kay prese Brenda sotto la sua ala, assicurandole diversi altri anni ad Atari. Nel laboratorio di Kay, progettò un sistema di intelligenza artificiale sulla base della Poetica di Aristotele, per generare nuovi scenari per giochi al computer. Da lì, passò ad Activision, dove produsse giochi come Maniac Mansion, e poi ad Apple, dove portò con sé alcuni dei suoi amici più radicali – come il pioniere dell’LSD Timothy Leary – a dialogare con il gruppo che si occupava di interfaccia neurale. A un certo punto riuscì anche a finire la sua tesi, in cui sosteneva che i programmi informatici sono come il teatro: hanno entrambi un copione, e nessuno dei due esegue o viene eseguito due volte nello stesso modo.

La casa di Brenda si raggiunge percorrendo per diversi chilometri una strada a una sola corsia che attraversa un bosco di madroni. C’è un labirinto disegnato con il gesso sul vialetto e uno scaffale di memorabilia di Star Trek in salotto. Sulla porta dell’ufficio, una placca recita BRENDA LAUREL, PH.D, EPISTEMOLOGA DEI COMBATTIMENTI, e in un armadietto basso sotto le scale tiene ceste di tessuto, lunghi rocchetti di nastro per festoni e fiori di plastica, accanto al filo verde per lo stelo. Dovemmo spostare tutto per prendere lo scatolone di plastica dietro, pieno di memorabilia di tipo diverso. Mi aveva promesso che avremmo potuto consultare gli archivi. Tutto quello che si trova nello scatolone è viola. Ci sono statuine, sottovuoto nella plastica. Ci sono mazzi di carte, collezioni di gemme opalescenti in sacchetti di velluto viola, e CD-ROM in scatole viola con nomi come Rockett’s Tricky Decision e Rockett’s Adventure Maker, un paio dei titoli realizzati quando era a capo della sua società di giochi per computer, Purple Moon. Mentre schiaccia il nastro e il tulle per chiudere l’armadio, io leggo la mission statement dell’azienda stampata sul retro di un disco.

Profonda amicizia. Amore per la natura. La certezza di essere cool. Il coraggio di sognare. Questo sono le ragazze. E questo condividono le ragazze quando scoprono le avventure di Purple Moon. Per questo Purple Moon è solo per ragazze.

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Purple Moon

Nel 1992, Brenda ottenne un lavoro alla Interval Research, un think tank di Palo Alto finanziato dal cofondatore di Microsoft Paul Allen. Interval era tutta Ricerca e molto poco Sviluppo: i ricercatori vagavano avventurandosi nello studio di tecnologie che erano ancora lontane dall’essere ordinarie, come la telepresenza e i video interattivi. Brenda era appena uscita da un’avventura simile. Aveva fondato una società di realtà virtuale, Telepreence Research, che aveva chiuso dopo un anno. Si definisce spesso parte della schiera dei “manichini per le prove d’urto”, quei sognatori che provano a fare cose prima che siano economicamente percorribili. È “una corsa scomoda, ma bella e selvaggia” dice. Per quanto dolorose possano essere le conseguenze, i manichini per le prove d’urto vedono sempre prima di tutti quel che deve arrivare.

Brenda notò una cosa mentre provava a sviluppare la sua realtà virtuale: gli uomini e le donne sembravano viverla in modo diverso. “Quando intervistavo uomini a proposito della realtà virtuale,” mi racconta “in genere dicevano che era un’esperienza fuori dal corpo”. Quando invece ne parlava con le donne “di solito rispondevano che portano le loro funzioni sensoriali in un ambiente diverso”. Era una sfumatura, ma fu sufficiente perché Brenda cominciasse a pensare a genere e tecnologia e a come i piccoli squilibri di progettazione delle tecnologie abbiano un effetto netto più ampio su chi le usa, chi ne beneficia e chi ne approfitta. A Interval strinse ulteriormente il campo, e scelse di studiare una generazione di bambini che proprio allora vivevano in un mondo dominato dai personal computer – bambini come le sue figlie. Nei primi quattro anni alla Interval, Brenda pose una piccola domanda con grandi implicazioni: Perché le ragazzine non giocano ai videogiochi?

I giochi forniscono la prima esposizione pratica ai computer. Ma quando Brenda cominciava la sua avventura alla Interval Research, erano in preponderanza i maschi a usare molto il computer nelle scuole elementari. All’epoca i ricercatori scoprirono che mentre le ragazze tendevano a vedere il computer come un mezzo per compiere un’attività, come l’elaborazione di un testo, i ragazzi lo percepivano con maggiore probabilità come uno strumento per “giocare, programmare, e vedevano il computer come un strumento ricreativo”: un atteggiamento che genera familiarità e quindi maestria. Questa tendenza a considerare i computer territorio di nerd maschi emerse dalla lenta e lunga mascolinizzazione dell’ingegneria del software, e continuò a essere perpetuata nella cultura popolare, in film come WarGames: Giochi di guerra, La rivincita dei nerd e La donna esplosiva, in cui due adolescenti imbranati “programmano” la loro donna ideale, e nel marketing di dispositivi informatici e videogiochi negli anni Ottanta e Novanta.

Intervistati in quattro anni quasi un migliaio di ragazzi e cinquecento adulti negli Stati Uniti, Brenda giunse alla convinzione che il problema non fosse l’accesso al mezzo, e neanche davvero la rappresentazione dei computer sui media. Non tornava: c’erano molte ragazze con computer a scuola o a casa che comunque non li usavano e non c’erano studi che avvalorassero la tesi che le ragazze fossero in qualche modo intrinsecamente meno qualificate o interessate a quel tipo di giochi. Per Brenda era un problema di software.Le ragazzine non giocavano con i videogiochi perché i videogiochi erano tutti per ragazzi.

Le ragazze intervistate da Brenda e dal suo team dal 1992 al 1996 non usarono mezzi termini nel descrivere i giochi che avevano provato: odiavano continuare a morire. La violenza le stressava. E non erano fan del modo in cui i giochi di guerra ponevano l’enfasi sulla bravura, su come sconfiggere un difficile cattivo finale o muoversi rapidamente in un terreno senza venir uccisi. “La bravura per amor di bravura non è una moneta sociale per una ragazza” spiega Brenda. “Preferiscono un percorso di esperienze”. Invece di provare di continuo a superare un livello, un cattivo, o il tempo, le ragazze intervistate da Brenda preferivano vagare, esplorare un mondo virtuale e imparare le relazioni tra i personaggi e i luoghi. In La vita sullo schermo, pubblicato solo qualche anno dopo che Brenda aveva avviato la sua ricerca, la sociologa Sherry Turkle sostenne che mentre gli uomini in generale vedono i computer come una sfida – qualcosa da saper usare e dominare – le donne li vedono come strumenti, oggetti con cui collaborare. Questa “bravura soft”,1 spiegava, richiede una vicinanza, un legame con i computer che è più simile alla relazione che un musicista ha con il suo strumento: intimo, dialogante e relazionale.

Proprio come i musicisti armonizzano, Brenda aveva scoperto che le ragazze giocavano insieme a prescindere dal fatto che i giochi fossero destinati a più giocatori. Concluse che le ragazze sono naturalmente collaborative, e che la loro esperienza sociale di gioco è spesso importante quanto l’obiettivo del gioco stesso. Alle sue intervistate piacevano i rompicapi, la scoperta, e la conversazione immersiva con la macchina che accadeva quando la storia era abbastanza efficace da intrappolarle, e preferivano condividere le esperienze tra di loro. A quell’età, era certamente quel che accadeva a me: dopo aver battuto il gioco su CD-ROM Myst nel 1993, ricordo di aver saltato sul tappetto insieme alle mie amiche.

Quello era un ambito della Ricerca che poteva condurre a un certo Sviluppo. Nel 1996, Interval avrebbe spostato il team di ricerca di Brenda in una società a parte, Purple Moon, che avrebbe prodotto giochi esclusivamente per ragazze. Era del tutto logico che se i ragazzi si impossessavano delle macchine del laboratorio informatico a scuola per fare giochi che alle ragazze non piacevano, queste ultime sarebbero state in seguito svantaggiate nel mondo lavorativo, un mondo in cui saper usare un computer non è soltanto positivo, ma anche necessario. La soluzione ovvia sembrava quella di realizzare giochi che piacessero alle ragazze. Per usare le parole di una game designer:

Non possiamo aspettarci che le donne eccellano nella tecnologia domani se non incoraggiamo le ragazze a divertirsi con la tecnologia oggi.

Fu una mossa intelligente: le ragazze rappresentavano un mercato enorme non ancora sfruttato, e si sapeva che chiunque avesse prodotto un gioco che potesse piacere loro avrebbe sicuramente raddoppiato l’industria.

[…] Purple Moon aveva un approccio diverso. Invece che smussare gli angoli dei giochi per ragazzi, la società di Brenda raddoppiò la costruzione dei personaggi e della storia. “Non voglio dire che nei giochi per ragazzi i personaggi siano in genere deboli” spiega la donna. “È che sono così deboli che non riesci neanche a crearci una storia interessante attorno.” Purple Moon produsse due serie di giochi incentrata su una ragazzina di tredici anni, Rockett Movado, e sul suo gruppo di amiche alla Whispering Pines Junior High. Il giochi di Rockett non hanno livelli o prove ripetitive, nessun cronometro o tabellone della classifica. Non si vince neanche. Brenda li paragona a uno spazio di prove emotive.

In Rockett New School, Rockett affronta una situazione familiare a qualsiasi ragazza adolescente o preadolescente: deve trovare nuovi amici, affrontare situazioni sociali difficili, e decidere che tipo di persona sia. Inviterà il nerd Mavis alla festa? Leggerà il diario segreto di un’altra ragazza? Cercherà l’amicizia delle ragazzine popolari a scuola – una cricca chiamata “Loro” – o dirà la sua quando vedrà qualcuno trattato con prepotenza? A queste domande si risponde in punti in cui ci si trova davanti a un bivio. Quando entra nell’aula di coordinamento il primo giorno di scuola, Rockett deve decidere con chi stare; la scelta avviene dentro di lei, e tre versioni diverse di Rockett condividono una battuta del loro dialogo intimo. Ciascuna versione rappresenta un percorso nella storia. La Rockett terrorizzata conduce il gioco in una direzione diversa dalla Rockett spavalda, che finisce per battibeccare con una ragazza alfa per un posto ambito nelle file dietro. È un sistema ipertestuale in cui scegliere la propria avventura verso uno sviluppo sociale, un primo giorno di scuola che si può rivivere di continuo.

Una giocatrice accanita di Purple Moon, che giocava con Rockett negli anni della sua formazione, ricorda come i giochi influenzarono il suo stesso sviluppo sociale. “Ricordo benissimo le volte in cui invece di rispondere subito a una persona, ho pensato alle parole da usare e a quali ripercussioni avrebbe avuto ciascuna opzione” spiega. “Mi hanno davvero aiutato a socializzare e ad andare d’accordo con la gente.” Queste lezioni sociali non s’imparavano soltanto alla Whispering Pines. Il sito web di Purple Moon, un primo social network, estendeva il mondo dei giochi di Rockett online, permettendo alle giocatrici di conoscere meglio i personaggi e di incontrare le loro compagne di gioco. Anche se il fondatore di Interval, quando gli fu mostrato il prototipo chiese soltanto: “Riuscite a farlo per ragazzi?” il sito web di Purple Moon divenne un universo delle ragazze, quel che oggi definiremmo una fandom.

[…] Molti critici però sostenevano che era sbagliato il pensiero che stava alla base dei giochi per ragazze, e che progettare giochi esplicitamente per ragazze in effetti le sminuiva, costringendole in una prigione rosa e viola. Invece di separare i ragazzi per genere, proseguivano i critici, perché non produrre giochi che piacciono a tutti? I primi giochi davvero di successo, come Pong e Tetris, non avevano un genere esplicito, e il problema fu sollevato soltanto quando la Atari mise un fiocco rosa a Pac Man per creare Ms Pac Man nel 1980.

Le ricerche di Brenda l’avevano portata a credere che soltanto i maschi si divertivano in giochi di guerra e di avventura, ma molte ragazze, ora come allora, adorano far saltare in aria alieni e tramortire cattivi con il fuoco delle mitragliatrici. Come una auto professatasi “Game Grrl” scrisse alla fine degli anni Novanta, “Quel che Purple Moon e altri studi di giochi per ragazze devono capire è che malgrado vi sia un mercato per giochi come Barbie Fashion Designer, esiste un mercato ugualmente vasto di ragazze a cui piacciono le stesse cose che fanno i ragazzi”.

In alto, foto di Michael Dziedzic – Unsplash

Claire L. Evans

Claire L. Evans

Claire L. Evans è una scrittrice e musicista americana. Cofondatrice di Terraform, la rubrica di Motherboard dedicata alla sciencefiction, i suoi articoli sono apparsi su VICE, The Guardian, Wired e Rhizome. Connessione è il suo primo libro.