Proponiamo un estratto da Impact. La rivoluzione che sta cambiando il capitalismo di Ronald Cohen. Si tratta di un testo pensato per ogni aspirante imprenditore, professionista, investitore, filantropo o funzionario pubblico che stia cercando il suo personale modo di contribuire al benessere comune e per chiunque creda che un’azienda possa essere al tempo stesso etica e di successo.

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Quasi vent’anni fa, tenni un discorso durante un evento organizzato per celebrare il trentesimo anniversario della nascita di Apax Partners, la società di venture capital e private equity della quale fui cofondatore e presidente per molti anni. Avvertii in quell’occasione che se non ci fossimo occupati in modo più efficace delle necessità di coloro che erano stati lasciati indietro, una “cortina di fuoco” avrebbe presto separato i ricchi dai poveri nelle nostre città, nei nostri Paesi e continenti. Abbiamo visto di recente questa cortina alzarsi in Paesi come la Francia, il Libano e il Cile, che hanno sperimentato violente proteste, mentre la crescente disuguaglianza nel Regno Unito ha influito sulla sua decisione di lasciare l’Unione europea, presa attraverso il referendum del giugno 2016.

Il divario fra ricchi e poveri oggi si è ampliato enormemente. La disuguaglianza è causa di una migrazione di entità enorme dalle nazioni più povere, specialmente in Africa, verso Paesi più ricchi situati in Europa, con persone che rischiano la vita per attraversare il mare a bordo di fragili gommoni in cerca di una vita migliore. Le sfide poste dall’integrazione di questi migranti stanno aggravando le disuguaglianze che esistono già nei Paesi che li ospitano.

Scrivo questo libro perché riesco a vedere che abbiamo una soluzione a portata di mano: io la chiamo “Impact Revolution”. Alimentata dall’impact investment, ci consentirà di far fronte alla pericolosa disuguaglianza e al degrado ambientale del pianeta e ci condurrà verso un mondo nuovo e migliore.

Il percorso che mi ha portato a scrivere questo libro ebbe inizio nel 1998, quando decisi che sette anni dopo, compiuti i sessant’anni di età, avrei lasciato Apax per occuparmi di problemi sociali e cercare di contribuire alla risoluzione del conflitto in Medio Oriente. Non volevo che il mio epitaffio dicesse: “Ha generato un Roi annuale del 30 per cento”; avevo sempre saputo che doveva esserci uno scopo più grande nella vita.

Quando avevo 11 anni la mia famiglia e io fummo costretti ad andarcene dall’Egitto e avemmo la fortuna di essere accolti dal Regno Unito come rifugiati. Arrivammo con una sola valigia a testa, mentre io tenevo stretta sotto un braccio la mia collezione di francobolli, nel timore che mi venisse tolta. Fummo accolti nella nostra nuova casa e cominciammo a rifarci una vita a Londra.

Ho sperimentato diverse svolte nel corso degli anni, compresa l’opportunità di ricevere un’istruzione di primo livello a Oxford e successivamente a Harvard, dove scoprii il venture capital proprio mentre si affermava. Ricevetti una borsa di studio Henry Fellowship, che coprì le spese del mio primo anno alla Harvard Business School, con l’obbligo di riportare qualcosa di valore nel Regno Unito una volta conclusi gli studi. Finii per riportarci il venture capital, e per questo fui nominato cavaliere nel 2001.

Il “giving back”, cioè la restituzione alla società di una parte di quello che ho ricevuto, è un aspetto importante dei miei valori. Così come ricevetti aiuto quando ne avevo bisogno, voglio darlo agli altri. Divenni un venture capitalist anche perché sapevo che mi avrebbe consentito di contribuire alla creazione di posti di lavoro in un periodo di disoccupazione elevata. Mentre assistevo alla diffusione a macchia d’olio di svariati problemi sociali durante gli anni Ottanta e Novanta, continuai a sentirmi motivato a fare la differenza. Speravo che se avessi lasciato Apax a sessant’anni, avrei potuto dedicarne altri venti a quei problemi e avere l’opportunità di farla davvero, la differenza.

Fui cofondatore di Apax all’età di 26 anni e la feci diventare una società globale di private equity con sedi in tutto il mondo, che ha oggi in gestione oltre 50 miliardi di dollari di attivi.

Nel mio percorso professionale ho svolto molti ruoli diversi: imprenditore, investitore, filantropo e consigliere di vari governi. Ciascuno mi ha dato l’opportunità di vedere il mondo da un punto di vista diverso. Tali esperienze mi hanno fatto capire perché il capitalismo non risponde più alle necessità del pianeta, e mi hanno convinto che esiste una nuova strada da seguire per avanzare. In questo libro, propongo una nuova soluzione che ognuno di noi può mettere in pratica.

Le cose non possono andare avanti in questo modo. A mano a mano che la disuguaglianza aumenta nei Paesi sviluppati così come in quelli in via di sviluppo, le tensioni sociali si intensificano e le persone che sono state lasciate indietro sentono che rimarranno bloccate in quel punto per sempre. Il nostro sistema non sembra giusto ai loro occhi, così si ribellano.

Al tempo stesso, le sfide legate all’ambiente minacciano la qualità di vita sul pianeta e forse perfino la sua esistenza. Il nostro sistema economico attuale non è in grado di ovviare a questa minaccia: i governi non hanno i mezzi per far fronte ai problemi sociali e ambientali causati dagli esseri umani, e non hanno neppure modo di sviluppare approcci innovativi per risolverli – un processo che prevede inevitabilmente investimenti rischiosi, sperimentazioni e di tanto in tanto qualche fallimento.

I Paesi dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) spendono già oltre 10.000 miliardi di dollari all’anno per la sanità e l’istruzione; è una somma che equivale al 20 per cento del loro Pil totale, il doppio di quanto si spendeva sessant’anni fa. I governi hanno dei limiti dettati dal loro bilancio e non si sentono in grado di spendere di più, ma il denaro che erogano non è ancora sufficiente. La filantropia può aiutarli solo fino a un certo punto a superare queste difficoltà: le donazioni delle fondazioni filantropiche ammontano a 150 miliardi di dollari all’anno nel mondo, una cifra modesta in rapporto alla spesa pubblica dei Paesi.

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Esiste dunque la necessità evidente di un nuovo sistema, necessità che è stata riconosciuta pubblicamente da figure di primo piano del mondo della finanza e degli affari. Ma abbiamo dedicato moltissimo tempo finora alla diagnosi dei problemi del nostro sistema e troppo poco alla proposta di reali alternative al capitalismo, così ci sentiamo bloccati, privi di alcun modo per avanzare.

L’umanità ha effettivamente compiuto enormi progressi. Abbiamo la capacità di trovare la soluzione giusta, di passare a un nuovo sistema che distribuisca opportunità e risultati in modo più equo e proponga soluzioni efficaci alle grandi sfide che dobbiamo vincere. Abbiamo bisogno di un nuovo sistema in cui, per ragioni di etica così come di prudenza, il senso di avere una missione da portare a termine ponga un freno al perseguimento degli interessi egoistici; in cui chi dà un contributo raggiunga uno status migliore di chi pratica il consumismo sfrenato; in cui le imprese che danno una dimostrazione di integrità sociale e ambientale abbiano più successo di quelle che si limitano a fare i propri interessi; e in cui si incoraggino le organizzazioni e gli individui a trarre soddisfazione dall’appartenenza a qualcosa di più grande di loro, invece di sforzarsi solo di realizzare guadagni.

Questo nuovo sistema è l’impact capitalism. Allinea il settore privato al governo di un Paese, in modo tale che i due lavorino in armonia invece che in opposizione reciproca, sfruttando i capitali e l’innovazione per risolvere problemi sociali e ambientali. Questo sistema attrae fondi dai mercati degli investimenti, esattamente come il capitale privato ha finanziato molti imprenditori perché contribuis- sero a dar luogo a una rivoluzione tecnologica negli ultimi quarant’anni.

Coniuga l’impatto sociale e ambientale al profitto, sovvertendo la tirannia di quest’ultimo e ponendo l’impatto saldamente al suo fianco, affinché lo tenga sotto controllo.

Lo riflette già in modo evidente il modo in cui le nostre preferenze sono cambiate: scegliamo sempre più di comprare prodotti da aziende che condividono i nostri stessi valori; investiamo in società che non inquinano l’ambiente e non ricorrono alla manodopera infantile; e lavoriamo in misura maggiore per imprese che perseguono obiettivi sociali e ambientali ispirati.

Poiché il combustibile che alimenta il sistema capitalistico è il capitale, non sorprende che una manifestazione del nuovo sistema sia l’impact investing. Così come il venture capital ha rappresentato la risposta alle necessità finanziarie degli imprenditori tech, l’impact investment costituisce la risposta a quelle degli imprenditori e delle aziende che puntano ad avere un impatto socioambientale, in quanto vogliono migliorare la vita delle persone e aiutare il pianeta.

La Rivoluzione dell’impatto sta già trasformando il nostro modo di pensare riguardo alla responsabilità sociale, ai modelli di business e agli investimenti. Sta cominciando a cambiare le nostre economie, trasformandole in potenti motori che dirigono i capitali in modo da avere un impatto oltre a realizzare profitti. Ci è già chiaro che segnerà il Ventunesimo secolo come la Rivoluzione tecnologica ha segnato il Ventesimo.

L’impact investing si propone di innescare una reazione a catena. Una reazione che apporti innovazione a cinque gruppi di stakeholder. […] Una reazione che faccia cambiare mentalità e comportamenti a investitori, filantropi, imprenditori, organizzazioni sociali, grandi imprese, governi e la popolazione in generale, ponendo l’impatto al centro delle nostre decisioni.

Gran parte dell’impeto che mi ha portato a sviluppare l’impact investment è scaturito dal lavoro svolto dalla Social Investment Task Force (Sitf), che creai nel Regno Unito nel 2000 su richiesta del ministero del Tesoro. Nel 2013 poi, alla luce dei progressi che erano stati fatti, il primo ministro britannico David Cameron mi chiese di dirigere la G8 Social Impact Investment Taskforce (G8t), per “stimolare la nascita di un mercato globale nell’ambito degli investimenti ad alto impatto sociale”. Quando la Russia uscì dal G8, nel 2014, l’area geografica coperta dalla task force comprendeva Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Francia, Italia e Giappone, ai quali aggiungemmo Australia e Unione europea in qualità di osservatori. Decidemmo di dividere oltre 200 persone sparse in questi Paesi in otto comitati consultivi nazionali e quattro gruppi di lavoro.

I risultati ai quali arrivammo furono esposti in un report intitolato “Impact Investment: The Invisible Heart of Market”, pubblicato nel settembre 2014. Conteneva dichiarazioni di supporto da personaggi che andavano da papa Fran- cesco, che spronò i governi “a prendersi l’impegno di sviluppare un mercato per gli investimenti ad alto impatto e in tale modo a combattere un’economia che esclude e scarta”, all’ex ministro del Tesoro statunitense Larry Summers, che definì il documento “il ground zero di un grande affare”.2 Il report diede l’avvio a un movimento volto a diffondere quell’idea in tutto il pianeta.

Il governo britannico, poco dopo la sua diffusione, mi chiese di coordinare le attività finalizzate ad ampliare il lavoro della G8t a livello mondiale. Così, nell’agosto 2015, fui cofondatore del Global Steering Group for Im- pact Investment (Gsg), e assunsi la carica di presidente per portare avanti il lavoro iniziato dalla task force. Il Gsg reclutò la maggior parte dei membri del consiglio direttivo della G8t e accettò in poco tempo l’adesione di cinque nuovi Paesi: Brasile, Messico, India, Israele e Portogallo.

Sotto la leadership di Amit Bhatia, il suo primo Ceo, il Gsg si espanse in 32 Paesi, con il coinvolgimento di oltre 500 impact leader nei suoi comitati consultivi nazionali. Muovendosi in modo tale da “innovare, scuotere e or- chestrare” nello stesso tempo, è diventato la principale forza motrice del progresso dell’impact investment nel mondo.

Nel 2007 sentii che qualcosa di fondamentale stava cambiando nel mondo. Mi resi conto che gli investimenti sociali sarebbero stati la next big thing e mi occupai dell’argomento nel mio primo libro, The Second Bounce of the Ball.

Oggi, più di dieci anni dopo, sono convinto che l’impact thinking, cioè la mentalità incentrata sull’impatto, darà luogo a un cambiamento grande come quello causato dalla Rivoluzione tecnologica.

L’impact thinking sta cambiando i nostri comportamenti di investimento, proprio come fecero cinquant’anni fa le innovative idee sulla misurazione del rischio. Dal risk thinking scaturirono portafogli di investimento nei quali il rischio è diversificato fra molte classi diverse di asset, il che consente loro di appropriarsi degli elevati rendimenti degli investimenti più rischiosi, come quelli di venture capital e quelli nei mercati emergenti. L’impact thinking adesso trasformerà le nostre economie e cambierà la forma del mondo in cui viviamo.

Per me, la svolta su questo fronte ha avuto luogo nel settembre 2010, quando abbiamo instaurato per la prima volta un collegamento fra misurazione dell’impatto sociale e rendimento finanziario. Il primo Social Impact Bond (Sib, obbligazione ad alto impatto sociale), chiamato Peterborough Sib, ha affrontato il problema del tasso di recidiva dei giovani detenuti uomini rilasciati dal carcere britannico di Peterborough. L’opinione prevalente fino all’arrivo dei Sib era che non si potesse misurare alcun aspetto della sfera sociale. Come si può quantificare il miglioramento della qualità di vita di un carcerato che scampa al ritorno in cella? Oggi che 192 fra Sib e Dib (Development Impact Bond, un tipo di Sib associato alle sfide da vincere nei Paesi emergenti) fanno fronte a una dozzina di problemi sociali in 32 nazioni, è ormai chiaro che se creiamo un legame fra il miglioramento delle condizioni sociali e ambientali e il rendimento finanziario possiamo consegnare le chiavi del mercato degli investimenti ai leader delle organizzazioni umanitarie.

In questo modo abbiamo dato agli imprenditori sociali la libertà finanziaria, che prima non avevano, di sviluppare soluzioni innovative per le più grandi sfide sociali che abbiamo di fronte.

La creazione del Sib ha rappresentato un segnale precoce dell’innovazione attualmente in corso, orientata all’impatto sociale. Proprio come le imprese produttrici di software e hardware degli anni Ottanta e Novanta, varie impact organization innovative, che comprendono sia “organizzazioni sociali” non- profit, sia “imprese orientate al raggiungimento di uno scopo” (purpose-driven), sottopongono a una disruption creatrice i modelli in uso nell’ambito dell’imprenditoria, degli investimenti, delle grandi aziende, della filantropia e persino dei governi.

Questo libro introduce una nuova teoria che spiega come grazie alla Rivoluzione dell’impatto potremo conseguire un miglioramento sistemico dal punto di vista sociale e ambientale, e mette in prospettiva i progressi di tale rivoluzione. Esamina i trend che stanno avendo ripercussioni su diversi gruppi di persone nella nostra società e i modi in cui tali gruppi si influenzano a vicenda, promuovendo il cambiamento in ogni parte del nostro sistema.

Da Impact. La rivoluzione che sta cambiando il capitalismo di Ronald Cohen. In alto, foto di Pawel Czerwinski – Unsplash 

Ronald Cohen

Ronald Cohen è un imprenditore e filantropo inglese, considerato il padre degli investimenti a impatto sociale. Indicato tra i libri di economia dell’anno dal Financial Times, Impact è il suo primo lavoro tradotto in italiano.