È necessario che i processi di innovazione cambino se vogliamo che la distanza tra le promesse delle tecnologie esponenziali e i deludenti risultati economici cui assistiamo si chiuda. Fino a tempi relativamente recenti, l’innovazione era in larga misura una faccenda interna. Il tragitto dal laboratorio al mercato correva prevalentemente tra le quattro mura dell’azienda. Pensiamo ai Bell Laboratories, al Research Center dell’Ibm o al Palo Alto Research Center (Parc) della Xerox. Ciascuno di questi dipartimenti realizzava importanti passi avanti tecnologici e ciascuno di questi avanzamenti giungeva alla commercializzazione grazie all’attività delle unità di business dell’azienda.
Tuttavia, l’approccio “fai da te” è diventato negli ultimi anni sempre più oneroso. Costa molto realizzare ciascuno dei numerosi processi necessari ad avere successo sul mercato. Ci vuole tempo per completare il tragitto dall’innovazione alla commercializzazione, troppo in un’epoca in cui tutto cambia sempre più rapidamente. E i rischi ricadono tutti su di voi. Questa poco promettente combinazione di costi, tempo e rischi ha spinto molte imprese a ripensare il proprio approccio all’innovazione. Esiste una via alternativa che ha costi interni minori, riduce il time to market e distribuisce i rischi. È l’approccio che chiamiamo open innovation.
È un modo di procedere nuovo. Solo nel 2003, digitando su Google le parole “open innovation” non avreste ottenuto nessun risultato chiaro. Oggi la stessa ricerca vi conduce a centinaia di milioni di risposte. Due recenti indagini sulle grandi imprese condotte negli Stati Uniti e in Europa hanno scoperto che il 78 per cento di loro ricorre in qualche misura a questo nuovo approccio. Dieci anni fa, di open innovation non c’era traccia, oggi è ovunque.
L’idea alla base di questo nuovo approccio è che le conoscenze utili sono ora presenti in tutta la società. Nessuna impresa ha il monopolio delle grandi idee, e tutte, non importa quanto efficaci al proprio interno, hanno bisogno di collaborare intensamente ed estesamente con le reti e le comunità della conoscenza.
Un’azienda che pratica l’open innovation utilizza regolarmente idee e tecnologie esterne (open innovation dall’esterno all’interno o outside-in), e accetta che idee e tecnologie di sua produzione ma che essa non sfrutta fluiscano all’esterno a disposizione delle imprese intenzionate a utilizzarle nei loro business (open innovation dall’interno all’esterno o inside-out).
Quali prove abbiamo dell’efficacia dell’open innovation? Ricapitoliamo alcuni dei dati presentati nel precedente capitolo. La Procter & Gamble ha orgogliosamente rivendicato alla propria versione di open innovation, chiamata Connect and Develop, un grande successo, e lo stesso hanno fatto molte altre imprese. Un’altra azienda produttrice di beni di consumo, la General Mills, ha analizzato l’andamento delle vendite in un anno di 60 suoi nuovi prodotti, e ha scoperto che quelli contenenti qualche componente significativa di open innovation hanno venduto più del doppio degli altri. Un recente studio su 489 progetti di una grande impresa manifatturiera europea ha potuto constatare che quelli basati su una forte collaborazione con soggetti esterni hanno assicurato all’impresa ritorni maggiori degli altri.
Altre conferme provengono da indagini statistiche. Diversi studi basati sulla Community Innovation Survey hanno dimostrato che le imprese che ricorrono in misura maggiore a fonti di conoscenza esterne hanno prestazioni di innovazione migliori, a parità degli altri fattori, di quelle che lo fanno meno spesso. Una recente indagine relativa a 125 grandi imprese è giunta a conclusioni analoghe: le aziende che sfruttano strategie di open innovation ottengono risultati di innovazione più promettenti.
Sennonché, ho l’impressione che la maggioranza di noi non abbia veramente capito in cosa questo modo di realizzare innovazioni consista. Non concordiamo sul suo significato, non sappiamo come meglio usarlo, non riflettiamo a sufficienza sui suoi problemi e i suoi limiti, e di conseguenza non riusciamo neppure a ricavarne il massimo. È per questo che ho scritto questo libro: per chiarire meglio in cosa l’open innovation consista e aiutare tutti a trarre da questa eccitante idea quanto è possibile.
Tra l’altro, essa stessa ha subito cambiamenti profondi dal 2003. Analizzerò i più importanti e il loro significato per l’industria, l’innovazione e la politica nei prossimi capitoli. Vedremo per esempio che la cooperazione e la partnership sollecitata dall’open innovation non coinvolge più in genere soltanto due imprese (benché la loro intesa resti una componente importante) ma interessa un insieme molto più ampio di realtà: filiere, reti, ecosistemi, partnership pubblico-privato ecc. Essa non riguarda più soltanto l’impresa. Anche l’ambiente circostante ne è coinvolto. Perché l’open innovation prosperi è necessario costruire ecosistemi di soggetti innovatori. E se vogliamo che questi ecosistemi diano nuovo impulso alla produttività, occorre che ci spingiamo ancora oltre e costruiamo un’infrastruttura dell’innovazione capace di dare alla nuova società dell’open innovation il necessario sostegno.
Definire l’open innovation
Consentitemi di iniziare con una definizione di open innovation. Mentre gli esquimesi hanno dozzine di parole per lo stesso referente “neve”, noi abbiamo molti diversi significati per le parole “open innovation”. A mio avviso, il modo migliore di intendere il paradigma dell’open innovation è considerarlo in opposizione al modello tradizionale dell’integrazione verticale, nel quale attività di innovazione interne conducono a prodotti e servizi sviluppati internamente e commercializzati dall’impresa. Chiamo il modello integrato verticalmente “modello di innovazione chiuso”. Per sintetizzare tutto in un’unica frase, dirò che l’open innovation è un processo di innovazione diffuso basato sulla gestione dei flussi di conoscenza in entrata o in uscita dall’impresa realizzata utilizzando meccanismi monetari e non monetari a seconda del modello di business dell’impresa stessa.
È una definizione scientifica, lo riconosco. In sintesi, essa dice comunque che l’innovazione è generata accedendo, sfruttando e assimilando flussi di conoscenza che varcano i confini dell’azienda o entrandovi o uscendone. Non si tratta tuttavia di una definizione accettata da tutti, una questione su cui tornerò più avanti. In questa definizione, si assume che le imprese, nel cercare come meglio fare innovazione, possono e devono utilizzare idee e vie al mercato tanto interne quanto esterne. I processi di open innovation intrecciano idee interne ed esterne in piattaforme, architetture e sistemi, e utilizzano i modelli di business per definire i requisiti di queste architetture e sistemi. Il modello di business utilizza le idee esterne e interne per creare valore e definisce meccanismi interni per appropriarsi di una parte di questo.
L’open innovation outside-in e inside-out
Esistono due tipi principali di open innovation: quella dall’esterno all’interno e quella dall’interno all’esterno. La prima richiede che l’impresa apra i propri processi di innovazione a diversi tipi di input e contributi di conoscenza esterni. È l’aspetto dell’open innovation che ha ricevuto più attenzione, sia nel mondo accademico sia tra le imprese. Molto si è scritto, per esempio, sullo scouting tecnologico, il crowdsourcing, la tecnologia open source o l’acquisizione di tecnologie esterne o licensing in. Secondo innumerevoli studiosi e protagonisti del mondo industriale, l’open innovation consisterebbe soltanto in questo. In realtà, non ne è che una parte. Esiste infatti un secondo tipo di flussi di conoscenze non meno importante.
L’open innovation dall’interno all’esterno o inside-out richiede alle imprese di consentire che le conoscenze che esse non utilizzano o sottoutilizzano escano all’esterno a disposizione di chi desidera sfruttarle nella propria attività e nei propri modelli di business.
Lo si può fare concedendo in licenza una propria tecnologia, creando per scorporamento (spin off) una nuova impresa, cedendo un proprio progetto a un common aperto, o formando una nuova joint venture con partner esterni (Box 2.1). Diversamente dall’open innovation outside-in, questa componente del modello è meno compresa tanto nel mondo accademico quanto in quello delle imprese. Come vedremo in uno dei prossimi capitoli, è questa seconda modalità di innovazione che consente di scoprire nuovi modelli di business per le idee e le tecnologie interne inutiliz- zate o sottoutilizzate.
Cosa l’open innovation non è
È bene avere chiaro cosa l’open innovation non è: non è (solo) crowdsourcing, ossia chiedere a un gruppo o a una moltitudine di individui esterni all’azienda di trovare l’idea forte o la soluzione di cui si ha bisogno. Non è (solo) gestire meglio i propri clienti. E non è (solo) ricorrere a un software open source e ai metodi open source che questi software hanno ispirato.
Poiché quest’ultimo è un fraintendimento molto comune, vale la pena soffermarcisi più a lungo. L’approccio open source all’open innovation ignora il modello di business, non tiene conto della componente inside-out di questa strategia di innovazione, e vede nella proprietà intellettuale (IP) un ostacolo all’innovazione che andrebbe se possibile eliminato. È l’approccio difeso per esempio da Eric von Hippel, il quale analizza l’“innovazione aperta e diffusa” eleggendo il software open source a suo caso esemplare. E con lui molti altri.
C’è qualcosa di paradossale in queste posizioni, alla luce dello scisma che ha diviso la comunità del software open source opponendo ai difensori del software “libero” i difensori del software “open”. I primi, tra i quali figura per esempio Richard Stallman, ritengono che “i software debbano essere liberi”. Un sistema operativo costruito utilizzando l’approccio copy-left è Gnu, il che significa che qualsiasi uso del codice di questo sistema dev’essere condiviso con il resto della comunità dei suoi sviluppatori. È quasi come pensare che la proprietà intellettuale sia superflua o persino nociva all’innovazione. Traendo vantaggio in modo diretto dal suo progredire, ciascun utilizzatore dovrebbe a sua volta rivelare le sue conoscenze al resto della comunità degli utilizzatori come lui. Neppure i modelli di business hanno un ruolo da svolgere in base a questa prospettiva. Non si considera assolutamente che le aziende possano investire un capitale per sfruttare su vasta scala le loro innovazioni, né come questo capitale possa creare profitto una volta investito.
La seconda componente della comunità del software open source – la componente definita “software open” – ha adottato una strategia del tutto diversa. Essa autorizza le imprese che utilizzano un qualche codice open source a modificarlo o integrarlo ma senza obbligarle a condividere le modifiche apportate con la comunità open source. Una famiglia di sistemi operativi sviluppata in questo modo è Linux. Aziende come Google e Amazon, che utilizzano estesamente Linux e di cui hanno fatto innumerevoli integrazioni, hanno scelto di mantenere le modifiche apportate private, ossia di non condividerle con la comunità Linux. I software open consentono alle imprese di basarsi su un codice aperto o condiviso e al tempo stesso di investire in sue estensioni private, se così preferiscono.
Linus Torvalds, il creatore di Linux, appartiene senza ombra di dubbio al campo “aperto” (anziché a quello “libero”), ed è piuttosto critico nei confronti dell’evangelismo del “software libero” di Richard Stallman:
È troppo inflessibile, troppo dogmatico […] Penso che l’open source
abbia iniziato a funzionare molto meglio una volta prese le distanze dal- la politica e i valori della Free Software Foundation, e che più persone abbiano finalmente capito che è uno strumento, non una religione. Io sono decisamente un pragmatico [corsivo aggiunto].
Il pragmatismo di Torvalds è lo stesso della definizione di open innovation che propongo io. In base a questa concezione, un’azienda investe in un progetto e lo amplia nel tempo perché ha un modello di business. Nella mia concezione di open innovation, non solo la proprietà intellettuale è ammessa: essa è anche ciò che consente alle imprese di collaborare e coordinarsi con altre proprio perché è ciò che garantisce loro una qualche protezione dall’imitazione diretta. È la possibilità di contare su questo che consente alle imprese di investire nell’estensione delle proprie innovazioni, se queste si dimostrano di successo, e di ricavare da tali investimenti un guadagno.
Entrambe le concezioni dell’open source vedono nell’apertura un potente meccanismo generatore di innovazioni. Von Hippel osserva giustamente che, nelle prime fasi di vita di un prodotto, i suoi utilizzatori sono una fonte di innovazione feconda. Le differenze tra “libero” e “open” emergono solo in seguito, quando l’innovazione inizia ad avere successo sul mercato. A questo punto, i semplici cultori della programmazione informatica lasciano il posto alle imprese intenzionate a entrare nel mercato e a commercializzare quelle innovazioni. È il momento di definire i modelli di business e di investire il necessario a estendere quanto basta il proprio giro d’affari.
La società trae vantaggio dalle innovazioni solo se queste sono, non solo generate, ma anche disseminate ampiamente e assimilate.
Benché sia stato creato da Linus Torvalds e una piccola comunità di volontari, a sostenere Linux sono oggi imprese come Ibm, Google, Red Hat e Amazon, imprese che intorno a esso hanno costruito modelli di business e portato il suo uso al centro delle proprie attività. I sostenitori dell’open innovation come me pensano siano necessarie norme giuridiche e modelli di business per affrontare questi processi; i difensori dell’approccio “libero” (o dell’“innovazione aperta e diffusa”) la pensano nel modo opposto.
Ora sapete che cosa l’open innovation è, che cosa non è e perché non sia semplicemente una versione impreziosita dell’approccio open source.
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In alto, foto di Nejc Soklič – Unsplash