Oltre il Grande Fratello

Per comprendere la cultura della sorveglianza dobbiamo mettere da parte 1984. Non che Orwell non avesse niente da dire, anzi: la sua opera è ancora profondamente attuale, per la descrizione di alcuni elementi dolorosamente familiari a chi abbia vissuto le dittature del Novecento, per l’avvertimento a prestare attenzione al subdolo scivolamento nel controllo statale all’interno di presunte democrazie liberali e per l’invito rivolto al lettore a perseguire un mondo dignitoso, tollerante e umano.

Il mio messaggio, invece, è che oggi quella del Grande Fratello è la metafora sbagliata per la sorveglianza. Persistere nell’uso del linguaggio di un tiranno totalitarista che minaccia le sue vittime con ratti famelici e stivali che calpestano, distoglie semplicemente l’attenzione da quello che sta davvero accadendo nel mondo della sorveglianza. Alcune situazioni di sorveglianza, certo, sono sinistre e sadiche e vengono giustamente criticate in quanto tali. Ma l’esperienza che oggi la maggior parte delle persone fa della sorveglianza è diversa, ed ecco perché andare oltre il Grande Fratello è più necessario che mai.

All’inizio degli anni Novanta, nel mio libro L’occhio elettronico, osservavo che anche se Orwell può ancora insegnarci molte cose, non sarebbe mai riuscito a indovinare il ruolo che le nuove tecnologie informatiche da un lato e il consumismo dall’altro avrebbero ricoperto nella creazione della sorveglianza come si stava evolvendo alla fine del Novecento. Tuttavia da allora sono stato costretto a riconoscere che la sorveglianza è cambiata di nuovo.

L’esperienza che viviamo nel Ventunesimo secolo è profondamente legata alla partecipazione di chi è sorvegliato. Anzi, non soltanto essere osservati ma anche osservare è diventato uno stile di vita.

I personaggi di Orwell vivevano attanagliati da una spaventosa incertezza su quando e perché fossero osservati. La sorveglianza di oggi è resa possibile dai nostri click sui siti web, dai nostri messaggi di testo e dai nostri scambi di foto. Le persone comuni contribuiscono alla sorveglianza come mai prima. I contenuti generati dagli utenti creano i dati attraverso cui vengono monitorati i nostri gesti quotidiani. Ecco come prende forma la cultura della sorveglianza.

Con l’espressione cultura della sorveglianza mi riferisco al tipo di cose che potrebbe studiare un antropologo: usi, costumi, abitudini e modalità di lettura e interpretazione del mondo. L’enfasi è posta principalmente sulla sorveglianza della vita quotidiana piuttosto che sui tentacoli da piovra dell’intelligence globale e sulle reti di controllo, o sulle seducenti e subdole sirene del marketing aziendale. La cultura della sorveglianza, in questa accezione, riguarda il modo in cui la sorveglianza viene immaginata e vissuta e come le banali attività di camminare per strada, guidare un’automobile, controllare i messaggi, fare acquisti nei negozi o ascoltare musica sono influenzate dalla sorveglianza e la influenzano a loro volta. E come anche chi ha ormai familiarità con la sorveglianza o addirittura vi si è assuefatto la promuove e vi prende parte.

Pertanto questo libro non parla principalmente della cultura della sorveglianza intesa in senso letterario o artistico. Dedica poco spazio all’esplorazione dei mondi della sorveglianza scaturiti dall’immaginazione creativa, dai film, dalle canzoni, dai romanzi, dalle serie tv o dall’arte. Ma vi presta attenzione nella misura in cui illuminano gli ambiti più “antropologici” della sorveglianza nella vita quotidiana. Le opere della popular culture mantengono un’importanza fondamentale. Molte sono estremamente sagge e offrono interpretazioni penetranti sulla cultura della sorveglianza. Inoltre, è stato scritto molto sulle affascinanti intuizioni contenute in queste produzioni letterarie, musicali, visive e artistiche, che contribuiscono anche a gettare luce sulla cultura nel senso di “stile di vita”.

Ciò detto, dopo aver proposto di andare oltre Orwell per cogliere la realtà attuale della sorveglianza, mi sento in dovere di suggerire alcuni luoghi in cui si colloca questo “oltre”. Sono disseminati in questo libro, ma per me uno in particolare risalta su tutti.

Oggi il mondo della sorveglianza è inestricabilmente legato alla famosa Silicon Valley californiana, l’incubatore per eccellenza del mondo digitale che con tanta rapidità è diventato familiare a gran parte della popolazione globale. Non sorprende, pertanto, che uno degli eredi più significativi dello scettro di Orwell abbia ambientato le sue storie nella Silicon Valley. Nel titolo di un romanzo del 2013, Il cerchio non è soltanto il nome dell’azienda hi-tech dove lavora la protagonista Mae. È anche una metafora del modo in cui tutta la vita è sempre più inglobata in un mondo digitale circondato dal cyberspazio. Mae viene valutata in base a quanti “zing” posta e indossa per tutto il tempo il suo tesserino “TruYu” e la sua telecamera “SeeChange”, mentre si integra nella vita nell’ambiente felice e di tendenza della trasparenza fra pareti di vetro. Malgrado qualche dubbio momentaneo, diventa rapidamente un’icona e una celebrità nella sfera d’influenza del Cerchio. Diventa completamente trasparente.

Dave Eggers, l’ispirato autore de Il cerchio, fa riferimenti espliciti a Orwell attraverso espedienti come gli slogan. “La libertà è schiavitù” di Orwell diventa “Condividere è avere cura” in questo mondo della sorveglianza soft, fatto di beni di consumo e abbigliamento casual sul posto di lavoro. E, come osserva sardonico Peter Marks, Il cerchio è figlio dei Big Data più che del Grande Fratello.

È proprio questo il punto. Le culture odierne della sorveglianza, quei modi cruciali di vedere e di essere nell’ambiente digitale, sono inseparabili dai cosiddetti “dati exhaust” che fluiscono da milioni di macchine in ogni momento di ogni giorno e dall’avido tentativo globale di trasformarli in valore. Ciò che le persone percepiscono, per lo più, è lo straordinario potere che internet ha di mantenerle connesse, di fornire intrattenimento e merci, di aggiornarle, rassicurarle e informarle di continuo. Nel loro rapporto con il mondo online, però, non soltanto improvvisano reazioni ai modi subdoli in cui vengono osservate ma a loro volta usano le tecnologie di sorveglianza per i propri scopi. Così nascono nuove culture della sorveglianza.

Per sintetizzare, dunque, questo libro coniuga due interrogativi diversi sulla sorveglianza nel Ventunesimo secolo. Da un lato c’è l’ovvietà che la sorveglianza è una realtà quotidiana che non proviene solo dall’esterno, ma alla quale partecipiamo dall’interno in molti contesti. Talvolta la adottiamo in quanto strumento per ottenere maggiore sicurezza o convenienza, altre volte la mettiamo in discussione o le opponiamo resistenza ritenendola inappropriata o eccessiva, altre ancora la trattiamo come una possibilità gradevole o rassicurante, offerta dai sistemi o dai dispositivi, per osservare o monitorare gli altri e noi stessi come mai prima.

Spesso fenomeni come la sorveglianza dei social network sembrano un’attività soft, apparentemente insignificante ma, come ribadirò più volte, in realtà contribuiscono a una trasformazione socioculturale. Osservare è diventato uno stile di vita.

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D’altro canto, le tipologie di dati che ormai circolano con volumi, velocità e varietà più grandi che mai, per usare le parole che spesso si applicano ai Big Data, rivestono un interesse enorme per una gamma crescente di attori, non solo dipartimenti governativi, agenzie di sicurezza e polizia, ma anche internet company, aziende sanitarie, ingegneri del traffico, urbanisti e molti altri. I dati sono preziosissimi, sia sotto il profilo economico, come merci da sfruttare e scambiare in mercati multimiliardari e contesti analoghi, sia come strumenti di governo o persino di controllo degli altri. L’osservazione come stile di vita è legata inestricabilmente a queste altre realtà, e pertanto il nostro tema è tutt’altro che marginale o di poco conto rispetto alle principali sfide etiche e politiche della nostra epoca.

Esiste dunque una tensione tra la vita digitale delle persone regolarmente e innocentemente immerse nei social network, in contesti online di gioco – o di “gamification” – e di self-tracking, e quella degli individui le cui occasioni, opportunità di vita e scelte sono colpite, talvolta in modo negativo, dal modo in cui gli altri raccolgono, conservano, classificano e analizzano quei dati. Un gruppo di commentatori sostiene che per qualcuno la sorveglianza è chiaramente gradevole, divertente e empowering, e che bisognerebbe leggere tutto questo come il significativo fenomeno culturale che in effetti è. Altri osservano che quelle stesse attività potrebbero fare il gioco di forze molto più minacciose e che pertanto l’attenzione degli studi sulla sorveglianza dovrebbe concentrarsi sugli aspetti disumanizzanti e limitanti per la libertà delle attuali attività di monitoraggio e di tracciamento.

Per molti aspetti le caratteristiche della sorveglianza come stile di vita sono diverse rispetto alle precedenti culture della sorveglianza, per esempio da quelle di comunità chiuse e geograficamente localizzate. Tra gli elementi più frequenti della sorveglianza di oggi troviamo la facile quantificazione dei dati, la loro estrema tracciabilità, la loro probabile dimensione economica – monetizzata – e la possibilità di raccoglierli a distanza (sono cioè deterritorializzati). Sono meno “solidi”, più “liquidi”, ma condividono ancora pattern di connessione e di attività. I consumatori online, per esempio, sono convinti di essere liberi di scegliere quello che comprano, nonostante la sorveglianza sia ormai un fatto sempre più tangibile. Tuttavia spesso cercano di presentarsi sotto una luce estremamente favorevole, facendo il gioco della sorveglianza sociale a cui prendono parte.

Sottolineo la necessità che gli immaginari e le pratiche della cultura della sorveglianza di oggi vengano presi sul serio e sostengo, allo stesso tempo, che essi sono direttamente collegati alla nostra comprensione delle tipologie di sorveglianza messe in atto dalle internet company, dalle agenzie di sicurezza nazionale e altri. Spesso gli stessi dati non si trasmettono tra utenti, ma anche tra settore pubblico e privato. Gli stessi metodi vengono usati per spiegare i dati e per agire in base a essi. E chi partecipa alla sorveglianza sui social impara dalle strategie delle grandi organizzazioni, e viceversa. Inoltre, acquisire familiarità con oggetti e tecnologie in un ambito potrebbe normalizzare quelli dell’altro. I diversi contesti culturali contribuiscono a determinare il modo in cui le persone interpretano le loro esperienze della sorveglianza.

Verso una sorveglianza generata dagli utenti

L’osservazione degli altri in senso sorvegliante è una pratica antica. Per gran parte della storia dell’umanità, la sorveglianza è stata l’attività di una minoranza, appannaggio di persone o organizzazioni specifiche. Oggi, gran parte della sorveglianza è ancora un’attività specializzata svolta dalla polizia, dalle agenzie di intelligence e ovviamente dalle aziende. Ma viene svolta anche a livello domestico, nella vita quotidiana. I genitori usano dispositivi di sorveglianza per controllare i bambini, gli amici osservano gli altri sui social network, ed è sempre più diffuso l’uso di gadget per il monitoraggio della nostra salute e forma fisica. Oggi si verificano le medesime tipologie di osservazione, ma con strumenti diversi dalle caratteristiche nuove citate sopra. In questo modo osservare diventa uno stile di vita.

“Sorveglianza” è un termine spinoso. La sua origine, dal francese surveiller, letteralmente “vigilare su”, è piuttosto evidente. Il problema è cosa potrebbe rientrare o essere escluso in una definizione rigida della parola. Sorveglianza indica le operazioni e le esperienze di raccogliere e analizzare dati personali allo scopo di esercitare influenza, di decidere chi ha di- ritto a cosa e di controllare. Come dice saggiamente Gary Marx:

“La tecnologia della sorveglianza non viene semplicemente applicata; viene anche esperita dai soggetti, dagli agenti e dal pubblico che definisce, giudica e prova dei sentimenti riguardo al fatto di essere osservato o osservatore”.

La mia definizione sollecita ulteriori interrogativi, come per esempio cosa rientra nella formula “dati personali”? Li prenderemo in esame in seguito. Per ora, osserviamo l’ampiezza delle situazioni coperte dal termine. La sorveglianza potrebbe essere attuata, per esempio, da corporation che esercitano influenza guardando il vostro profilo social per decidere come convincervi a comprare il loro prodotto, da dipartimenti del governo che giudicano i vostri diritti esaminando i vostri conti in banca per decidere se avete i requisiti per ottenere l’assistenza sociale, o da organismi come la polizia che prende decisioni di controllo legate al miglior percorso per una manifestazione. Ma può essere attuata anche nella vita quotidiana, sugli altri, controllando i profili che ci interessano, o su noi stessi, con il cosiddetto self-tracking.

L’emergente “cultura della sorveglianza” di oggi è senza precedenti. Un elemento cruciale è che le persone partecipano attivamente alla propria sorveglianza e a quella degli altri e tentano di regolamentarle. Abbiamo sempre più prove dell’esistenza di pattern di prospettive, modi di vedere o mentalità sulla sorveglianza, nonché di modalità con cui iniziare la sorveglianza, negoziarla o opporvi resistenza. Chi non ha sentito i celebri mantra tirati fuori da politici e altre persone nella vita quotidiana, “Se non avete niente da nascondere non avete niente da temere”? Oppure, “abbiamo bisogno della sorveglianza per essere al sicuro”? Sono piuttosto diffusi ma controversi, come vedremo.

La cultura della sorveglianza è comparsa perché sempre più le persone usano strumenti di monitoraggio. Molti controllano le vite degli altri usando i social network, per esempio. Allo stesso tempo gli “altri” rendono tutto questo possibile concedendo di esporsi alla vista con messaggi e tweet, post e fotografie. Alcuni prendono parte alla sorveglianza anche quando si preoccupano di quello che gli altri, soprattutto organizzazioni grandi e opache come le compagnie aeree o le agenzie di sicurezza, sanno di loro.

Tuttavia, per non dare l’idea che la comparsa della cultura della sorveglianza sia in qualche modo casuale, imprevista o inevitabile, questo libro sottolinea anche che i sistemi disponibili sul mercato sono progettati per permettere e incoraggiare questi sviluppi culturali. Più cerchiamo sui social lo stesso tipo di persone, perché hanno interessi e stili di vita simili, più le aziende possono personalizzare le loro pubblicità e i loro profili. Ovviamente questo non ci rende dei creduloni ingannati dal sistema. Qualcuno potrebbe usare questi sistemi in modi a cui chi li ha progettati non aveva pensato, e potrebbero persino essere più umani, giusti o democratici. Ma il punto è che alcuni aspetti importanti della cultura della sorveglianza rispecchiano possibilità che sono incorporate nelle piattaforme commerciali.

Le persone possono reagire in molti modi diversi all’emergente cultura della sorveglianza. Per esempio, potrebbero agire per bloccare la sorveglianza di qualcuno, per limitare chi può vedere la loro vita. Ma molti si limitano ad andare avanti, pur consapevoli di alcuni aspetti della sorveglianza.

In altri termini, che piaccia o meno, tutti rivestono un ruolo nella sorveglianza, più di quanto succedesse nello “Stato di sorveglianza” o persino nella “società della sorveglianza”.

Queste espressioni descrivono come viene esercitata la sorveglianza su individui e gruppi. La cultura della sorveglianza va oltre. Pur riconoscendo quello che succede nella sorveglianza esercitata dalle organizzazioni, mette in luce i diversi ruoli che tutti noi ricopriamo in rapporto alla sorveglianza.

Pertanto la cultura della sorveglianza è caratterizzata dalla sorveglianza generata dagli utenti. Prendendo spunto dalla nozione di contenuti generati dagli utenti del Web 2.0, possiamo osservare che le stesse capacità tecnologiche – o “affordance”, nella loro definizione tecnica – consentono agli utenti di contribuire fornendo contenuti alla sorveglianza e allo stesso tempo di generare forme di sorveglianza. Da una parte, il coinvolgimento dell’utente nei confronti di dispositivi e piattaforme come smartphone e Twitter crea dati usati nella sorveglianza delle organizzazioni. E dall’altra gli utenti stessi agiscono come sorveglianti quando controllano, seguono e danno valutazioni ad altri con i loro “like”, le loro “raccomandazioni” e altri criteri di valutazione. Quando lo fanno, non interagiscono solo con i loro contatti online, ma anche con i modi subdoli in cui le piattaforme sono create per favorire particolari tipologie di interscambio.

Questo libro, perciò, è anche una specie di mappa a grandezza naturale del mondo della sorveglianza di oggi – anche se, come lo Street View di Google, non copre tutto! – che si concentra in particolare su coloro che, volutamente o meno, consapevolmente o meno, vi prendono parte nella vita di tutti i giorni, producendo sorveglianza generata dagli utenti. Per esempio, prende in considerazione quali emozioni vengono suscitate dalla sorveglianza e dedica un capitolo a Il cerchio di Dave Eggers. Questo è un modo per capire la cultura della sorveglianza di oggi, come potrebbe esserlo ascoltare Every Breath You Take dei Police o guardare il film Le vite degli altri di Florian Henckel von Donnersmarck o un episodio della serie tv Black Mirror.

In altro, foto di Scott Webb – Unsplash

David Lyon

David Lyon è tra i più autorevoli studiosi di sorveglianza al mondo, professore di sociologia alla Queen’s University, Canada. È autore di numerosi libri tra i quali La società sorvegliata (Feltrinelli, 2003) e, con Zygmunt Bauman, Sesto potere. La sorveglianza nella modernità liquida (Laterza, 2014).