Proponiamo un estratto da La scoperta dello spirito del grande filologo e grecista Bruno Snell, che pubblichiamo per prima volta in italiano nella sua versione completa, tradotta da quella definitiva tedesca. Si tratta del suo capolavoro, al quale continuò a lavorare per decenni, e che superò di molto i confini degli studi classici per entrare a pieno diritto tra i libri decisivi del pensiero occidentale contemporaneo.

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Il nostro pensiero europeo è sorto presso i Greci e viene da allora considerato come l’unica forma possibile di pensiero. Senza dubbio per noi europei la forma greca ha un valore determinante e, quando la usiamo nelle speculazioni filosofiche e scientifiche, essa si libera da ogni relatività storica e tende verso l’incondizionato e il duraturo, in una parola, verso la verità; anzi, non soltanto vi tende, ma arriva proprio a concepirli. Eppure questo pensiero è anche qualcosa di storicamente “divenuto” – “divenuto” nel vero senso della parola –, più di quanto comunemente si pensi. Dato che siamo abituati ad attribuirgli un valore determinante, crediamo ingenuamente di poterlo ritrovare inalterato anche in un pensiero del tutto diverso. Per quanto la crescente interpretazione della Storia abbia portato, tra la fine del Diciottesimo e l’inizio del Diciannovesimo secolo, al superamento della concezione razionalistica di uno “spirito” sempre identico a sé, tuttavia anche oggi ci precludiamo la via all’intendimento del mondo greco, interpretando le testimonianze della prima grecità con spirito troppo vicino alle nostre concezioni moderne; e, poiché l’Iliade e l’Odissea, che appartengono alla fase iniziale del mondo greco, parlano a noi in forma così immediata e ci penetrano con tanta forza, è facile dimenticarci che il mondo di Omero è fondamentalmente diverso dal nostro.

Per poter seguire attraverso il primitivo mondo greco quel processo che conduce alla formazione del pensiero europeo, bisogna comprendere radicalmente come sia “sorto” il pensiero presso i Greci.

Infatti non soltanto hanno conquistato, valendosi delle forme di pensiero allora esistenti, nuove discipline (la scienza e la filosofia, per esempio), nonché ampliato alcuni metodi già conosciuti (come il metodo della logica), ma hanno creato proprio ciò che noi chiamiamo “pensiero”: lo spirito umano, inteso come spirito attivo, che indaga e ricerca, venne da loro scoperto, e base di questa scoperta fu una nuova concezione dell’uomo. Questo processo, la scoperta dello spirito, ci si manifesta attraverso la storia della poesia greca e della filosofia, da Omero in poi: le forme poetiche dell’epica, della lirica, del dramma, i tentativi di un intendimento razionale della natura e del- l’essenza dell’uomo rappresentano le tappe di questo cammino.

Quando parliamo di “scoperta dello spirito”, l’espressione ha un valore diverso di quando diciamo, per esempio, che Colombo “scoprì” l’America: l’America esisteva anche prima della sua scoperta; lo spirito europeo, invece, divenne nel momento in cui fu scoperto, perché esiste soltanto quando diventa consapevole nell’uomo. E non è errato parlare qui di “scoperta”. Lo spirito non viene “inventato” allo stesso modo in cui l’uomo inventa uno strumento per migliorare il rendimento dei suoi organi fisici o un metodo per venire a capo di determinati problemi. Non è una cosa che possa essere arbitrariamente pensata e che si possa costruire adattandola allo scopo, come nella scoperta, né è in genere rivolta, come la scoperta, a un determinato scopo: anzi, prima che fosse scoperta, in un certo senso già “era”, anche se in forma diversa, non “come” spirito.

Si presentano qui due difficoltà terminologiche. L’una riguarda un problema filosofico: se diciamo che i Greci scoprono lo spirito e, nello stesso tempo, pensiamo che soltanto nel momento in cui viene scoperto esso diviene (in termini grammaticali si potrebbe dire che lo “spirito” non è soltanto un oggetto affectum, preesistente, ma anche effectum, prodotto), questo dimostra che la forma da noi usata è soltanto una metafora, ma una metafora necessaria e adatta a esprimere con esattezza il nostro pensiero. Dello spirito non possiamo parlare che in forma metaforica.

La stessa difficoltà presentano perciò anche le altre espressioni di cui ci serviamo per trattare questo argomento; se parliamo della concezione o della conoscenza che l’uomo ha di sé, anche in questo caso i termini “concezione” e “conoscenza” non hanno lo stesso valore di quando li usiamo col significato di “concepire qualcosa”, oppure “conoscere un uomo”, per- ché nelle espressioni “concepire sé stesso” e “conoscere sé stesso” (è in questa forma che le useremo) il “sé stesso” esiste appunto soltanto in quanto viene concepito e conosciuto. Se diciamo lo spirito “si rivela”, se vediamo dunque questo processo non da un punto di vista umano, come risultato dell’azione dell’uomo, ma come fatto metafisico, allora l’espressione “si rivela” non ha lo stesso significato di quando diciamo che “un uomo si rivela”, intendendo dire che riemerge da una qualche condizione in cui era celato.

L’uomo rimane sempre lo stesso tanto prima che dopo la sua rivelazione; lo spirito invece acquista esistenza soltanto in quanto si rivela, in quanto entra, collegato al singolo, nel mondo delle apparenze.

E lo stesso vale se consideriamo la “rivelazione” nel senso religioso della parola: un’epifania di Dio presuppone l’esistenza di Dio, anche se Lui non si rivela. Ma lo spirito rivela “sé stesso” nel senso che con ciò lui diviene (viene cioè effectum, prodotto) attraverso il processo storico; soltanto nella Storia lo spirito si rivela, e nulla possiamo dire del suo essere al di fuori della Storia o al di fuori dell’uomo. Dio si rivela in un unico atto, mentre lo spirito lo fa di volta in volta e soltanto in forma limitata, soltanto attraverso l’uomo, e a seconda delle diverse forme individuali. Se però, secondo la concezione cristiana, Dio è spirito e se di conseguenza diventa difficile concepire Dio, ciò presuppone una concezione dello spirito che si è raggiunta la prima volta nel mondo greco.

Con le espressioni “autorivelazione” o “scoperta” dello spirito non intendiamo riferirci a nessuna posizione metafisica specifica, né parlare di uno spirito vagante, esterno o preesistente alla Storia. Le espressioni “autorivelazione” e “scoperta” dello spirito non hanno un significato poi così diverso l’una dall’altra. Forse si potrebbe usare preferibilmente la prima espressione quando ci riferiamo alla primissima epoca, cioè al tempo in cui la conoscenza avviene nella forma del mito o dell’intuizione poetica, e parlare piuttosto di “scoperta” quando ci riferiamo a filosofi, pensatori e scienziati, anche se non si può segnare qui una decisa linea di confine.

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Per due ragioni mi sembra tuttavia opportuno, in questo studio storico, valerci della seconda espressione. Innanzitutto non è la rivelazione di un singolo individuo che c’interessa, ma il fatto che ciò che viene conosciuto possa essere anche comunicato ad altri, poiché per la Storia conta soltanto ciò che può trasformarsi in bene comune; vedremo infatti che molte cose, che non erano ancora state scoperte, già erano penetrate nel- la lingua parlata e che, viceversa, anche le scoperte possono cadere in dimenticanza, e in particolare quelle che si riferiscono al mondo dello spirito rimangono presenti nel sapere a condizione di una continua attività.

Molte cose, per esempio, sono cadute in dimenticanza nel Medioevo ed è stato necessario riscoprirle: anche allora è stato il mondo antico a facilitare l’operazione. In secondo luogo, preferiamo parlare di “scoperta” anziché di “rivelazione” poiché, come vedremo dalle singole fasi di questo processo, è con dolore, angoscia e travaglio che l’uomo raggiunge la conoscenza dello spirito. πάθει μάθος, “dal dolore nasce saggezza”: è un detto che vale anche per l’umanità, però in senso diverso che per il singolo, cui il male insegna a tenersi in guardia da altro male. Il mondo potrà acquistare maggior saggezza, non però guardandosi dal male, perché così facendo si precluderebbe la via a una saggezza maggiore.

Non è possibile, comunque, separare radicalmente l’illuminismo razionale dall’illuminazione religiosa, l’insegnamento dalla conversione, e intendere la “scoperta dello spirito” come il semplice ritrovamento e sviluppo di idee filosofiche e scientifiche.

Molti dei contributi fondamentali che i Greci hanno portato allo sviluppo del pensiero europeo, invece, si presentano sotto forme che, come vedremo meglio in seguito, siamo abituati ad associare alla sfera religiosa, piuttosto che alla storia culturale. Si fa così sentire l’invito alla conversione, a tornare a ciò che è essenziale e autentico, accanto all’esortazione a volgersi al nuovo; e così il grido che scuote e risveglia coloro che dormono, prigionieri del mondo esteriore, può assumere toni quasi profetici, ove lo richieda la conquista di una forma particolare di conoscenza, e di una nuova profondità della dimensione spirituale. Ma tutto questo rientra nel nostro discorso solo nella misura in cui interessa quel processo continuo di presa di coscienza che è possibile ricostruire attraverso la storia dell’antichità.

L’altra difficoltà terminologica ha a che fare con un problema della storia dello spirito. Quando diciamo che lo spirito è stato scoperto dai Greci solo dopo Omero, ed è così divenuto, sappiamo anche che quello che noi chiamiamo “spirito” è stato concepito da Omero in forma diversa; che lo “spirito” cioè esisteva in un certo senso anche per lui, anche se non ancora come tale. Ciò significa che l’espressione “spirito” è un’interpretazione (e un’interpretazione esatta, altrimenti non potremmo parlare di “scoperta”) di qualcosa che prima era stato interpretato in altra forma e che in questa forma perciò già esisteva (quale sia, lo dimostrerà lo studio di Omero). Eppure è semplicemente impossibile cogliere questo “qualcosa” coi mezzi offerti dalla nostra lingua, dato che ogni lingua interpreta le cose diversamente a seconda delle parole di cui dispone.

Ogni volta che vorremo spiegare pensieri che si trovano in una lingua diversa dalla nostra, dovremo dire: la parola straniera ha nella nostra lingua questo significato e nello stesso tempo non lo ha. E quanto più lontana dalla nostra è la lingua che si considera, quanto più grande è la distanza che passa fra noi e il suo spirito, maggiore diventa l’incertezza. Se vogliamo spiegare nella nostra lingua il concetto espresso nella lingua straniera (ed è questo il compito del filologo), e se nel farlo vogliamo tuttavia evitare forme vaghe, non possiamo far altro che stabilire in un primo momento dei valori approssimativi ed eliminare poi quei concetti della nostra lingua che non corrispondono a quelli stranieri. Soltanto questo procedimento negativo potrà fissare i limiti della parola straniera. Anche così facendo, però, resta in noi la convinzione che questo concetto straniero ci sia, malgrado tutto, comprensibile, che possiamo cioè riempire ciò che abbiamo escluso con un senso vivo, anche se non possiamo rendere questo senso nella nostra lingua. Perlomeno nei confronti del greco, non c’è bisogno di essere a questo riguardo troppo scettici: si tratta in fondo del nostro passato spirituale, e ciò che diremo in seguito varrà forse a dimostrare che quanto viene in un primo tempo considerato come radicalmente estraneo a noi è qualcosa di molto naturale, di molto più semplice, perlomeno, delle complicate concezioni moderne, e che possiamo parteciparvi non solo col ricordo, ma anche nel senso che queste possibilità sono conservate in noi stessi, e possiamo rintracciarvi i fili delle varie forme del nostro pensiero.

Quando in seguito diremo che gli uomini omerici non avevano spirito né anima, e che di conseguenza erano loro ignote molte altre cose, con questo non vogliamo affermare che non potessero rallegrarsi o pensare a qualcosa e così via; il che sarebbe assurdo. Intendiamo dire piuttosto che quelle cose non venivano interpretate come azioni dello spirito e dell’anima: in questo senso si può dire che non esisteva al tempo di Omero né lo spirito né l’anima.

Da questo punto di vista l’uomo dei primi secoli non poteva neanche concepire il “carattere” del singolo individuo.

Anche qui, non si può naturalmente negare che le grandi figure dei poemi omerici abbiano dei contorni ben definiti, ma le modalità grandiose e tipiche nelle quali si attuano le loro reazioni non vengono intese esplicitamente come “carattere” nella loro unità spirituale e volitiva, né tantomeno come spirito o come anima individuale.
Naturalmente c’era già “qualcosa” che occupava il posto di ciò che i Greci dell’età più tarda concepirono come spirito o come anima – in questo senso i Greci di Omero possedevano naturalmente uno spirito e un’anima –, sarebbe tuttavia un controsenso attribuire loro spirito e anima: poiché lo spirito, l’anima, sono soltanto quando se ne acquista coscienza. L’esattezza terminologica è, in questi problemi, ancora più importante di quanto non lo sia in genere nelle indagini filologiche; l’esperienza ci dimostra quanto sia facile in questo campo cadere nell’errore.

Se si vuole accentuare il lato specificamente europeo nell’evoluzione del pensiero greco, non c’è bisogno di contrapporlo per esempio al mondo orientale: per quanto i Greci abbiano assorbito molte concezioni e molti motivi delle antiche civiltà orientali, nel campo di cui ci occuperemo ora sono indubbiamente indipendenti dall’Oriente. Con Omero veniamo a conoscere il primitivo mondo del pensiero europeo attraverso opere di poesia così dettagliate che possiamo azzardare anche conclusioni ex silentio. Se in Omero non sono presenti molte cose che, secondo la nostra concezione moderna, ci aspetteremmo senz’altro di trovare, dobbiamo supporre che non le conoscesse ancora, tanto più che diverse di queste “lacune” appaiono intimamente connesse fra loro, e che per contro una molteplicità di cose in cui ci imbattiamo e che a noi risultano, in un primo momento, ignote insieme a queste lacune vanno invece a formare un insieme sistematico. Passo dopo passo, addirittura secondo un ordine sistematico, si rivela nel corso dell’evoluzione greca ciò che ha portato alla nostra concezione europea di spirito e di anima, e quindi alla filosofia, alla scienza, alla morale e – più tardi – alla religione europea.
Il significato del mondo greco viene cercato qui per vie diverse da quelle seguite dal classicismo: non siamo sulle tracce di un’umanità perfetta, e quindi astorica, ma vogliamo, al contrario, ricercare il valore storico di ciò che i Greci hanno compiuto.

Da La scoperta dello spirito di Bruno Snell. In alto, immagine di Levi Meir Clancy – Unsplash 

Bruno Snell

Bruno Snell (Hildesheim, 1896 - Amburgo, 1986) è stato tra i maggiori grecisti e filologi classici del Ventesimo secolo. Apparsa originariamente nel 1946 in Germania, La scoperta dello spirito, qui per la prima volta in italiano nella sua edizione definitiva e con il titolo originale, fu il suo libro più conosciuto.