Proponiamo un estratto del volume Ecologia Oscura. Fondendo studi umanistici e scientifici, teoria filosofica e cultura pop, antropologia, science fiction, ecologia, biologia e fisica, Morton esplora le fondamenta logiche della crisi ecologica, pervasa dalla malinconia e dalla negatività, nel tentativo di ristabilire il nostro legame con gli esseri non-umani e aiutandoci a riscoprire gioia ed entusiasmo, per rischiarare lo strano e oscuro loop che stiamo attraversando. 

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È l’era delle macchine eppure, in modo inquietante, non lo è: a vista d’occhio, solo distese di campi e di grano. O forse i campi sono già un tipo di macchina? Le persone appaiono come componenti macchiniche: gambe, vestiti, braccia e mani in movimento. Tess dei D’Urbervilles, una contadina immaginaria del 1891, sembra il pezzo di un gigantesco dispositivo, eppure, allo stesso tempo, è un individuo in carne e ossa che esemplifica una strana contraddizione tra essere e apparire. Questa contraddizione, attivata dalla messa in moto di motori a vapore e dal codice kantiano, ci costringe a pensare a una macchinazione molto più antica e tuttora in movimento.

Una struttura di dodicimila anni, una struttura che sembra così reale e che chiamiamo Natura: l’arma di distruzione di massa più lenta e forse più efficace che mai sia stata concepita.

Cos’è l’ecologia oscura? È consapevolezza ecologica, oscura nel senso di deprimente (dark-depressing). Eppure, la consapevolezza ecologica è anche oscura nel senso di perturbante (dark-uncanny). E, stranamente, è oscura nel senso di dolce (dark-sweet).

Il nichilismo continua a risultare alla moda di questi tempi. Ammesso e non concesso che la questione ci stia a cuore, di solito non andiamo al di là del primo tipo di oscurità. In questo libro, cercheremo di arrivare alla terza, l’oscurità dolce, passando attraverso la seconda, quella perturbante. Ma non abbiate paura.

Qual è l’oggetto dell’ecologia oscura? L’ecognosi, un enigma. L’ecognosi è come il conoscere, ma è più simile al lasciarsi conoscere. È simile al coesistere. È come abituarsi a qualcosa di strano, ma è anche abituarsi a una stranezza che non per questo diventa meno strana. L’ecognosi è come un conoscere che conosce sé stesso. Una conoscenza circolare – un conoscere strano. Weird (strano) viene dall’Antico Nordico urth, che significa intrecciato, in loop. Le Norne intrecciano infatti la tela del fato e Urðr è una delle Norne. Ma l’aggettivo weird può significare anche causale (causal): l’avvolgimento della spola del destino.

Usato come sostantivo, weird è meno noto e indica, invece, il destino o il potere magico e, per estensione, i detentori di quel potere, le Parche o le Norne. In questo senso, weird è connesso a worth (valere), inteso non come sostantivo ma come verbo, un verbo che ha a che fare con l’accadere o con il divenire.

Strano (weird): una svolta, un avvolgimento o un intreccio, un colpo di scena. La pioggia ha dato una strana forma a quel libro. Il latte è diventato acido. Ha avuto una svolta inaspettata. Un tempo davvero inaspettato. Eppure strano può significare anche dall’aspetto strano. Quella nuvola gonfia di pioggia appare così strana! Si sta comportando in modo strano. Il latte ha un odore strano. Ristraniamento globale.

Il termine strano è attraversato da un oscuro sentiero tra causalità e dimensione estetica, tra fare e apparire, un sentiero che la filosofia occidentale dominante ha interrotto ed evitato di percorrere.

Lo percorreremo, poiché ci fornisce una via d’uscita dal funzionamento macchinico che abbiamo visto all’opera nel campo di Tess. Ora, il problema è che l’apparenza non è mai del tutto come appare. In Ecologia oscura sosterremo che l’apparenza è sempre strana. Scorgiamo infine un altro sentiero, quello tra il termine weird e il termine faerie (fata). Anche il termine faerie deriva da una parola che designa il fato e fa riferimento a un’illusione “sovrannaturale”, a un’apparizione magica e a una sorta di regno “ultraterreno”:

weird << urth (Antico Nordico) = Norn = nemesi = fatum (Latino) >> fay >> faerie

Sebbene la tela del fato sia spesso invocata nella tragedia – tipica espressione della civiltà dell’agricoltura – parole come weird e faerie evocano un mondo animistico che è già contenuto all’interno di quella stessa tela. L’oscuro luccichio della fata nel fato è la spia che Ecologia oscura va cercando. Proveremo a dimostrare che noi mesopotamici non abbiamo mai abbandonato il Tempo del Sogno. Abbiamo fatto così pochi progressi che, sebbene pensassimo di essere sul punto di svegliarci, in realtà stavamo semplicemente accumulando strumenti per capire che si trattava di un sogno a occhi aperti, persino più vivido di quello precedente.

Stranezza strana. La consapevolezza ecologica è strana: è attorcigliata come un loop. Poiché la portata degli esseri ecologici non ha limiti (biosfera, sistema solare), possiamo sostenere che tutte le cose sono a forma di loop. La consapevolezza ecologica è un loop perché l’ingerenza umana è a forma di loop, perché i sistemi ecologici e biologici sono in loop. E, infine, perché esistere in quanto tale significa assumere la forma di un loop. La forma cicolare degli esseri indica che viviamo in un universo di finitudine e fragilità, un mondo in cui tutti gli oggetti sono soffusi e avvolti in misteriose nuvole ermeneutiche di ignoto.

Significa che la politica della coesistenza è sempre contingente, fragile e imperfetta, perché è necessario che, nel pensare l’interdipendenza, debba mancare almeno un essere. I puzzle ecognostici non sono mai completi.

Di che tipo di stranezza stiamo parlando? Di una stranezza strana. Strano significa dall’aspetto strano; stranezza sta per curvatura della causalità. Concentriamoci su questa idea, pensando ai molti tipi di loop ecologici.

Esistono loop di feedback positivi che intensificano la potenza del sistema in cui operano. Antibiotici contro batteri. Agricoltori contro suolo, un loop che negli anni Trenta del Novecento ha creato la Dust Bowl negli Stati Uniti centrali. Questi loop sono diffusi nell’atteggiamento, tutto umano, “comando e controllo”, messo in atto nella gestione dell’ambiente, che provoca ingenti danni agli ecosistemi. Alcuni di essi sono non-intenzionali: si pensi alla decimazione delle api avvenuta nel secondo decennio del XXI secolo, e provocata dall’uso di pesticidi che hanno ridotto drasticamente il fenomeno dell’impollinazione. Queste conseguenze non-intenzionali sono stranamente strane, nel senso che sono inquietanti, inaspettate ricadute sul mito del progresso: a ogni apparente passo in avanti della trivella corrisponde un rinculo, un movimento contrario e asimmetrico.

Ci sono poi loop di feedback negativi che attutiscono l’intensità di quelli positivi. Ne sono esempio i termostati e l’ipotesi Gaia di James Lovelock. Ci sono loop di fase. Li riscontriamo per esempio nel riscaldamento globale, in entità spalmate temporalmente che sono così vaste da andare in sincrono e fuori sincrono con la temporalità umana. (In questo libro si parlerà di riscaldamento globale piuttosto che di cambiamento climatico). E poi esiste ancora un altro tipo di loop, il loop oscuro-ecologico: uno strange loop, uno strano anello.

Per strange loop intendo un loop in cui due livelli, che appaiono completamente separati, si attorcigliano l’uno nell’altro. Si pensi alla dicotomia tra muoversi e stare fermi. Nella perturbante storia raccontata da Lewis Carroll, Alice cerca di lasciare la Casa dello Specchio. Si avvia verso il giardino retrostante, eppure è quello stesso camminare a riportarla verso la Casa. Uno strange loop è stranamente strano: un colpo di scena dall’apparenza inquietante. È ciò che meglio definisce la consapevolezza ecologica emergente che caratterizza oggigiorno le persone “civilizzate”.

Due tipi di stranezza: una svolta e uno strano apparire, e un terzo tipo, lo strano divario che separa i primi due. Il termine Antropocene designa due livelli che solitamente pensiamo essere distinti: geologia e umanità. A partire dalla fine del diciottesimo secolo, gli esseri umani hanno depositato strati di carbone sulla crosta terrestre. Dal 1945 si suole far partire la Grande Accelerazione dell’Antropocene, contrassegnata da un enorme picco di dati nel grafico che raffigura il coinvolgimento umano nei sistemi terrestri.

L’Antropocene lega a doppio filo la storia umana e il tempo geologico in uno strange loop, stranamente strano.

Pensa a quanto tutto questo possa riguardare anche te. Ecco dov’eri: a spalare carbone nella tua macchina a vapore, la grande invenzione brevettata nel 1784 che Marx considerava il motore del capitalismo industriale, la stessa macchina che Paul Crutzen ed Eugene Stoermer definiscono l’istigatrice dell’Antropocene. Il 1784 non è il primo anno in cui viene brevettata una macchina a vapore, ma il brevetto del 1784 ne parla come di una macchina tuttofare che può essere collegata a un qualsiasi altro dispositivo che la alimenti. Questa caratteristica – essere una macchi- na tuttofare – è ciò che ha permesso la svolta industriale.

Ed eccoti, accendi il motore della tua auto, e quell’idea si insinua lentamente dentro di te: sei parte di un’entità enormemente distribuita che chiamiamo specie. Eppure la differenza tra la stranezza del mio girare la chiave di accensione e quella di essere un membro della specie umana è di per sé strana. Ogniqualvolta accendo il motore della mia macchina, o di una macchina a vapore, non intendo danneggiare la Terra, né tanto meno contribuire a causare la sesta estinzione di massa di questo pianeta vecchio quattro miliardi e mezzo di anni.17 (Fatto molto preoccupante, la più grave estinzione nella storia della Terra, l’estinzione di massa del Permiano-Triassico, è stata molto probabilmente causata dal riscaldamento globale). Eppure è quello che sto facendo, anche se non intenzionalmente! Il fatto che io giri la chiave è statisticamente irrilevante: e dal mio punto di vista di individuo questo gesto non è affatto strano.

Ma se osserviamo lo stesso fenomeno a una scala di grandezza superiore, succede qualcosa di molto strano. Se moltiplico il numero di queste azioni sino ad arrivare a miliardi di chiavi che girano e miliardi di braccia che spalano carbone, sto danneggiando la Terra. Sono responsabile dell’Antropocene in quanto membro di questa specie. Senz’altro sono formalmente responsabile nella misura in cui so cos’è il riscaldamento globale. È tutto ciò di cui hai bisogno per essere definito responsabile di qualcosa. Sai che un camion sta per investire un uomo? Sei responsabile nei confronti di quell’uomo. In un caso del genere, la responsabilità formale è fortemente rafforzata da quella causale. Sono il criminale e lo scopro tramite la scienza forense. Proprio come avviene nei noir: sono allo stesso tempo il detective e il criminale! Sono una persona. Faccio parte anche io di un’entità che è diventata una forza geofisica che agisce su scala planetaria.

L’oscurità della consapevolezza ecologica è la stessa del noir – consiste in uno strange loop: il detective è anche un criminale.

Nei noir più intransigenti, il narratore è implicato nella trama: due livelli che normalmente non si intrecciano, che alcuni ritengono strutturalmente non intrecciabili. Noi popoli “civilizzati” – noi mesopotamici – siamo i narratori del nostro destino. La consapevolezza ecologica è quel momento in cui i narratori scoprono di essere i tragici criminali.

Che strabiliante capovolgimento, che colpo di scena o, come si esprimeva Aristotele riguardo alle tragiche sorti, che peripezia (termine che tecnicamente indicava il momento in cui un corridore girava attorno a un palo in uno stadio greco)! Una svolta, un colpo di scena… qualcosa di strano. Che scompiglio nelle nostre narrazioni moderne e postmoderne sull’umano e sull’“Occidente”. Esistono così tante narrazioni che è impossibile elencarle tutte: consideriamo solo un fatto essenziale, che ha a che fare con i nostri pensieri riguardanti il luogo in cui viviamo, il pianeta che abitiamo. Ci siamo raccontati che il concetto di “spazio” omogeneo e vuoto avesse conquistato quello di “luogo” – particolare e chiaramente localizzato. Possiamo ritenere che la categoria di luogo sia un pezzo di antiquariato, oppure, all’opposto, che varrebbe la pena preservarla proprio perché antica. Ma in un certo senso, la differenza non incide sul tipo di persona che siamo.

In molti, a partire dagli anni Settanta, hanno annunciato la morte del concetto di luogo. Negli studi letterari, l’annuncio è andato di pari passo con l’affermarsi del linguaggio della testualità in opposizione a quello dell’oralità. Siamo abituati a contrapporre oralità (la presenza, i villaggi, il tempo organico e lento, le tradizioni) e testualità (la dissoluzione, la velocità, la cultura tecnologica moderna e postmoderna). Ma si tratta di coordinate terribilmente obsolete. Con un colpo di scena che nessuno si aspettava (perché non stavamo guardando oltre il nostro naso umano), il concetto di spazio non ha mai colonizzato quello di luogo. La litania del postmoderno era semplicemente un sintomo tardivo del mito moderno dell’affrancamento dalle condizioni materiali.

Era accaduto esattamente il contrario: dal punto di vista dell’era ecologica, genuinamentepost-moderna, è collassato proprio il concetto di spazio (il sogno di un vuoto spazio liscio). Quella dello “Spazio” si è rivelata una rassicurante narrazione creata dagli esseri umani bianchi imperialisti occidentali; allo stesso modo, la teoria della relatività ha dimostrato che la geometria euclidea era solo una piccola regione, dal sapore umano, di uno spaziotempo gaussiano molto più fluido. Il concetto euclideo secondo cui lo spazio è un contenitore con linee rette può servire a te, esploratore in cerca di indicazioni su come muoverti lungo la costa dell’Africa per raggiungere l’Isola delle Spezie. Lo spazio, in questo senso, è collassato, e il luogo è emerso nella sua vera dimensione, mostruosa e inquietante, vale a dire nella sua dimensione non umana. In che modo?

Ora che la polvere della globalizzazione si è stabilizzata e abbiamo a disposizione montagne di dati sul riscaldamento globale, sappiamo di abitare un pianeta molto peculiare, dotato di una biosfera molto peculiare. Non si tratta di Marte, ma della Terra: la nostra consapevolezza del pianeta non è frutto di una corsa cosmopolita, ma della sensazione, piuttosto inquietante, che esiste una moltitudine di luoghi a una moltitudine di scale differenti: tavolo, casa, strada, quartiere, Terra, biosfera, eco-sistema, città, bioregione, campagna, placca tettonica. E ancora, e forse questa lista è più rilevante: nido d’uccello, diga di castoro, ragnatela, migrazione delle balene, tana del lupo, microbioma batterico. E questi luoghi, come nel concetto di spaziotempo, sono inestricabilmente connessi con differenti tipi di scale temporali: cene, generazioni, evoluzione, clima, “storia del mondo” (umano), DNA, vita, vacanze, geologia; e ancora: tempo dei lupi, tempo delle balene, tempo dei batteri.

Così tanti sono i luoghi che si intersecano, così tante le scale, così tanti i non umani. Il luogo, ormai, non ha nulla a che fare con il vecchio, affidabile concetto di costanza.

Si è dissolta l’idea di presenza costante: il mito per cui qualcosa è reale nella misura in cui esiste costantemente – è costantemente “là”. Il concetto di spazio è sempre stato una macchina a presidio costante, che fa apparire le cose consistenti e solide per renderle più agevoli da colonizzare, schiavizzare e saccheggiare. Il concetto di presenza costante faceva parte di un preciso progetto antropocentrico di colonizzazione. La consapevolezza planetaria vagamente immaginata dagli uomini bianchi occidentali, nelle loro fantasticherie sulle Isole delle Spezie e sul commercio globale, incombe ormai su di noi e non ha nulla a che vedere con la corsa alla deterritorializzazione, con l’essere folli o liberi da catene. Quasi al contrario: ci troviamo all’interno di luoghi molto più grandi rispetto a quelli costruiti dagli esseri umani. E, in ogni caso, di chi è il luogo?

Da quando possiamo permetterci di pensarlo svincolati dal mito della presenza costante, lo spazio si è rivelato essere un concetto di natura antropocentrica. Chi celebra lo sradicamento, o si dichiara nostalgico rispetto alle vecchie usanze, sta semplicemente fingendo.

Da Ecologia Oscura di Timothy Morton. In alto, foto di Erica Li – Unsplash

Timothy Morton

Timothy Morton

Timothy Morton è Rita Shea Guffey Chair in English alla Rice University. Ha scritto numerosi libri, tra i quali sono apparsi in italiano Iperoggetti (2018), Noi, esseri ecologici (2018) e Come un’ombra dal futuro (2019). Tra i suoi numerosi progetti, ha collaborato con artisti come Laurie Anderson, Björk e Pharrell Williams, ha scritto il libretto dell’opera Time Time Time di Jennifer Walshe e partecipato a Living in the Future’s Past, il documentario sul riscaldamento globale con Jeff Bridges.