Iniziamo con un paio di storie dal mondo dello sport. Probabilmente conoscerete già la prima.

Quel papà si era accorto che suo figlio era particolare. A sei mesi, il piccolo già era in grado di stare in equilibrio sul palmo della mano di suo padre che camminava in giro per la casa. A sette mesi, suo padre gli diede un putter per giocare. Il bambino lo trascinava dovunque andasse col girello. A dieci mesi, era sceso dal seggiolone, aveva gattonato fino a una mazza da golf tagliata a metà apposta per lui, e aveva imitato uno swing che aveva visto in garage. Non potendo ancora parlargli, suo padre disegnò per lui il giusto posizionamento delle mani sul manico. “È molto difficile spiegare come fare un buon putt a un bambino che non sa ancora parlare”, avrebbe detto in seguito.

A due anni, un’età nella quale il Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie annota sviluppi fisici cruciali come “calciare una palla” o “stare sulle punte”, il bambino andò in televisione e usò una mazza che gli arrivava fino alla spalla, per colpire una palla davanti a un entusiasta Bob Hope. Lo stesso anno, partecipò al suo primo torneo, vincendo nella categoria fino a dieci anni. Non c’era tempo da perdere. A tre anni, mentre il piccolo imparava a far uscire la palla da golf dalle “tlappole di sabbia”, suo padre stava pianificando il suo futuro. Sapeva che suo figlio aveva ricevuto un dono, e aveva il dovere di guidarlo.

Pensateci: se vi foste sentiti sicuri del cammino da seguire, forse anche voi avreste cominciato a insegnare a vostro figlio di tre anni come gestire l’inevitabile e insaziabile futura pressione dei media. Faceva domande al bambino, interpretando un giornalista, e gli insegnava come rispondere in modo secco, senza dire mai niente di più di quanto richiesto. Quello stesso anno, il ragazzo completò un campo in California in 48 colpi, solo undici sopra al par.

A quattro anni, suo padre poteva lasciarlo in un campo di golf la mattina alle nove e riprenderlo otto ore dopo, spesso coi soldi che aveva vinto contro quelli così sciocchi da dubitare di lui. A otto anni, il figlio sconfisse il padre per la prima volta. Al padre non importò, perché era convinto che suo figlio avesse un talento unico, e che lui fosse il solo in grado di aiutarlo. Lui stesso era stato un grande sportivo, malgrado le enormi avversità.

Aveva giocato a baseball al college quando era il solo nero dell’intero campionato. Capiva le persone e il valore della disciplina; laureato in sociologia, aveva prestato servizio in Vietnam come membro della élite dell’esercito, i Berretti Verdi, e in seguito aveva insegnato psicologia di guerra ai futuri ufficiali. Sapeva di non aver dato il meglio coi tre figli avuti nel precedente matrimonio, ma ora, col numero quattro, sentiva di avere un’altra possibilità di fare la cosa giusta. E tutto stava andando secondo i piani.

Quando arrivò a Stanford, il ragazzo era già famoso, e ben presto suo padre spiegò a tutti quanto fosse importante. Suo figlio avrebbe avuto un impatto più grande di Nelson Mandela, più di Gandhi, più di Buddha. “Si rivolge a più persone di loro”, spiegava. “È il ponte tra oriente e occidente. Non ci sono limiti, perché lui ha imparato dove deve andare. Non so in che modo accadrà esattamente. Ma lui è il Prescelto”.

Probabilmente conoscerete anche la seconda storia, anche se magari non la riconoscerete subito.

Sua madre era un’allenatrice, ma non l’aveva mai allenato. Lui diede qualche calcio a una palla mentre imparava a camminare. Da ragazzo, la domenica giocava a squash con suo padre. Si divertiva con lo sci, la lotta, il nuoto e lo skate. Giocava a basket, pallamano, tennis, ping pong, a badmiton con la siepe del vicino e a calcio quando era a scuola. In seguito avrebbe dichiarato che i molti sport praticati l’avevano aiutato a sviluppare un fisico atletico e la coordinazione occhio-mano.

Non gli importava di che sport si trattasse, bastava che ci fosse di mezzo una palla. “La presenza di una palla aumentava sempre il mio interesse”, avrebbe ricordato. Amava giocare. I suoi genitori non avevano particolari aspirazioni per lui come sportivo. “Non avevamo un piano A o un piano B”, ha spiegato sua madre. Assieme al padre, lo incoraggiava a provare sport di tutti i tipi. Non potevano fare altrimenti. Se doveva star fermo troppo a lungo, ha detto sua madre, quel ragazzino “diventava insostenibile”.

Sua madre insegnava tennis, ma non volle mai allenare il figlio. “Mi avrebbe solo fatto arrabbiare. Provava strani colpi di tutti i tipi, e non mi rimandava mai indietro una palla normalmente. Per una mamma non è divertente”. I suoi genitori non lo spingevano, anzi, come ha scritto un giornalista di Sports Illustrated, al massimo lo “frenavano”.

Quando divenne teenager, incominciò a dedicarsi maggiormente al tennis, “e se mai cercarono di fargli fare qualcosa, provarono a fargli prendere il tennis meno sul serio”. Quando giocava, spesso sua madre se ne andava a chiacchierare con le amiche. Suo padre gli diede una sola regola: “Non barare”. Non lo fece, e cominciò a diventare molto bravo.

Già da teenager era abbastanza forte da essere intervistato da un giornale locale. Sua madre rimase sconcertata quando lesse che suo figlio, alla domanda su che cosa avrebbe acquistato per prima cosa coi guadagni del tennis, aveva risposto una “Mercedes”. Si sentì sollevata quando il giornalista le fece ascoltare la registrazione dell’intervista, e si rese conto che c’era stato un errore: il ragazzo aveva risposto “mehr Cds”, in svizzero tedesco. Voleva soltanto “più CD”.

Certo, quel ragazzo aveva il gusto della competizione. Eppure quando il maestro di tennis aveva deciso di spostarlo coi giocatori più grandi, aveva chiesto di rimanere coi suoi amici. Del resto parte del divertimento era passare il tempo a chiacchierare di musica, wrestling o calcio dopo le lezioni.
Quando si decise ad abbandonare gli altri sport, soprattutto il calcio, per concentrarsi sul tennis, i suoi rivali avevano da tempo iniziato a lavorare con psicologi, nutrizionisti e coach che li aiutassero a diventare più forti. Ma alla lunga la cosa non limitò il suo sviluppo.

A metà della trentina, un’età nella quale in genere anche le leggende del tennis si ritirano, sarebbe stato ancora il numero uno del ranking mondiale.
Nel 2006, Tiger Woods e Roger Federer si incontrarono per la prima volta, entrambi all’apice della propria grandezza. Tiger arrivò col proprio jet privato per guardare la finale degli US Open. La cosa innervosì particolarmente Federer, ma non gli impedì di vincere per il terzo anno di fila. Woods lo raggiunse negli spogliatoi per festeggiare stappando champagne. Si rapportarono in modo unico.

“Non avevo mai parlato con nessuno che conoscesse tanto bene la sensazione di essere invincibile”, avrebbe spiegato in seguito Federer. Divennero subito amici, e protagonisti del dibattito su chi fosse il più forte sportivo del mondo.

Anche Federer si rendeva conto delle differenze. “La sua storia è completamente diversa dalla mia”, ha dichiarato a un biografo nel 2006. “Anche quando era bambino, il suo obiettivo era battere il record di vittorie nei majors. Il mio sogno invece era conoscere Boris Becker o riuscire prima o poi a giocare a Wimbledon”.

Può sembrare strano che un bambino con dei genitori che lo “frenano” e che prende lo sport a cuor leggero possa diventare un uomo in grado di dominare il proprio sport come mai nessuno prima di lui. A differenza di Tiger, Roger partiva in svantaggio rispetto a migliaia di ragazzini. L’incredibile formazione di Tiger è il soggetto di una serie di best-seller sullo sviluppo della competenza, uno dei quali è un manuale per i genitori scritto dal padre di Tiger, Earl. Tiger non si limitava a giocare a golf. Si impegnava in un “allenamento deliberato”, l’unico significativo in un mondo dove la regola delle diecimila ore per diventare competenti è diventata onnipresente.

La “regola” rappresenta l’idea che il numero di ore di allenamento altamente specializzato accumulate sia il solo fattore nello sviluppo delle abilità, qualunque sia il loro ambito. L’allenamento deliberato, secondo lo studio di trenta violinisti usato per elaborare la regola, è quello nel quale chi impara riceve “istruzioni esplicite sul metodo migliore” supervisionate individualmente da un istruttore, con l’apporto di un “feedback informativo immediato e la conoscenza dei risultati della propria performance”, per poi “eseguire ripetutamente lo stesso compito o compiti similari”.

Cumuli di lavori sullo sviluppo delle competenze dimostrano che i migliori atleti ogni settimana dedicano più tempo a un allenamento deliberato tecnicamente avanzato rispetto agli atleti di minor livello.

Tiger è diventato il simbolo dell’idea che il successo derivi dalla quantità di allenamento deliberato, e del suo corollario: bisogna iniziare ad allenarsi da piccoli, il prima possibile.La frenesia di focalizzare gli sforzi presto e in modo ristretto è non è limitata allo sport. Ci dicono spesso che in un mondo che diventa sempre più complesso e competitivo, dobbiamo diventare più specializzati (e iniziare prima a diventarlo). Viene sempre sottolineato il vantaggio che le più celebri icone del successo hanno ricevuto dalla loro precocità: Mozart col pianoforte, il CEO di Facebook Mark Zuckerberg con una tastiera di altro tipo. La conoscenza umana è in costante espansione e il mondo è interconnesso: la risposta sembra essere l’esaltazione di un focus sempre più stretto.

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Gli oncologi non si specializzano più nel cancro, ma nel cancro di un singolo organo, e la tendenza si rafforza ogni anno. Lo scrittore e chirurgo Atul Gawande ha ricordato che quando i dottori parlano scherzando di chirurghi dell’orecchio sinistro, devono “controllare che non esistano davvero”.
In Bounce, il suo bestseller sulla regola delle diecimila ore, il giornalista inglese Matthew Syed ha dato la colpa dei fallimenti del governo britannico all’incapacità di seguire il rigido percorso della specializzazione alla Tiger Woods. Spostare funzionari governativi di alto livello da un incarico all’altro, ha scritto, “è assurdo come dire a Tiger Woods di passare dal golf al baseball, e poi al football e all’hockey”.

Peccato che l’enorme successo della Gran Bretagna nelle recenti Olimpiadi Estive, dopo decenni di performance deludenti, sia stato supportato da programmi pensati per far provare nuovi sport agli adulti e agevolare chi ha sviluppato tardi le proprie doti: uno dei funzionari addetti al programma, parlando con me, li ha chiamati quelli “cotti a fuoco lento”. A quanto pare, l’idea che un atleta, anche uno che mira all’eccellenza, possa seguire il percorso di Roger provando diversi sport non è poi così assurda. […]

In genere chi farà parte delle élite all’inizio dedica meno tempo ad allenarsi in modo deliberato nell’attività della quale diverrà esperto. Attraversa invece quel che i ricercatori chiamano un “periodo di sampling”.

Si cimenta in diversi sport, spesso in un contesto non strutturato o poco strutturato; sviluppa una serie di capacità fisiche alle quali potrà ricorrere in futuro; impara quali sono le sue abilità e inclinazioni; e solo in seguito si focalizza su una sola area, migliorando l’allenamento tecnico. Il titolo di uno studio sugli atleti negli sport individuali spiega che “Specializzarsi tardi” è “la chiave del successo”; e un altro afferma: “Raggiungere il top negli sport di squadra: iniziate dopo, intensificate i vostri sforzi, siate determinati”.

Quando ho cominciato a scrivere di questo argomento, ho incontrato critiche ponderate, ma anche netti rifiuti. “Forse succederà in altri sport”, mi hanno detto spesso i fan di qualche disciplina, “ma non vale per il nostro sport”. A farsi sentire di più sono stati gli appassionati dello sport più famoso del mondo, il calcio. Per coincidenza, alla fine del 2014, un team di scienziati tedeschi ha pubblicato uno studio che dimostrava come i componenti della loro nazionale, fresca vincitrice dei Mondiali, si fossero in genere specializzati tardi, e avessero giocato in categorie non molto più organizzate di quelle dilettantesche fino a ventun anni, o anche dopo.

Avevano passato gran parte della loro infanzia e adolescenza giocando a calcio in modo non organizzato o dedicando il tempo ad altri sport. Un altro studio, pubblicato due anni dopo, ha rilevato le abilità di calciatori di undici anni di età e li ha seguiti per due anni. A tredici anni era migliorato di più chi giocava ad altri sport e a calcio in modo non organizzato, rispetto a chi “si allenava o giocava a calcio in modo organizzato”. Scoperte del genere sono state riscontrate in una vasta gamma di sport, dall’hockey alla pallavolo.

La presunta necessità dell’iperspecializzazione è alla base di un vasto marketing, sportivo e non solo, di grande successo, animato talvolta anche da buone intenzioni. Nella realtà, il percorso di Roger conduce alla fama molto più di quello di Tiger, ma sono storie che spesso non vengono raccontate, e quando accade, i toni non sono altrettanto trionfali. Potrete conoscere qualcuno dei nomi, ma probabilmente non i retroscena.

Ho cominciato a scrivere questa introduzione subito dopo il Super Bowl del 2018, nel quale un quarterback che prima di essere scelto dal football era stato scelto dal baseball professionistico (Tom Brady) si era trovato contrapposto a un altro che aveva praticato football, basket, baseball e karate, e che al college aveva dovuto scegliere tra basket e football (Nick Foles). Quello stesso mese, la sportiva ceca Ester Ledecká è diventata la prima donna a vincere l’oro in due diversi sport (sci e snowboard) nelle stesse Olimpiadi Invernali. Da ragazzina, Ledecká aveva praticato diversi sport (ancora gioca a beach volley e va sul windsurf), si era concentrata sugli studi, e non si era mai dannata per arrivare prima nelle categorie junior.

Il giorno dopo il suo secondo oro, il Washington Post ha scritto: “In un’era di specializzazioni sportive, Ledecká è un’evangelista della varietà”. Poco dopo i suoi trionfi, il pugile ucraino Vasyl’ Lomačenko ha stabilito il record del minor numero di incontri impiegati per vincere il titolo mondiale in tre diverse categorie di peso. Lomačenko, che da ragazzo si era preso quattro anni sabbatici lontano dalla boxe per studiare danza tradizionale ucraina, ha ipotizzato: “Da giovanissimo ho fatto talmente tanti sport, come ginnastica, basket, calcio o tennis, che nel complesso devono aver migliorato il mio modo di stare sul ring”.

L’importante scienziato dello sport Ross Tucker ha riassunto in poche parole le ricerche in questo campo: “Sappiamo che il sampling da giovani è fondamentale, come la diversità”.

Nel 2014 inserii alcune scoperte sulla tarda specializzazione nella postfazione al mio primo libro, The Sports Gene. L’anno seguente, venni invitato a parlare di quella ricerca da un pubblico insolito, composto non da atleti o allenatori, ma da veterani dell’esercito. Per prepararmi, mi immersi nelle ricerche scientifiche su specializzazione e carriera, anche all’infuori del mondo dello sport. Rimasi colpito da quello che imparai. Uno studio dimostrava che chi si specializza subito in una carriera arrivava a stipendi migliori subito dopo il college, ma in seguito chi si era specializzato tardi recuperava lo svantaggio e trovava un lavoro più adatto alle proprie abilità e alla propria personalità.

Trovai una serie di studi che dimostravano come quegli inventori di nuove tecnologie che avevano accumulato esperienze in diversi contesti avessero avuto un impatto maggiore dei colleghi che si erano concentrati su un solo ambito; sacrificando un po’ di profondità, avevano infatti avuto in cambio una carriera di maggiore respiro. Esistevano studi quasi identici anche nel mondo dell’arte.

Cominciai anche a capire che alcune persone che ammiravo molto, da Duke Ellington (che da piccolo marinava le lezioni di musica per disegnare e giocare a baseball) a Maryam Mirzakhani (che sognava di diventare una scrittrice, e invece è diventata la prima donna a vincere il più importante premio del mondo della matematica, la Fields Medal) sembravano essere cresciuti più in stile Roger che in stile Tiger. Approfondii l’argomento, e mi imbattei in una serie di persone importanti che avevano avuto successo non malgrado una vasta gamma di interessi ed esperienze, ma proprio grazie a loro: una CEO che aveva ottenuto il proprio primo lavoro mentre i suoi colleghi stavano per andare in pensione; un artista che aveva cambiato cinque carriere prima di scoprire la propria vocazione e cambiare il mondo; un inventore che si era attenuto alla propria filosofia contro la specializzazione, e aveva trasformato una piccola azienda fondata nel Diciannovesimo secolo in uno dei nomi più famosi del mondo attuale […].

Mi tuffai nel lavoro dimostrando che gli esperti pieni di credenziali possono diventare tanto chiusi mentalmente da peggiorare con l’esperienza, acquisendo allo stesso tempo maggior sicurezza: una combinazione pericolosa. Mi sorprese parlare con degli psicologi cognitivi e scoprire un corpus di lavori enorme e spesso ignorato che dimostrava come lo stesso apprendimento migliori se effettuato in modo più lento per acquisire delle conoscenze durature, anche quando questo significa scarsi risultati sui test che misurano i progressi immediati. L’apprendimento più efficace sembra inefficiente, e dà l’impressione che si stia restando indietro.

Anche iniziare qualcosa quando si è persone di mezza età può dare questa idea. Come è noto, Mark Zuckerberg ha affermato che “semplicemente i giovani sono più intelligenti”. Eppure è più probabile che un cinquantenne imprenditore del ramo tecnologico dia vita a un’azienda di successo rspetto a uno di trenta, così come un trentenne ha più possibilità di un ventenne. I ricercatori di Northwestern, MIT e US Census Bureau hanno studiato le nuove aziende tecnologiche e hanno osservato che tra le start-up che crescono più in fretta, l’età media dei fondatori è di quarantacinque anni al momento del lancio.

Zuckerberg aveva ventidue anni quando ha fatto quell’affermazione. Aveva tutto l’interesse a diffondere un messaggio simile, così come chi gareggia nei campionati giovanili porta acqua al proprio mulino affermando che dedicarsi interamente a una sola attività sia necessario per il successo, a dispetto di tutte le prove contrarie. La mania della specializzazione però va ben oltre. Affligge non solo gli individui, ma un intero sistema, visto che ogni gruppo specializzato sa vedere solo una parte sempre più piccola di un puzzle più grande.

In altro, foto di Waldemar Brandt – Unsplash 

David Epstein

David Epstein

David Epstein è un giornalista investigativo di ProPublica, prima testata online a vincere un premio Pulitzer. Ha una laurea in scienze ambientali e una in giornalismo. Si è occupato di ecologia viaggiando nell’Artico e di astronomia e geologia trasferendosi nel deserto di Sonora. Svolge attività di volontariato e detiene il record degli 800 metri della Columbia University. Generalisti è il suo primo libro tradotto in italiano.