Che un niente da vedere […] possa avere una qualche realtà è infatti insopportabile per l’uomo.

Luce Irigaray, Speculum. L’altra donna

Negli anni Novanta, le culture occidentali furono di colpo scosse da una straordinaria sensazione di instabilità che coinvolgeva tutte le questioni sessuali: differenze, relazioni, identità, definizioni, ruoli, attributi, strumenti e scopi. Tutti i vecchi stereotipi, le vecchie aspettative, il vecchio senso di identità e sicurezza furono messi in discussione: ciò ha regalato a molte donne opportunità economiche, abilità tecniche e potere culturale senza precedenti, e a molti uomini un mondo dagli scenari poco familiari, se non del tutto alieni.

Non si trattava né di una rottura rivoluzionaria né di una mutazione evoluzionistica. Era qualcosa che scorreva su faglie invisibili molto più ampie e profonde, ed è impossibile imputare a un singolo fattore il merito – o la colpa – di un processo che ha minato il concetto stesso di cambiamento culturale, al punto da essere definito genderquake, un sisma di genere. A giocare un ruolo cruciale e affascinante nella nascita di questa nuova cultura sono state le macchine, i media e i mezzi di comunicazione che compongono le tecnologie emerse nel corso degli ultimi due decenni, variamente chiamate alte tecnologie, tecnologie dell’informazione, tecnologie digitali o semplicemente nuove tecnologie. Non è una questione di determinismo tecnologico, o di determinismo in generale. Anzi, le tecnologie hanno sempre avuto lo scopo di preservare o migliorare lo status quo, non certo quello di sovvertirlo. Se i computer hanno intrapreso vie diametralmente opposte a quelle che un tempo relegavano le donne in casa è stato nonostante la loro tendenza a ridurre, oggettificare e regolare ogni cosa.

Sotto certi aspetti l’impatto di queste nuove macchine è stato immediato e del tutto evidente. In Occidente il declino dell’industria pesante, l’automazione della manifattura, l’emergere del settore terziario e l’ascesa di una miriade di nuove industrie nel campo della manifattura e dell’informazione hanno causato una progressiva svalutazione di quelle caratteristiche che un tempo garantivano un alto ritorno economico. Alla domanda di forza muscolare ed energia ormonale è subentrata quella di velocità, intelligenza, e doti interpersonali e comunicative. Al contempo tutte le strutture, le gerarchie e le certezze garantite dai lavori tradizionali sono state spazzate vie dalle nuove modalità di lavoro, part time e discontinui, che privilegiano l’indipendenza, la flessibilità e l’adattabilità. Queste tendenze hanno avuto un grande impatto sia sui lavoratori specializzati sia su quelli non specializzati. E, dato che fino a non troppo tempo fa gran parte della forza lavoro full time e a tempo indeterminato era maschile, sono stati soprattutto gli uomini a pagare le spese di questi cambiamenti, anche in termini psicologici; parallelamente, sono state le donne a trarne maggior vantaggio.

Queste tendenze non sono certo inedite. Dopo la rivoluzione industriale, in ogni successiva fase del progresso tecnologico, più le macchine si sono fatte sofisticate, più la forza lavoro è diventata femminile.

L’automazione è stata accompagnata da quella che spesso viene definita “femminilizzazione della forza lavoro”, fin da quando le prime lavoratrici azionarono le prime macchine automatiche; pertanto lo spauracchio della disoccupazione, onnipresente nei dibattiti sull’innovazione tecnologica, ha sempre riguardato i lavoratori maschi piuttosto che le loro colleghe.

Non è mai successo invece che i lavoratori fossero superati in numero dalle lavoratrici, come pare accadrà nel Regno Unito e negli USA entro la fine del secolo. E questo ribaltamento delle proporzioni porta con sé non solo un potere economico senza precedenti, ma anche un cambiamento radicale nello status delle lavoratrici, l’erosione del monopolio maschile su determinate mansioni, e una nuova considerazione per quelli che un tempo erano considerati impieghi “per arrotondare”, destinati alle donne che volevano integrare lo stipendio dei mariti.

Molte di queste tendenze hanno avuto un ruolo anche nell’ascesa di quello che l’Occidente, dall’alto della sua posizione, chiamava “l’altro lato del mondo”. Quando per la prima volta le culture del Vecchio Mondo bianco cominciarono ad accorgersi dell’esistenza di quella parte del mondo, le cosiddette “Tigri asiatiche” – Singapore, Malesia, Tailandia, Corea, Taiwan e Indonesia – stavano già guadagnando terreno in un gioco economico che per almeno duecento anni era stato dominato dall’Occidente. E questa non è che la punta dell’iceberg di cambiamento che vede entrare in gara molte altre regioni: Cina, India, Africa orientale e meridionale, Europa dell’Est, Sudamerica. Dato che bastano gli abitanti della Cina e dell’India a superare in numero quelli del Vecchio Mondo bianco, restano pochi dubbi sul fatto che i giorni di gloria dell’impero occidentale sono morti e sepolti.

Anche queste regioni hanno sperimentato la loro versione del genderquake. E mentre i vari fondamentalismi politici e religiosi fanno di tutto per mantenere immutato lo status quo, sono poche le regioni del mondo in cui le don- ne non si stanno affermando con straordinaria inventiva senza precedenti e, molto spesso, con grande successo. Se le donne occidentali sognavano un cambiamento da trecento anni, le asiatiche ricoprono ruoli che solo un decennio fa sarebbero stati impensabili. A metà degli anni Novanta il 34% dei lavoratori autonomi in Cina era composto da donne, e il 38% delle manager di Singapore gestivano aziende proprie. La principale catena di hotel della Tailandia, la più grande compagnia di taxi dell’Indonesia, i due più importanti gruppi editoriali di Taiwan erano di proprietà di una donna. In Giappone le donne venivano ancora trattate come “fiori da ufficio”, e costituivano solo lo 0,3% dei consigli di amministrazione, e appena il 6,7% del Parlamento. Ma il mutamento sessuale era evidente anche lì: 5 milioni donne possedevano un’azienda, delle nuove aziende cinque su sei erano fondate da don- ne, ed era in corso “una rivoluzione senza marce o manifesti”.

Simili cambiamenti incontrano una fortissima resistenza ogni volta e in ogni luogo in cui avvengono. Quando all’inizio degli anni Novanta gli effetti cominciarono a farsi sentire, ci furono uomini che reagirono stizziti e andarono in TV a lamentarsi di una presunta cospirazione ai loro danni architettata da donne e robot per privarli della loro virilità. Un’indagine degli anni Novanta ha rivelato che un padre su due reputava che “il marito dovrebbe mantenere la famiglia e la moglie dovrebbe badare alla casa e ai bambini”; molte donne non uscivano di casa la sera per via del rischio di subire aggressioni; la violenza domestica era una cosa frequente; e in Gran Bretagna, i sussidi statali insufficienti uniti agli alti costi e alla scarsità delle strutture per l’infanzia impedivano a molte donne di lavorare, studiare, o – non sia mai – divertirsi.

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Sempre più donne, un numero mai visto prima, cercavano di conciliare figli, istruzione e lavoro, ma molte lavoratrici si ritrovavano a svolgere i lavori che gli uomini rifiutavano perché precari, part time e mal retribuiti. Negli Stati Uniti quasi la metà delle lavoratrici svolgeva in ambito tecnico, commerciale o amministrativo lavori di secondo piano, e la disparità di salari era ancora smaccata: nel 1992 le donne americane guadagnavano ancora 75 centesimi a fronte di ogni dollaro guadagnato dagli uomini, e sebbene la presenza femminile in ruoli specializzati fosse passata dal 40% del 1983 al 47% del 1993 le donne che ricoprivano ruoli dirigenziali o incarichi pubblici rilevanti erano ancora poche; solo il 10% dei membri del Congresso degli Stati Uniti era costituito da donne, e il parlamento del Regno Unito ne contava tra i suoi membri solo 60.

Numerosi settori dell’istruzione, della politica e del business sembravano afflitti da così tanti retaggi arcaici e soffitti di vetro da far sentire indesiderate anche le donne più caparbie. Nelle università le donne avevano in media voti migliori degli uomini, ma erano relativamente poche quelle che conquistavano titoli di studio avanzati; erano più numerose e avevano più successo nelle lauree di primo livello, ma ave- vano meno successo quando si trattava delle candidature ai dottorati. Anche le donne in carriera di successo avevano una più alta probabilità di lasciare il lavoro rispetto ai colleghi maschi.

Ma se questi erano i punti focali tradizionali, molte donne avevano già puntato lo sguardo molto oltre. Se in passato gli uomini avevano trovato nel lavoro un senso di identità, le donne non solo erano meno in grado ma anche meno disposte a lasciarsi definire dall’impiego.

Molte di loro cercavano attivamente ogni occasione per fare e disfare la propria carriera lavorativa, e non necessariamente nel nome degli impegni familiari; spesso lo facevano per liberare il proprio tempo e il proprio potere economico da vincoli esterni. Magari c’erano uomini ancora convinti che precludendo alle donne l’accesso alle alte sfere di università, aziende e istituzioni pubbliche avrebbero tutelato la propria posizione di potere, ma non era più così scontato che i ruoli ai vertici fossero quelli più rilevanti o più desiderabili.

Lauree e dottorati non bastavano più a garantire il successo nel mondo del lavoro, e il mondo accademico appariva sempre più marginale. I dirigenti aziendali stavano via via diventando piccole pedine in giochi economici globali. E per quanto riguarda le attrattive del servizio pubblico, chi avrebbe mai potuto dissentire con le giovani donne quando sostenevano che “la politica è tutte chiacchiere e niente azione”? Semplicemente sentivano di avere di meglio da fare.

Per esempio cose più remunerative: tra il 1970 e il 1990 negli Stati Uniti le piccole aziende di proprietà di una donna passarono dal 5% al 32%, mentre in Gran Bretagna nel 1994 quasi il 25% del lavoro autonomo era svolto da donne, il doppio rispetto al 1980. Sfruttando le competenze, i contatti e le esperienze accumulati da dipendenti, nel lavoro autonomo queste donne avevano in media molto più successo dei colleghi maschi: negli Stati Uniti, dove la maggior parte delle aziende falliva, quelle di proprietà di donne godevano di un tasso di successo dell’80% e impiegavano nel complesso più persone delle cinquecento aziende incluse nella lista di Fortune.

Non avendo avuto altra scelta se non esplorare continuamente nuove strade, correre rischi, cambiare lavoro, acquisire nuove competenze, mettersi in proprio, ed entrare e uscire dal mercato del lavoro più frequentemente dei colleghi maschi, le donne sembrano “molto più preparate, culturalmente e psicologicamente” alle nuove condizioni economiche emerse alla fine del Ventesimo secolo. Si ritrovano già esperte in un gioco economico nel quale autonomia, part time, precarietà, competenze multiple, flessibilità, e massima adattabilità erano di colpo requisiti indispensabili alla sopravvivenza. Le donne erano state in testa alla corsa fin da quando avevano iniziato a la- vorare, pronte a questi cambiamenti molto prima che si verificassero, come se da sempre avessero lavorato in un futuro che i colleghi maschi avevano appena iniziato a intravedere. Forse erano davvero il secondo sesso, se per secondo si intende ciò che viene cronologicamente dopo il primo.

“Lascia che si faccia una dormita, Armitage” disse la donna dal suo futon. I pezzi della Fletcher erano sparpagliati sulla seta come un puzzle costoso. “Non vedi che sta cadendo a pezzi?”

William Gibson, Neuromante

Ma c’era ben altro in serbo. Quando gli uomini restarono orfani del potere economico e del privilegio sociale che un tempo li rendevano partner sessuali appetibili, addirittura necessari, la conta degli spermatozoi precipitò insieme al tasso di natalità, e l’energia ormonale e la forza muscolare un tempo così utili si trasformarono di colpo in debolezze. Ora le donne diventavano madri alle loro condizioni, o non lo diventavano fatto. Le relazioni eterosessuali perdevano stabilità, fiorivano legami queer, fiorì una rigogliosa foresta di parafilie e cosiddette perversioni, e se non esisteva più un unico modo per fare sesso, anche i due sessi tradizionali sembravano ormai troppo pochi. Qualsiasi cosa si proclamasse normale era diventato strano.

Adesso era completamente smarrito, e il disorientamento spaziale suscitava un particolare terrore nel cowboy.

William Gibson, Neuromante

Tutto stava cadendo a pezzi. Loro si stavano sfaldando. Tutto si muoveva troppo, troppo in fretta. Doveva essere un tranquillo mondo regolamentato ma di colpo sembrava fuori controllo. Credevano di essere al comando ma tutto gli stava sfuggendo di mano. C’era qualcosa di sbagliato. Stavano perdendo tutto: il senso di sicurezza e identità, la presa sulle cose, i piani futuri e perfino il lavoro. Non riuscivano più a capire il senso di nulla. Cos’altro potevano fare i signori del Vecchio Mondo bianco?

Raddoppiare gli sforzi, ricercare la sicurezza, rinsaldare e perfezionare i loro poteri: ma più lottavano per adattarsi e sopravvivere, più velocemente il clima sembrava cambiare; più cercavano di riprendere il controllo, più la loro narrazione perdeva il filo; più vicini arrivavano a vivere il sogno, più debole si faceva la loro presa sul potere. Era possibile che, a dispetto del loro lavoro, delle loro speranze e dei loro sogni, ormai non fossero altro che “l’organo sessuale del mondo della macchina, come lo è l’ape per il mondo vegetale: gli permette il processo fecondativo e l’evoluzione di nuove forme”? E pensare a quanto tempo, quanto impegno, quanta fatica avevano sprecato per mantenere il controllo.

E vedono semmai moltiplicarsi le macchine che a poco a poco li respingono fuori dai limiti della loro natura. E li mandano in- dietro ai loro monti, mentre esse popolano progressivamente la terra. Generando ben presto l’uomo come loro epifenomeno.

Luce Irigaray, Amante marina

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In alto, foto di Nadiya Ploschenko – Unsplash

Sadie Plant

Sadie Plant è una delle più importanti teoriche del cyberfemminismo, fondatrice all’Università di Warwick negli anni Novanta della leggendaria CCRU, la Cybernetic Culture Research Unit, animata insieme a Plant e al co-fondatore Nick Land, tra gli altri, da Mark Fisher, Kodwo Eshun e Ray Brassier. Zero, Uno è il suo primo libro tradotto in italiano.