Pubblichiamo un estratto di Gente di nessuno. Linda Polman mostra come la questione dei rifugiati abbia rappresentato un nervo scoperto per l’Europa fin dalla prima conferenza sul tema, tenutasi subito prima dello scoppio del secondo conflitto mondiale. Ripercorrendo le vicende drammatiche delle persone che, nel corso dei decenni, hanno visto negli ideali europei una speranza destinata a essere frustrata, ma anche di coloro che hanno combattuto perché gli oppressi trovassero nell’Unione una nuova casa, racconta la storia dei rifugiati e migranti in Europa dal 1938 a oggi.

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Gli europei amano comportarsi da innocenti asserragliati in una fortezza vulnerabile, minacciati incessantemente da orde di falsi profughi avidi che cercano di aprirsi un varco a colpi d’ascia. Ma così è fin troppo comodo. I Paesi europei svolgono un ruolo attivo nelle guerre da cui la gente fugge in povertà, per non parlare dell’inquinamento ambientale causato dalle “nostre” aziende e delle loro responsabilità in tema di cambiamento climatico. Quando finì la guerra fredda erano in corso trentasei conflitti armati. In quasi tutti, l’Europa e gli Stati Uniti svolgevano un ruolo importante. In alcuni casi prendevano parte addirittura ai combattimenti, sostenevano le guerre politicamente o le finanziavano, vendevano armi alle parti in causa, aiutavano dittatori a restare al potere ed erano complici di politiche che mantenevano la gente in povertà e ne violavano i diritti.

Al giorno d’oggi i maggiori produttori di profughi sono la Siria, la Somalia e l’Afghanistan. In tutte e tre le guerre, l’Europa e gli Stati Uniti partecipano ai combattimenti e forniscono armi. Eppure per la narrazione dei leader politici europei e americani quello dei profughi che si levano dalle macerie è un problema isolato, non una conseguenza della loro politica estera.

Così, anche l’UNHCR non ha altra scelta se non fingere che i rifugiati siano un problema non politico, ma umanitario. Possiamo leggere pagine e pagine di rapporti sulle operazioni UNHCR senza trovare traccia del fatto che Europa e Stati Uniti non si limitano a subire il problema dei profughi, ma ne sono la causa.

Proprio come negli Stati Uniti, negli anni Ottanta anche in Europa si sgretolò il magnanimo consenso per la concessione di asilo agli “anticomunisti affidabili”. La guerra fredda si avvicinava alla fine, sempre meno profughi giunti in Europa fuggivano da dittature comuniste e sempre più da Paesi del Medio Oriente e da Paesi che negli anni Sessanta si erano liberati dai colonizzatori europei e poi si erano impantanati nella lotta per il potere. Se in Occidente la guerra era rimasta “fredda” e a distanza, in altre parti del mondo sprizzava scintille. Nell’affanno di avere al loro fianco più parti in lotta possibile, gli Stati Uniti, l’Europa e l’Unione Sovietica alimentarono le guerre con il carburante.

Paesi come la Somalia, l’Etiopia e l’Afghanistan furono imbottiti di moderne armi americane, europee e russe con le quali le varie fazioni si davano addosso. Anche i conflitti risolti battendosi semplicemente con machete e vecchi kalashnikov erano talmente violenti e crudeli che causavano un numero sproporzionato di morti e profughi. All’inizio degli anni Novanta, tre milioni di persone erano già state messe in fuga dalle loro case nella zona dei Grandi laghi in Africa orientale, e più di due milioni di uomini e donne erano scappati dall’Iran. Nei Balcani la guerra fredda si congedò con una guerra che provocò almeno quattro milioni di profughi e sfollati. A metà degli anni Ottanta, secondo un calcolo dell’UNHCR c’erano “solo” dieci milioni di profughi. Nel 1992 erano già quasi diciotto milioni, di cui qualche migliaio venne in Europa.

I Paesi europei entrarono in panico: non avevano mai visto prima così tanti profughi tutti insieme. Negli anni Settanta non più di un paio di migliaia di profughi all’anno raggiungevano l’Europa, alla fine degli anni Ottanta di colpo erano in media 450.000 e nel 1992, due anni dopo la guerra fredda e un anno prima della nascita dell’Unione Europea, 672.000. Il sentimento che aveva sopraffatto gli americani dopo l’esodo di Mariel, completamente sfuggito di mano con tutti quei profughi, si annidò anche negli europei. Ai governi del Vecchio continente le soluzioni politiche per evitare che si creassero flussi di rifugiati interessavano poco; l’attenzione e l’energia andavano tutte alle misure per bloccare il flusso.

Non furono misure prese di comune accordo. Mentre fervevano i preparativi per la fondazione dell’Unione Europea, nel 1987 la Comunità Economica Europea (CEE) analizzò la politica sui rifugiati esistente nei dodici Stati membri, concludendo che la caduta del nemico comune, l’Unione Sovietica, aveva fatto andare in fumo quel poco di coesione europea che c’era. Gli Stati temevano l’apertura dei confini che li attendeva dopo la nascita dell’Unione Europea – oltre agli ambìti partner commerciali, sarebbe potuta entrare senza problemi un altro bel po’ di gentaglia – ma ben si guardavano dal riconoscere che le guerre spietate e il ruolo che loro vi avevano svolto erano le cause dell’alto numero di rifugiati, preferendo invece puntare il dito contro la qualità dell’accoglienza ai profughi.

Dai tempi di Evian, infatti, nulla era cambiato nel ragionamento per cui, se si era troppo gentili con i profughi, sarebbero voluti venire tutti. Dovevano ancora sentirsi più sgraditi possibile in Europa. Ciascuno a modo suo, i Paesi europei cercarono di negare ai profughi tutto quello che potevano, senza violare gli accordi della Convenzione ONU sui rifugiati. Le procedure di asilo vennero “riviste” e furono creati “status B”, “status C” e altri permessi di soggiorno di breve durata, ridotti all’osso. Nell’opinione pubblica cominciavano a imperversare locuzioni che descrivevano i profughi come “frodatori di asilo” o “gente che viene a mangiare a sbafo”.

Più profughi iniziarono a scomparire nei centri di detenzione, le regole per la deportazione furono “liberalizzate”, il diritto al ricongiungimento familiare e l’accesso all’assistenza sociale e ai permessi di lavoro furono limitati. Però, per quanti decreti, interventi, modifiche di legge e tagli ci fossero, non era mai abbastanza: in Paesi come l’Austria, la Francia e il Belgio i movimenti di estrema destra crescevano a vista d’occhio.

Intanto fuori dall’Europa, nel resto del mondo, diventarono visibili i tratti di una politica europea sui rifugiati sempre più centralizzata.

Fu redatto un elenco di più di cento Paesi (circa tre quarti del mondo fuori dall’Europa) i cui abitanti non potevano entrare nell’UE senza visto. Ma dopo la guerra fredda, nella culla della neonata Unione Europea iniziò soprattutto la fase della “politica di contenimento”: rinchiudere i rifugiati in campi nella loro stessa regione. Con l’aiuto dell’UNHCR.

Cedere a qualsiasi pressione esercitata dalla politica europea sui rifugiati è l’unico modo che ha l’UNHCR per tenersi buoni i governi donatori e sopravvivere finanziariamente come organizzazione. Negli oltre tre decenni trascorsi dalla morte di Van Heuven Goedhart, poco o nulla era migliorato per ciò che riguardava i poteri degli alti commissari ONU per i rifugiati. Proprio come Van Heuven Goedhart, anche il diplomatico danese Poul Hartling, a capo dell’UNHCR dal 1978 al 1985, fu invitato a Oslo a ritirare a nome dell’organizzazione un secondo premio Nobel per la pace, ma il mattino dopo anche lui dovette continuare ad alzarsi presto per andare a mendicare dai governi donatori. Gli alti commissari non riuscivano mai a strappare sufficienti donazioni.

Negli anni Ottanta il budget dell’UNHCR calò di più della metà, mentre il numero di profughi cresceva. “Non possiamo stampare soldi. Non possiamo rubarli. Non possiamo prenderli in prestito. Dobbiamo farceli dare dai governi” spiegò Hartling – invano – ai suoi donatori.

Se voleva continuare a essere considerata dai suoi capi, l’UNHCR doveva adeguarsi: se i governi donatori volevano che i profughi rimanessero là, rinchiusi nella loro regione, allora lo voleva anche l’UNHCR, che definì questo cambio di prospettiva la sua “trasformazione in un’organizzazione umanitaria più ampia”. Questa definizione faceva pensare che per i profughi fosse giunta la primavera e che l’organizzazione potesse finalmente fiorire, ma in realtà l’UNHCR spostò le sue attività dai “profughi della convenzione” ai “profughi dei campi”. I primi soddisfano il profilo richiesto nella Convenzione ONU sui rifugiati: riescono a raggiungere l’Europa per conto proprio e una volta lì hanno diritto all’accoglienza e alla possibilità di richiedere asilo.

Anche i secondi soddisfano spesso il profilo della convenzione, ma non sono riusciti ad arrivare in Europa: la loro fuga è finita da qualche parte in un campo di accoglienza, dove dall’UNHCR ricevono una tenda o un telone sotto ai quali vivere, e del cibo dal World Food Programme (WFP) delle Nazioni Unite. In cambio, però, devono rinunciare al diritto di chiedere asilo. Dei venti milioni di rifugiati che rientravano nel mandato dell’UNHCR nel 2017, solo tre potevano richiedere asilo – di cui la metà avevano la loro richiesta di asilo in corso lì, “nella regione”, lontano dall’Europa.

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Gli altri profughi nel mondo sono saldamente rinchiusi, spesso in campi ma spesso anche al di fuori, in bassifondi dove sopravvivono come urban refugees. Non possono andare da nessuna parte, eppure vengono contati dai leader politici europei quando avvisano che “milioni” di profughi invaderanno l’Europa se non chiudiamo i confini in modo ancora più efficace.

La filosofa Hannah Arendt condusse uno studio sul fenomeno dei campi. Era figlia del suo tempo: nacque nel 1906 da genitori ebrei a Linden-Limmer, vicino a Hannover. Nel 1933 fuggì dalla Germania di Hitler. Dal 1935 al 1938 lavorò in Francia per un’organizzazione che aiutava i bambini dei profughi ebrei a scappare in Palestina. Nel maggio del 1940, subito dopo l’invasione tedesca in Francia, fu arrestata e tenuta prigioniera per qualche settimana. Nel 1941 riuscì a raggiungere New York.

Due anni più tardi le giunsero le prime notizie dell’esistenza di un nuovo tipo di campi in Europa centrale: i campi di concentramento nazisti. Capì subito che si stava compiendo qualcosa di insolito. Già da tempo esistevano campi di concentramento sorvegliati da militari in cui venivano raccolti determinati gruppi di persone. L’esercito britannico, per esempio, durante la guerra anglo-boera (1899-1902) ne aveva alcuni in Sudafrica, nello Stato libero dell’Orange e nella provincia di Transvaal, ma quelli almeno avevano un obiettivo strategico e si adattavano a una specie di logica bellica.

Da quello che sentì sui campi tedeschi in Europa, però, Arendt capì che non erano funzionali allo sforzo bellico tedesco: quei campi avevano come unico fine quello di perseguire il male. Questa intuizione le fece mancare la terra sotto i piedi, scrisse il ricercatore Roger Berkowitz nel suo saggio Hannah Arendt: perché ci riguarda (2017). La scoperta del male divenne il tema centrale del suo pensiero.

Nel 1951 Arendt pubblicò la sua opera in tre parti Le origini del totalitarismo, in cui praticò una distinzione fra tre tipi di campi: quelli di sterminio, come Auschwitz-Birkenau e Treblinka II, perfezionati dai nazisti, in cui la vita umana veniva trasformata di proposito nella più grande tortura possibile e l’annientamento era lo scopo finale; i campi di lavoro come quelli esistenti in Unione Sovietica, il cui scopo non era l’annientamento fisico in quanto tale, ma in cui la morte sopraggiungeva comunque come conseguenza; e i campi di accoglienza come quelli per i DP in Europa, in cui elementi indesiderati di qualsiasi genere – profughi, sfollati, apolidi “inutili”, disadattati – venivano rinchiusi e abbandonati, lontano dal resto della società.

Secondo Arendt, i tre tipi di campo avevano una caratteristica comune: masse di persone vi scomparivano dentro come se non esistessero più, come se il loro destino non importasse più a nessuno, come se fossero già morti. Concluse che l’essenza di tutti i tipi di campi è imporre l’oblio.

Molto tempo dopo la sua morte, l’UNHCR inserì Hannah Arendt nella “galleria UNHCR dei rifugiati che hanno cambiato il mondo” insieme a celebrità come Milan Kundera, Béla Bartók, Albert Einstein e Marlene Dietrich. Non sappiamo cosa avrebbe pensato della versione contemporanea dei campi DP, i campi per rifugiati dell’UNHCR; Arendt morì nel 1975, ben prima della fine della guerra fredda, quando quelle strutture non erano ancora state trasformate nel principale strumento della politica europea sui rifugiati.

Nel 2014 lo scrittore olandese Arnon Grunberg fece visita a due campi UNHCR nella Repubblica Democratica del Congo (RDC) e li descrisse dal punto di vista del suo retroterra bellico, proprio come aveva fatto Arendt. La madre di Grunberg, Hannelore Grünberg-Klein, fu una dei 937 profughi ebreo-tedeschi che salparono da Amburgo sulla nave St. Louis, alla ricerca di un porto sicuro. A bordo si trovavano anche i genitori della donna. Dopo un viaggio di 16.000 chilometri lungo Paesi dove non erano i benvenuti, la famiglia Klein fu finalmente ammessa in Olanda, dove scomparve immediatamente dietro il filo spinato, prima a Rotterdam, poi nel “campo di transito” di Westerbork. Da lì, i Klein furono mandati ad Auschwitz-Birkenau. Hannelore sopravvisse, mentre i suoi genitori furono gassati.

Nel 2014 suo figlio Arnon visitò una clinica di Medici Senza Frontiere nel campo UNHCR di Mweso, nell’altipiano della RDC, e per il quotidiano olandese NRC Handelsblad scrisse: “Le baracche, la puzza, il caldo […]. Quando vedo i bambini denutriti non posso fare a meno di pensare: sono finito nell’infermeria di un campo di concentramento. Non esprimo questo pensiero, naturalmente, anche perché i collaboratori di MSF sembrano contenti dei risultati raggiunti qui”. Nel campo di Mpati, più avanti sul suo percorso, la penuria di cibo era preoccupante, scrisse Grunberg. Il World Food Programme rimane alla larga per motivi di sicurezza e, inoltre, nei campi arrivano troppo pochi soldi da parte dei donatori. Anno dopo anno, i governi versano alle organizzazioni dell’ONU circa la metà di quanto sarebbe necessario.

Gli operatori umanitari incoraggiarono l’autore a parlare con i rifugiati. Grunberg scrisse: “Quando chiedo: ‘Com’è il trattamento nel campo? Va tutto bene?’ ho la sensazione di stendere il bollettino della Wehrmacht”. E continuò: “Di fronte a questa sofferenza capisco benissimo le SS nei campi di concentramento. È impossibile identificarsi con il ‘subumano’. Puzza, è letargico, non sa cosa sia la solidarietà, non assomiglia quasi più a una persona”.

Nei Paesi che finanziano i campi, gran parte della gente non ha nemmeno idea dell’esistenza di questi luoghi dove vengono parcheggiati i “sub-umani”. L’oblio è pressoché totale, nonostante vivano più o meno in questo modo fra un quarto e un terzo di tutti i profughi e gli sfollati del mondo, sparsi in decine di campi in trenta-quaranta Paesi, in giungle, deserti e paludi, dentro tende di plastica o capanne di pannelli di compensato o di rami e fango, in perenne indigenza. E bloccati, perché non hanno il diritto di chiedere asilo. È stato loro assegnato lo status di prima facie.

Nella Convenzione ONU sui rifugiati questo status non viene neanche nominato, ma attualmente riguarda tra l’80 e il 90 per cento di tutti i rifugiati del mondo.

Lo status di prima facie protegge dal refoulement, ma non offre un normale accesso alle procedure di asilo né chi se ne avvale viene considerato per i programmi di reinsediamento.

Lo status di prima facie e i campi di accoglienza intendono essere misure di breve durata, finché non si trova una soluzione permanente, ma una volta che c’è un campo di accoglienza e che questo è pieno i governi si rilassano, perché la necessità di cercare soluzioni è venuta meno. Alla domanda su che cosa significa “temporaneo” non rispondono né i Paesi di accoglienza né i governi donatori. Una permanenza media in un campo di accoglienza dura già diciassette anni, ma ci sono anche infiniti casi in cui si protrae. I campi per gli eritrei in Sudan, per esempio, esistono ormai dal 1968, i campi per i Saharawi in Algeria dal 1975. L’UNHCR chiama questa specie di miseria che si trascina per decenni protracted displacement, “sradicamento prolungato”.

La situazione dei profughi prima facie non viene esaminata secondo il diritto internazionale, ma è sottoposta al giudizio delle autorità locali che determinano anche quando la situazione è abbastanza sicura da mandare a casa i rifugiati, a volte consultandosi con l’UNHCR e i governi donatori che finanziano quei campi.

Un paio di migliaia di sudanesi che bussarono in gruppo alle porte del Kenya ricevettero lo status di prima facie e finirono in un campo. Allo stesso tempo, un altro gruppo di sudanesi grande il doppio arrivò in Egitto. Gli individui furono valutati uno per uno e molti del gruppo ottennero lo status di rifugiato ufficiale, con i relativi diritti. Ne risulta che lo status di prima facie, sebbene sia stato creato per grandi gruppi di profughi, non sempre ha a che fare con la quantità di profughi, ma più spesso con il livello di benessere e organizzazione del Paese in cui essi arrivano. Chi fugge verso un Paese – spesso si tratta di Paesi vicini – che non dispone di un sistema funzionante per valutare i singoli casi, sconta una “sfortuna geografica”.

Da Gente di nessuno di Linda Polman. In alto, il campo per rifugiati siriani a Zaatari (Giordania) nel 2013

Linda Polman

Linda Polman

Linda Polman è una giornalista investigativa olandese. Ha lavorato in paesi in via di sviluppo e zone di guerra come Somalia, Ruanda, Haiti, Sierra Leone, Congo e Afghanistan. È autrice di numerosi saggi, tra cui ONU. Debolezze e contraddizioni di una istituzione indispensabile per la pace (Sperling & Kupfer, 2003) e L’industria della solidarietà. Aiuti umanitari nelle zone di guerra (Bruno Mondadori Editore, 2009).