Proponiamo un estratto da Le cose che abbiamo. Essere e avere alla fine del capitalismo della scrittrice Eula Biss. Partendo dal racconto dell’acquisto della sua prima casa, Biss riflette sulla nostra esperienza di vita nel capitalismo, su come il suo avvento abbia trasformato la quotidianità delle persone e come il suo sistema valoriale permei e influenzi completamente tutte le relazioni che intratteniamo con altri esseri umani e con gli oggetti che possediamo e che desideriamo possedere.

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LAVORO I

Sono uscita a bere qualcosa con una collega che dopo il secondo cocktail mi dice che i miei commenti sono stati eliminati dalla relazione sui corsi. Dico che spero li abbiano cancellati con spesse linee nere come nei documenti dell’FBI. No, mi risponde, non è andata così. I miei commenti sono solo stati cancellati: nel punto in cui osservavo che il programma è strutturato in modo da consentire ai superiori di ignorare le preoccupazioni degli insegnanti di grado inferiore, per lo più donne, c’è un vuoto. E c’è un vuoto anche dove avevo esposto nel dettaglio i piccoli abusi permessi da quella struttura: la condiscendenza quotidiana, lo sfruttamento e talvolta la coercizione. Dovevano eliminarli, spiega la mia collega, perché il mio reclamo era perseguibile in giudizio. Ovvero, a quanto pare, se non fosse stato cancellato avrebbero dovuto rispondere in qualche modo.

Mi è sempre piaciuto, il lavoro. Almeno all’inizio. Spingere una scopa sul pavimento di cemento nella fattoria dove ho timbrato per la prima volta il cartellino, azionare la cassa al chiosco degli ortaggi, assemblare scatoloni di cavoli dietro una serra. Leggere Bartleby lo scrivano ad alta voce ai ragazzi disorientati di un campo estivo. Posare nuda di fronte a una classe di studenti d’arte. Era un buon lavoro, e non soltanto perché mi pagavano 10 dollari all’ora. All’epoca frequentavo il college e mi piaceva restare immobile a pensare. E adoravo a mia volta disegnare nudi. Sapevo che era un grande servizio disegnare ispirandosi a un corpo, e preferivo fare un lavoro che percepivo come un servizio.

A volte lavorava con me un altro modello, un uomo che aveva quasi novant’anni. D’estate lui e sua moglie viaggiavano per il paese con il loro camper e visitavano i musei, dove lui studiava i maestri. Non per imparare a dipingere o a scolpire, ma per imparare le pose. Era il martello del falegname, mi disse, o il chiodo. Aveva un raccoglitore pieno di Polaroid delle pose che aveva imparato. Eccolo lì, un antico David, un Augusto avvizzito, un Pensatore brizzolato.

Trovai un annuncio che offriva 20 dollari all’ora per fare da modelli a un artista e così andai in auto fino a un deposito in riva al fiume e presi un montacarichi per l’ultimo piano. L’uomo che mi accolse all’ascensore era un fotografo che vendeva il suo lavoro alle riviste. Gli piaceva ritrarre donne nude nei cimiteri, mi raccontò, sulle tombe. A quel punto me ne sarei dovuta andare, ma mi ero già tolta i vestiti. Mi chiese se mi dispiaceva stendermi a terra e aprire le gambe. Com’era possibile che non me lo aspettassi? Rimasi ingenuamente stupita quando scoprii che il mio corpo era finito al servizio della pornografia necrofila. Ora so che funziona così con il lavoro: a volte il contratto viene rivisto mentre si è già all’opera, svestiti.

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LAVORO II

Ho paura di ammettere, anche con me stessa, che non voglio lavorare. Ma dopo un bicchiere di vino lo confesso a Vojislav. Scrolla le spalle: ovvio che voglia mollare il mio lavoro. Anche lui vorrebbe mollare il suo.

“Avrei comunque un sacco di lavoro da fare,” dico “anche senza il mio impiego. Avrei il lavoro della scrittura, il lavoro della ricerca, il lavoro legato alla casa e al giardino e il lavoro di occuparmi di un bambino. Il lavoro, in realtà, interferisce con il mio lavoro, e voglio lavorare di meno per avere più tempo per lavorare”.

Ho bisogno di un’altra parola.

Il lavoro (work), scrive Lewis Hyde, è distinto dal travaglio (labor). Il lavoro è un’occupazione a tempo determinato, mentre il travaglio detta il suo proprio ritmo. Il lavoro, se siamo fortunati, viene ricompensato con del denaro, ma il premio del travaglio è la trasformazione. “Scrivere una poesia” sostiene Hyde “allevare un figlio, sviluppare una formula matematica, guarire da una nevrosi, una nuova invenzione: sono travagli”. Questo elenco mi rivela qual è il mio problema. Voglio dedicare la mia vita al travaglio, non al lavoro.

Oppure l’opposto. Il significato di travaglio e lavoro viene rovesciato in Work: The Last 1.000 Years di Andrea Komlosy. Entrambe le parole risalgono al latino, scrive l’autrice, che ha dato a ogni lingua indoeuropea due termini per indicare il lavoro. In latino labor significava dura fatica e il verbo laborare derivava dal dondolio degli schiavi che portavano carichi pesanti. Opus, che è diventato l’inglese work, era creativo e produttivo. Era un’attività soddisfacente, una fonte di piacere che dava un senso di realizzazione.

Adesso in molte lingue c’è una confusione di significato tra i termini che indicano una dura fatica e un’attività soddisfacente. Nell’inglese di tutti i giorni un laborer è un lavoratore e labor è lavoro, tranne quando si parla della nascita di un bambino [in quel caso indica il travaglio, N.d.T.]. Nel tedesco contemporaneo, werk non è più un eufemismo per il sesso. Ma werk può significare dolore, e di una donna che ha le mestruazioni si può dire “Sie hat ihre Werke”: ha i suoi “lavori”. La gamma di termini che indicano il lavoro era più vasta, osserva Komlosy, prima che diventasse sinonimo di impiego retribuito nel Diciannovesimo secolo.

“Gran parte di quello che in passato presumevamo fosse lavoro è stato poi escluso dalla categoria che si è sempre più concentrata sull’impiego retribuito”.

Molti impieghi richiedono sia travaglio sia lavoro, nel senso di Hyde. La fatica dell’insegnamento, che io adoro per la sua capacità trasformativa, è accompagnata da un lavoro d’ufficio ordinario e dal lavoro impiegatizio, che è più faticoso del lavoro dell’insegnamento. Le burocrazie riescono a trasformare la fatica in lavoro e – come ho osservato durante la riunione con i genitori, quando l’insegnante d’asilo di J ha elencato le aziende che le hanno fornito i materiali per il corso – un insegnante può essere privato della sua fatica e può restargli soprattutto lavoro.

Questo, immagino, è quello che intendeva Marx quando parlava di alienazione dei lavoratori. Quella frase non significava molto per me quando ho letto il Capitale vent’anni fa, ma ora sì.

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In alto, immagine di Edmond De Haro, Reimagining Capitalism, Full page illustration for Forbes World’s Billionaires 2019 Special Issue.

 

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Eula Biss

È una scrittrice americana vincitrice di numerosi premi, tra cui il National Book Critics Circle Award per Notes from No Man’s Land. Ha insegnato per quindici anni alla Northwestern University prima di dedicarsi completamente alla scrittura. Per Luiss University Press ha già pubblicato Immunità (2021).