Cambiare il modo di produrre energia (e quindi le abitudini di consumo) è la nuova grande avventura dell’umanità. I responsabili politici, gli imprenditori della Silicon Valley, i teorici della sobrietà felice, papa Francesco e le associazioni ecologiste richiedono a gran voce il contenimento del riscaldamento climatico, per salvarci da una nuova catastrofe. È un progetto che unisce il mondo come imperi, religioni e monete non sono fin qui mai riusciti a fare. A riprova, il “primo accordo universale della nostra storia”, secondo le parole dell’ex presidente della Repubblica francese, François Hollande, non è stato un trattato di pace, commerciale o sulla regolamentazione finanziaria, ma l’accordo di Parigi, firmato nel 2015 a seguito della Cop 21, ovvero un trattato sull’energia!

Ciononostante, per quanto le tecnologie che utilizziamo quotidianamente si evolvano, il bisogno primario di risorse energetiche rimane e nessuno sa davvero con quale risorsa sia possibile rimpiazzare petrolio e carbone per abbracciare un nuovo mondo più verde. I nostri avi del Diciannovesimo secolo conoscevano l’importanza del carbone così come un uomo del Ventesimo secolo sapeva bene quanto fosse fondamentale il petrolio. Nel Ventunesimo secolo invece non abbiamo idea che un mondo più sostenibile dipende in gran parte da sostanze rocciose chiamate metalli rari.

Per molto tempo gli uomini hanno sfruttato i principali metalli noti a chiunque: il ferro, l’oro, l’argento, il rame, il piombo, l’alluminio… Ma, a partire dagli anni Settanta, hanno iniziato a trarre vantaggio dalle favolose proprietà magnetiche, catalitiche e ottiche di una moltitudine di metalli rari contenuti nelle rocce terrestri in proporzioni ben più ridotte. Questa famiglia include dei membri a cui sono stati affibbiati nomi dalle consonanze enigmatiche: terre rare, grafite, vanadio, germanio, platinoidi, tungsteno, antimonio, berillio, fluorite, renio, promezio…

Questi metalli rari costituiscono un sottoinsieme coerente di una trentina di materie prime che hanno in comune l’essere di solito associate in natura ai metalli più abbondanti.

Come tutto ciò che si estrae dalla natura in piccolissime quantità, i metalli rari sono dei concentrati dotati di proprietà favolose.

Distillare un olio essenziale di fiori d’arancio è un processo lungo e noioso, ma il profumo e i poteri terapeutici di una sola goccia di questo elisir sorprendono ancora i ricercatori. Produrre cocaina nel profondo della giungla colombiana non è un compito più semplice, ma gli effetti psicotropi di un grammo di quella polvere sconvolgono completamente il sistema nervoso centrale.

Succede la stessa cosa con i metalli rari, rarissimi… Vanno purificate otto tonnellate e mezza di roccia per produrre un chilo di vanadio, sedici tonnellate per un chilo di cerio, cinquanta tonnellate per l’equivalente di gallio, e la cifra sbalorditiva di duecento tonnellate per un misero chilo di un metallo ancora più raro, il lutezio. Il risultato è una sorta di “principio attivo” della crosta terrestre, un agglomerato di atomi superpotenti, il meglio che ci possa essere offerto da miliardi di anni di evoluzione. Una volta industrializzata, una dose minima di questi metalli emette un campo magnetico in grado di generare più energia della stessa quantità di carbone o petrolio. Rimpiazzare risorse che emettono milioni di miliardi di tonnellate di anidride carbonica con altre che non bruciano e non generano alcuna molecola di CO2 è la chiave del capitalismo verde.

Meno inquinamento ma molta più energia allo stesso tempo. Non è per caso che alla sua scoperta uno di questi elementi venne battezzato “promezio” dal chimico Charles Coryell negli anni Quaranta. Fu sua moglie Grace Marie a suggerirne il nome al marito, ispirandosi al mito greco di Prometeo, il Titano che con l’aiuto della dea Atena si era introdotto segretamente nell’Olimpo, il regno degli dèi, per rubare il fuoco sacro e offrirlo agli uomini.

Questo nome la dice lunga sul potere prometeico acquisito dall’uomo con il controllo dei metalli rari. Come demiurghi ne abbiamo moltiplicato gli usi nei due campi che sono i pilastri della transizione energetica, le tecnologie che abbiamo definito “verdi” e il digitale. Perché, come ci viene oggi spiegato, è dalla convergenza delle tecnologie verdi con l’informatica che nascerà un mondo migliore. Le prime (pale eoliche, pannelli solari, veicoli elettrici), grazie ai metalli rari di cui sono piene, producono un’energia decarbonizzata che transiterà attraverso reti elettriche dette “ultra-performanti” che consentono un risparmio di energia. Ora, queste reti sono a loro volta gestite attraverso tecnologie digitali imbottite di tali metalli.

L’americano Jeremy Rifkin, grande teorico di questa transizione energetica e della terza rivoluzione industriale che l’accompagna, va ancora oltre. A suo dire, l’incontro delle tecnologie verdi con le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (NICT) consente già a ognuno di noi di produrre e condividere la propria elettricità “verde”, in abbondanza e a buon mercato. In altre parole, i telefoni cellulari, gli iPad e i computer che usiamo ogni giorno sono diventati gli attori indispensabili di un modello economico più rispettoso dell’ambiente.

Le profezie di Rifkin sono talmente entusiasmanti da averlo reso un riferimento per numerosi capi di Stato e un consigliere per la disposizione di nuovi modelli energetici per la regione dell’Alta Francia. Tali divinazioni sposano il senso della storia: in dieci anni, le energie eoiche sono cresciute di sette volte e il solare fotovoltaico di quarantaquattro. Le energie rinnovabili rappresentano già il 19% del consumo di energia finale nel mondo e l’Europa può prevedere di portarsi al 27% entro il 2030!

Perfino le tecnologie che fanno ricorso ai motori termici dipendono da questi metalli poiché permettono di concepire veicoli e aerei più performanti e leggeri, e che quindi consumano meno risorse fossili. Ed ecco che anche gli eserciti compiono la transizione energetica, o piuttosto strategica.

Sbaglieremmo a credere che i generali si preoccupino sinceramente delle emissioni di carbonio dei propri arsenali ma d’altra parte, con le riserve di oro nero in declino, gli strateghi devono prevedere la guerra senza petrolio. Nel 2010 un influente think tank americano intimava al primo esercito del mondo di trovare un modo per non dipendere dalle energie fossili entro il 2040. Come ci si può riuscire?

Ricorrendo alle energie rinnovabili e arruolando legioni di robot ad alimentazione elettrica. Queste armi telecomandate e ricaricabili attraverso centrali di energie rinnovabili concentrerebbero un’accresciuta potenza di distruzione ed eliminerebbero il rompicapo del rifornimento di carburante al fronte.

D’altro canto, la guerra colonizza già nuovi territori, in questo caso virtuali. Avendo come target le infrastrutture digitali del nemico e alterando le sue risorse di comunicazione, i cyber-eserciti potrebbero da soli vincere i conflitti del futuro. Come i generali, siamo quindi impegnati nella transizione verso un mondo smaterializzato dal momento che, appoggiandoci sul digitale, rimpiazzeremo alcune risorse con il nulla, semplici cloud, impalpabili email, traffico Internet invece di automobili imbottigliate.

La digitalizzazione dell’economia promette una straordinaria diminuzione dell’impronta fisica dell’uomo sulla natura. Abbiamo a che fare con una rivoluzione energetica e digitale, in cui due tipi di tecnologie avanzano mano nella mano e concorrono all’avvento di un mondo che ci viene promesso migliore. I metalli rari modificano anche il corso delle relazioni internazionali e grazie a loro i diplomatici effettuano una transizione geopolitica. La crescente rilevanza delle nuove energie decarbonizzate, ci dicono gli studiosi di geo-politica, metterà sottosopra i rapporti tra Stati produttori e Stati consumatori di risorse fossili. Gli Stati Uniti potranno ricollocare in altri teatri le proprie armate che sorvegliano gli stretti di Hormuz e di Malacca, attraverso i quali transita oggi una parte cospicua del petrolio mondiale, e riesaminare il loro partenariato con le petromonarchie del Golfo.

Inoltre l’Unione Europea, meno dipendente dagli idrocarburi russi, sauditi e del Qatar, potrebbe rinforzare la sovranità energetica dei propri membri. Per tutti questi motivi la transizione energetica è una transizione ottimista. Anche se la sua attuazione non è una passeggiata di salute, e il petrolio e il carbone non hanno detto la loro ultima parola, il mondo che nasce sotto i nostri occhi riscalda il cuore. La sobrietà energetica indebolirà necessariamente le tensioni dovute all’appropriazione delle risorse fossili, creerà sicuramente dei posti di lavoro verdi nella filiera industriale d’eccellenza e rimetterà i Paesi occidentali in sella nella dura battaglia della competitività. Poco importa cosa ne pensi Donald Trump, questa transizione è inevitabile perché è diventata un affare di grandi capitali che attrae gli attori dell’eco- nomia, inclusi i gruppi petrolieri.

Gli inizi della transizione energetica risalgono agli anni Ottanta in Germania ma è nel 2015, a Parigi, che 195 Stati hanno approvato l’accelerazione di questa incredibile avventura con l’obiettivo di contenere il riscaldamento climatico entro i due gradi da qui alla fine del secolo, grazie soprattutto alla sostituzione delle energie fossili con le loro omologhe verdi.

I delegati erano sul punto di firmare l’accordo di Parigi quando un vecchio saggio dalla barba folta e gli occhi blu sfuggenti, vestito come un pellegrino sceso dalla montagna, è entrato nell’ampia hall del Parco delle esposizioni di Paris-Le Bourget. Con un sorriso enigmatico sulle labbra ha attraversato la folla di capi di Stato e, giunto sul podio, ha preso la parola con voce solenne e accorta: “Le vostre intenzioni sono incantevoli, e il nuovo mondo che state per far nascere ci rallegra tutti. Ma non immaginate i pericoli di fronte ai quali la vostra audacia vi proietta!”.

Silenzio.

Poi il saggio si è rivolto alle delegazioni occidentali: “Questa transizione metterà in difficoltà interi settori delle vostre economie, quelli più strategici. Sprofonderà nella miseria orde di licenziati che presto provocheranno agitazioni sociali e rigetteranno i vostri princìpi democratici. Indebolirà anche la vostra sovranità militare”. Rivolgendosi all’assemblea ha poi aggiunto: “La transizione energetica e digitale devasterà l’ambiente in misura senza pari. In definitiva, i vostri sforzi e il tributo richiesto alla Terra per costruire questa nuova civilizzazione sono così grandi che non è nemmeno detto che vi riusciate”.

E ha concluso con un messaggio sibillino: “La vostra potenza vi ha accecati al punto di non avere più l’umiltà del marinaio alla vista dell’oceano, né quella dell’alpinista ai piedi della montagna, ma gli elementi avranno sempre l’ultima parola!”.

Naturalmente il vecchio saggio è frutto dell’immaginazione. Non si è mai presentato sul palco della Cop 21 e non ha mai preso il servizio ferroviario urbano di Parigi per tornare al suo eremitaggio. Quel giorno invece, le 19618 delegazioni presenti a Paris-Le Bourget hanno firmato l’accordo di Parigi e intrapreso la tredicesima fatica di Ercole senza mai porsi le domande cruciali: dove e come ci procureremo i metalli rari senza i quali questo trattato è vano? Ci saranno dei vincitori e dei vinti nel nuovo scacchiere dei metalli rari, come ce ne sono stati con carbone e petrolio? A quale prezzo per le nostre economie, per gli uomini e l’ambiente riusciremo ad assicurarcene il rifornimento?

Per sei anni ho condotto un’inchiesta su questi nuovi metalli rari che già sconvolgono il mondo in una dozzina di Paesi. Per farlo sono stato nelle profondità delle miniere dell’Asia tropicale, ho teso l’orecchio ai mormorii dei deputati nei corridoi di Palazzo Borbone, sede della camera bassa francese, ho sorvolato i deserti della California in bimotore, mi sono inginocchiato davanti alla regina di una tribù dimenticata dell’Africa australe, mi sono recato nei “villaggi del cancro” della Mongolia Interna e ho rispolverato vecchie pergamene custodite da venerabili istituzioni londinesi.

In quattro continenti, uomini e donne che si muovono nel mondo torbido e discreto dei metalli rari mi hanno fatto un racconto completamente diverso e ben più cupo della transizione energetica e digitale. A sentir loro, l’irruzione di queste nuove materie sulla scia delle risorse fossili non ha reso all’uomo e al pianeta i servizi che la nascita di un mondo reputato più verde, più fraterno e lungimirante lasciava sperare, tutt’altro.

La Gran Bretagna ha dominato il Diciannovesimo secolo grazie all’egemonia nella produzione mondiale di carbone. Gran parte degli eventi del Ven- tesimo secolo possono essere letti attraverso il prisma dell’ascendente ottenuto da Stati Uniti e Arabia Saudita sulla produzione e messa in sicurezza delle vie del petrolio.

Nel Ventunesimo secolo uno Stato sta consolidando il proprio dominio sull’esportazione e l’impiego di metalli rari. Questo Stato è la Cina.

Facciamo una prima constatazione d’ordine economico e industriale: impegnandoci nella transizione energetica ci siamo gettati nelle fauci del dragone cinese. L’Impero di Mezzo detiene oggi la leadership, ovvero il quasi monopolio, di una sfilza di metalli rari indispensabili alle energie con bassa emissione di carbonio e al digitale, i due pilastri della transizione energetica. In condizioni rocambolesche che vedremo più avanti, è addirittura diventato il fornitore unico del più strategico di questi metalli, battezzato “terre rare”, del quale la maggior parte degli industriali fatica a fare a meno essendo estremamente difficile da sostituire.

In questo modo l’Occidente ha messo il destino delle sue tecnologie verdi e digitali – in una parola, del fior fiore delle industrie del futuro – nelle mani di una sola nazione. Limitando l’esportazione di queste risorse, l’Impero di Mezzo nutre di preferenza la crescita delle proprie tecnologie e inasprisce il confronto con il resto del mondo, implicando anche forti conseguenze economiche e sociali a Parigi, New York o Tokyo.

Seconda constatazione di ordine ecologico: la nostra ricerca di un modello di crescita più verde ha portato piuttosto a uno sfruttamento più intensivo della crosta terrestre per estrarne il principio attivo, ovvero i metalli rari, con un impatto ambientale ancora più forte di quello causato dall’estrazione del petrolio. Sostenere il cambiamento del nostro modello energetico richiede già il raddoppiamento della produzione di metalli rari ogni quindici anni circa e nel corso dei prossimi trent’anni sarà necessario estrarre più minerali di quanti l’umanità ne abbia estratti negli ultimi settantamila. Le penurie che si profilano potrebbero disilludere Jeremy Rifkin, gli industriali delle tecnologie verdi e papa Francesco, dando ragione al nostro eremita.

Terza constatazione di ordine militare e geopolitico: la perennità degli equipaggiamenti più sofisticati degli eserciti occidentali (robot, cyber-armi, aerei da combattimento come il caccia militare americano F-35) dipende allo stesso modo in parte dal buon volere della Cina. È un fatto questo che pre- occupa i vertici dei servizi segreti americani, dal momento che l’entourage del presidente Trump ha predetto “senza alcun dubbio” una guerra tra gli Sta- ti Uniti e la Cina nel Mar cinese meridionale.

D’altro canto questa nuova corsa aggrava già le tensioni per l’appropriazione dei giacimenti più produttivi e porta i conflitti territoriali nel cuore di santuari che si credevano al riparo dalla cupidigia. La sete di metalli rari è stimolata da una popolazione mondiale che raggiungerà gli otto miliardi e mezzo di individui nel 2030, dallo sviluppo di nuovi modi di consumo high-tech e da una più forte convergenza economica tra i Paesi occidentali e quelli emergenti.

Volendoci emancipare dalle energie fossili passando da un ordine antico a un mondo nuovo sprofondiamo in realtà in un’altra dipendenza, ancora più forte. Robotica, intelligenza artificiale, ospedali digitali, cyber-sicurezza, biotecnologie mediche, Internet delle cose, nanoelettronica, automobili senza conducente… tutti i settori più strategici dell’economia del futuro, tutte le tecnologie che decuplicheranno le nostre capacità di calcolo e modernizzeranno il modo di consumare energia, il più piccolo dei nostri gesti quotidiani come le grandi decisioni collettive si riveleranno legati ai metalli rari. Queste risorse diverranno la base fondamentale, tangibile, palpabile del Ventunesimo secolo, mentre questa dipendenza delinea già i contorni di un futuro che nessun oracolo aveva predetto. Pensavamo di affrancarci dalle penurie, dalle tensioni e dalle crisi causate dal bisogno di petrolio e di carbone ma le stiamo sostituendo con un mondo di penurie, tensioni e crisi inedite.

Da La guerra dei metalli rari di Guillaume Pitron. In alto, foto di Doc SearlsFlickr

Guillaume Pitron

Guillaume Pitron

Guillaume Pitron è un giornalista e documentarista francese, vincitore nel 2017 del prestigioso premio Erik Izraelewicz del quotidiano Le Monde per il giornalismo economico d’inchiesta. Scrive, tra gli altri, su Le Monde Diplomatique e il National Geographic. La guerra dei metalli rari è il suo primo libro.