Si dice che il beato Pietro da Treia (Montecchio, 1227 – Sirolo, 1304) non divenne mai santo perché, secondo il codice canonico di allora, per la santità occorreva che al momento dell’esumazione, 33 anni e 7 giorni dopo la morte, fosse trovata intatta quella parte del corpo per cui si era in odore di santità. Essendo stato, il frate francescano, un eccellente predicatore, i fedeli sirolesi si attendevano che la lingua fosse l’organo rimasto intatto, non intaccato dai batteri della morte. Invece, con grande disappunto degli abitanti di Sirolo, si scoprì che solo “la virtù più indecente” – come canta il poeta – era rimasta intatta al processo di decomposizione.

La delusione fu enorme. E a poco valse il commento che voleva essere consolatorio del capitano del popolo del paese: “Pietro è beato da morto, ma dall’esumazione pare che pure da vivo non se la passasse male”. Il frate rimase beato e delle sue sante prediche piene di immagini meravigliose – con urobori, lupe romane parlanti, ma a vanvera, e branchi di sarde che lottano contro velieri condotti da capitani di sventura venuti dal Nord – non rimase traccia. Parole sante perdute.

Neoliberisti, soprattutto italo-americani, commentano, con parole decisamente meno sante e illuminate, l’andamento del PIL dell’Italia degli ultimi trent’anni attribuendone la responsabilità all’intromissione del pubblico nel mercato, alle rigidità del mercato del lavoro e alla modesta produttività dell’occupato italico. Sappiamo che l’Italia dal 1992 cresce di meno rispetto agli altri Paesi europei – tanto che da più parti si parla di declino – e i segni di ripresa dalla crisi del 2007-2008 tardano a intravedersi, soli con la Grecia, ben prima della recessione Co- vid-19.

La crisi, oltre a costi economici e sociali imponenti, sta determinando il tramonto della teoria economica dominante – di cui il neoliberismo è figlio. Ci si chiede sempre più spesso se, così come la Depressione del 1929 portò alla nascita del paradigma keynesiano, si prepara la nascita di una diversa economia. Joe Stiglitz, Paul Krugman, Paul Romer e molti altri dicono di sì; per ora si è certi che il modello economico dominante è sbagliato e che le alternative – seppur promettenti – sono ancora incomplete.

L’economia nasce come economia politica con l’obiettivo di governare il cambiamento della società. Questo accade prima della matematizzazione dell’economia. Uno degli scopi era quello di essere utile alla società per rimediare alle sue patologie (disoccupazione e inflazione in primis).

Come da “scienza” utile si sia trasformata in una disciplina inutile e spesso dannosa è descritto assai bene in Francesco Saraceno (2018). Giorgio Fuà (come ricordato nella bella biografia di Roberto Giulianelli, 2019) ha più volte richiamato la necessità di fare dell’economista una figura socialmente utile.

Per questo credo si debba dotare di strumenti – come quelli della complessità – che gli consentano di cercare le chiavi dove una persona le ha perse e non sotto un lampione perché lì c’è luce (Fitoussi, 2013).

Invece di ridurre gli assiomi a ipotesi verificabili, l’economia ha scelto un percorso diverso: gli assiomi sono diventati dogmi e il rigore scientifico è stato identificato con la matematica. Questa operazione non è neutra. Privilegiando la forma sulla sostanza, cioè la matematica sull’evidenza empirica, e inoltre, usando l’analogia meccanicistica con la fisica di Newton, l’economia è diventata autoreferenziale.

Questo si basa sulla visione obsoleta del meccanicismo e dell’individualismo, che ci ha portato a sottovalutare i beni comuni, a vivere e inquinare producendo in eccesso come se l’umanità (e l’economia) non facessero parte della natura.

Oggi, tutti i dibattiti politici sono saldamente ancorati alle potenti discipline accademiche dell’economia, che, affermando con successo di essere una scienza esatta, determina il processo decisionale e la legislazione. Sfortunatamente, l’economia si applica ancora al pregiudizio riduzionista, lineare e quantitativo a breve termine tipico del pensiero scientifico tradizionale, in conseguenza del paradigma meccanicistico.

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Le cosiddette leggi economiche producono grandi distorsioni perché si basano sul presupposto che sia naturale e desiderabile per un’istituzione fissare un obiettivo di crescita che induca comportamenti egoistici individuali mentre scoraggia le pratiche virtuose (Capra e Mattei, 2015, p. 8).

La teoria della complessità termina il tempo della certezza quando gli studiosi credevano che ogni effetto corrispondesse e fosse proporzionale a una causa precisa. Questo sottile problema ha effetti sulla teoria economica dominante, che si basa sul presupposto di equilibrio e linearità, ma anche sulle scienze dure – fisica e chimica – in primo luogo.

Come mostrato da Anderson (1972), l’aggregato non è la somma dei suoi componenti, ma piuttosto deriva dall’interazione (che implica una non linearità) tra i componenti stessi. Implica l’abbandono dell’idea di “legge naturale” e meccanicismo, di proporzionalità tra cau-sa ed effetto e che la dinamica di un sistema può essere ricostruita riassumendo gli effetti di singole cause che agiscono su singoli componenti (Nicolis e Prigogine, 1977).

Concentrandosi sui sistemi in equilibrio, gli economisti accettano implicitamente che il numero di stati possibili che un sistema può raggiungere è limitato (e calcolabile) e che la dinamica del tempo di ricerca è breve e convergente, rispetto al tempo di “equilibrio”.

L’approccio tradizionale in economia è molto quantitativo, riducendo il valore della vita umana al valore dei beni e servizi prodotti, ed è “l’attuale forma della visione meccanicistica cartesiana. […] Gli incentivi del settore privato e le strutture legali incoraggiano lo sfruttamento e il comportamento miope delle imprese determinando la struttura istituzionale, legale e intellettuale degli attuali ordini economici estrattivi che chiamiamo la trappola meccanicistica” (Capra e Mattei, 2015, p. 115).

La trappola del meccanicismo è ben evidenziata da quelli come Irving Fisher, che nel 1891 costruì una macchina idraulica per calcolare i prezzi di equilibrio. Anni dopo, nel 1950, William Phillips inventò il MONIAC, un computer idraulico che simulava l’economia britannica.

La capacità di descrivere l’economia come una macchina è un frutto della tradizione della fisica classica, in grado di descrivere una materia complicata, ma non complessa, cioè capace di evolversi. L’economia mainstream pone al centro della sua indagine un individuo astratto, un atomo isolato, che esiste a parte gli altri e agisce indipendentemente da questi.

L’uso di agenti rappresentativi consente di applicare il metodo analitico all’economia, ma a un prezzo troppo elevato. In tal modo si cerca di ridurre l’aggregato al micro – il che ci dà l’idea di una “possibile, ma falsa” microfondazione – per definizione, si rinuncia alla possibilità di analizzare la distribuzione e gli effetti della composizione. Kirman (1992) ha infine messo in evidenza i limiti analitici dell’agente rappresentativo che non rappresenta nessuno.

Se osserviamo attentamente, l’ipotesi del massimo-minimo (costo e utilità) deriva dalla fisica classica ed è funzionale solo a ridurre il comportamento degli agenti a quello – senza strategie o apprendimento – degli atomi. Ed essendo funzionale, è ad hoc. Ciò ha permesso di trasformare una scienza sociale come l’economia in una quantitativa.

L’uso della matematica fornisce all’economia un’autorità che rischia di diventare una presunta obiettività e che, in ogni caso, rende difficile identificare le sue condizioni ideologiche – Schumpeter ritiene che la costruzione analitica di ogni teoria è preceduta da una riflessione sulla visione ideologica.

Questa impostazione dell’economia è stata un fattore decisivo per l’affermazione definitiva in matematica dei sistemi formali, poiché, per la prima volta, il metodo assiomatico-deduttivo è stato applicato al di fuori dei contesti tradizionali di geometria o fisica. Ma, a differenza della fisica, il comportamento degli esseri umani è più difficile da descrivere attraverso modelli matematici, dal momento che non è sufficiente adattare i metodi e il ragionamento della fisica per modellare l’economia perché l’economia è una scienza sociale.

Mauro Gallegati 

Mauro Gallegati 

Mauro Gallegati insegna macroeconomia avanzata all’Università Politecnica delle Marche. I suoi articoli sono pubblicati sul Financial Times, su Il Sole 24 Ore e Sbilanciamoci. Insieme a Joseph Stiglitz ha sviluppato la teoria  dell’informazione asimmetrica con agenti eterogenei interagenti. Tra gli altri lavori, è autore di Oltre la siepe (Chiarelettere, 2014) e Acrescita (Einaudi, 2016).