Il 22 ottobre 1978 iniziava il regno di Giovanni Paolo II, eletto Papa sei giorni prima, e con esso una nuova epoca per la politica estera del Vaticano. Il “santo realismo” che avrebbe caratterizzato l’operato internazionale della Santa Sede fino ai giorni nostri è ora raccontato da Matteo Matzuzzi nel suo libro d’esordio, Il santo realismo. Il Vaticano come potenza politica internazionale da Giovanni Paolo II a Francesco. Ve ne presentiamo qui un estratto in anteprima. 

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“Lo hanno chiamato da un Paese lontano”, disse Giovanni Paolo II, al secolo Karol Józef Wojtyła, nella sua prima apparizione alla Loggia delle Benedizioni appena eletto Pontefice. L’allusione era chiara a quanti, in quell’autunno del 1978, con il mondo spaccato in due blocchi e l’Europa ancora divisa dalla Cortina di ferro, affollavano piazza San Pietro. La frase del nuovo Pontefice, inoltre, dava conto della straordinarietà di quanto appena accaduto: per la prima volta, la Chiesa cattolica aveva alla sua testa un Papa slavo, un uomo dell’Est. Un capo della Chiesa proveniente dall’Europa comunista, dove la libertà religiosa e di culto era in costante pericolo, nonostante la fede ardente delle sue popolazioni.

Un Papa giovane – aveva 58 anni – e sportivo. La percezione che stesse accadendo qualcosa di grande accaduto era condivisa da molti. Il mondo non stava più assistendo alle dinamiche classiche che restringevano l’elezione papale a un mero affare italiano, oggetto di contesa tra cordate, linee ecclesiastico-ideologiche, orientamenti dottrinari e pastorali. La sensazione era piuttosto che l’esplicita apertura al mondo mostrata da Paolo VI, il Papa che aveva chiuso il Concilio Vaticano II, che aveva viaggiato ovunque nel mondo, avesse determinato la svolta. Insomma, la scelta dell’arcivescovo di Cracovia era la naturale conseguenza del pontificato di Giovanni Battista Montini: l’Italia non era più il centro del mondo. L’assise conciliare aveva aperto i confini, i vescovi di tutto il mondo erano venuti a Roma a rappresentare i propri auspici e a confidare le proprie pene. Il Pontefice uscì dal Vaticano, girò il globo, scegliendo come prima meta internazionale la Palestina, dove tutto aveva avuto origine.

Giovanni Paolo II, come è noto, ha governato la Chiesa cattolica per più di ventisette anni, fino all’aprile del 2005. La sola lunghezza del suo regno fa capire quanto arduo sia il compito di chi è chiamato a valutarne l’azione “politica” – e ancor di più l’azione diplomatica – in un’èra che ha conosciuto enormi sconvolgimenti a livello planetario, con il crollo del sistema postbellico e la fine della Guerra fredda. È soprattutto a quest’ultimo aspetto che è legato il nome di Giovanni Paolo II, il Papa polacco che vide sbriciolarsi la Cortina di ferro che divideva l’Europa – e di riflesso il mondo – in due blocchi contrapposti. Per anni, storici di tutto il mondo si sono domandati quanto determinante sia stata l’azione di Wojtyła nel determinare, o addirittura favorire, un tale epilogo.

Secondo la lettura prevalente, diffusa soprattutto all’interno degli ambienti ecclesiastici, Giovanni Paolo II ha impresso un’accelerazione a un processo già in corso, iniziato negli anni di Paolo VI. Un percorso prima caratterizzato dal dialogo e da una prudenza che avrebbero portato, sul finire degli anni Ottanta, allo sbriciolamento del Muro sotto i colpi del Pontefice venuto dall’Est. Un’impressione assodata.

Semmai, in discussione c’era il peso del contributo del Papa all’operazione: decisivo o solo aggiuntivo? E ancora, fu più determinante Ronald Reagan, Michail Gorbacëv, o Karol Wojtyła?

[…] Il biografo di Giovanni Paolo II, George Weigel, tra i massimi esponenti del cattolicesimo americano neocon, ha più volte sottolineato come sia impossibile – e ingiusto – mettere sullo stesso piano l’azione diplomatica di Paolo VI con quella di Wojtyła. […] Quella di Weigel è una posizione indubbiamente forte, che più netta non si potrebbe: Giovanni Paolo II avrebbe dunque portato a un radicale cambiamento nella linea politica della Santa Sede in riferimento al blocco orientale; una linea assai divergente da quella prudente e dialogante perseguita sotto il pontificato di Paolo VI. Il biografo di Wojtyła risponde anche all’ovvia domanda che ci si potrebbe porre una volta recepito il suo pensiero: ma allora, se la Ostpolitik montiniana fu mandata in soffitta, perché fu nominato segretario di stato l’artefice di quella politica, Agostino Casaroli? Semplicementesi trattò di “scaltrezza” politica da parte del Papa polacco; un’astuzia diplomatica che gli consentì di agire ancora più in profondità nell’azione di sgretolamento del Muro. Lui agitava la Croce indicando ai popoli sottomessi la strada da seguire per la liberazione, Casaroli si occupava delle questioni prettamente politiche. 

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[…] In effetti, pur chiamando pochi mesi dopo l’elezione Casaroli a ricoprire la carica di segretario di stato, il pontificato cambiò radicalmente impostazione rispetto alla linea precedente in riferimento ai rapporti con l’est comunista. Già nella sua prima omelia, durante la messa di intronizzazione, il nuovo Papa mise in allarme i maggiorenti (e i servizi segreti) del blocco posto sotto l’egida di Mosca: “Alla salvatrice potenza [di Cristo] aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici”. Messaggio chiaro e parole che poi si sarebbero tradotte in un’efficace azione pastorale e politica che segnò il pontificato per tutti gli anni Ottanta. Ha scritto lo storico Andrea Riccardi che la Chiesa di Wojtyła “non sarebbe stata una Chiesa del silenzio bensì una Chiesa che avrebbe offerto un’accanita resistenza religiosa: Wojtyła crede nella forza dei popoli, anche se umiliati ed oppressi. Ed era certo che il sistema dietro la cortina di ferro non sarebbe durato per sempre”.

Non è un caso che lo storico Gerd Stricker abbia osservato che la prima visita del nuovo Papa nella sua terra natale, nel 1979, fu “la scintilla iniziale per la nascita di Solidarność, che destabilizzò il regime comunista in Polonia e a lungo termine ne causò il crollo. Il che a sua volta scatenò una reazione a catena che alla fine portò al collasso dell’Impero sovietico”. Il tutto è confermato anche dal protagonista di quel movimento, Lech Walesa: “Senza il sostegno del Santo Padre, Solidarność sarebbe stata distrutta. Senza di lui non ci sarebbe stata la fine del comunismo, o almeno sarebbe arrivata molto più tardi, e sarebbe stata violenta”. 

[…] 

Ma quanto era davvero temuto Karol Wojtyła dall’establishment comunista? La risposta è semplice: molto.

E a dirlo non è l’enfasi retorica che, spesso, accompagna figure divenute giganti della storia. Sono i documenti a parlare. La reazione dei leader della Polonia comunista all’elezione di Wojtyła e al successivo viaggio nel Paese indica che essi erano assai be+n consapevoli del potenziale impatto politico del suo pontificato. Dopo un’iniziale esitazione, decisero che sarebbe stato politicamente pericoloso non soddisfare quello che sembrava essere un’insaziabile desiderio del popolo per ogni informazione riguardante il nuovo Papa e la sua elezione. Di conseguenza, le autorità permisero una copertura estesa dell’evento sulla stampa cattolica indipendente e una copertura meno estesa sulla stampa ufficiale. La televisione e la radio trasmisero per la prima volta in diretta l’intera cerimonia di inizio del ministero petrino. 

[…] Secondo lo storico americano Christopher Andrew è assodato che la crisi polacca ebbe inizio proprio il 16 ottobre del 1978, quando l’allora arcivescovo di Cracovia fu eletto al Soglio pontificio. Detto di cosa pensasse Bréžnev, va ora sottolineata la preoccupazione degli esponenti di primo piano del Partito comunista polacco. Boris Aristov, ambasciatore di Mosca a Varsavia, comunicò subito al Cremlino che in patria Wojtyła era considerato “un virulento anticomunista”. Dopotutto, già dal 1971 era controllato quotidianamente dai servizi segreti sospettato di attività sovversiva. Vadim Pavlov, capomissione a Varsavia del Kgb, inoltrò a Mosca una Nota in cui scriveva che, secondo le informazioni dei servizi polacchi :“Wojtyła è sostenitore di un punto di vista estremamente anticomunista. Senza opporsi apertamente al sistema socialista, ha criticato il funzionamento dei ministeri statali della Repubblica del popolo polacco, lanciando numerose accuse”[…].

Insomma, a Mosca e Varsavia sapevano bene chi era stato eletto Papa e probabilmente intuivano già che la crisi non sarebbe stata superata in modo tutto rapido come accaduto in Ungheria nel 1956 e in Cecoslovacchia nel 1968. Il nervosismo per l’attivismo di questo Pontefice era palese e sarebbe cresciuto negli anni, tant’è che nei documenti d’archivio si trovano rapporti sullo stato di salute di Giovanni Paolo II risalenti ai primi anni Ottanta, in cui trapela con chiarezza la speranza di una rapida dipartita del Papa. Mosca guardava con terrore all’azione di questo Pontefice così giovane ed energico, meno prudente e riflessivo del predecessore Paolo VI, che aveva fatto del compromesso con i regimi d’oltrecortina il caposaldo della propria agenda in politica estera.Per Montini era fondamentale non spezzare il filo con il blocco comunista, anche a costo di dolorose concessioni, come dimostrarono i casi degli arcivescovi cardinali Beran e Mindszenty. Ora le cose cambiavano: Wojtyła guardava a Occidente e, pur con tutte le cautele del caso, all’America che di lì a poco avrebbe avuto come presidente Ronald Reagan. 

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Da Il santo realismo. Il Vaticano come potenza politica internazionale da Giovanni Paolo II a Francesco di Matteo Matzuzzi. In alto, foto di Nacho ArteagaUnsplash 

Matteo Matzuzzi

Matteo Matzuzzi ha studiato politica internazionale e diplomazia. È caporedattore del Foglio, dove scrive in particolare di Chiesa cattolica e religioni. Il santo realismo è il suo libro d’esordio.