La prima storia che abbia mai sentito a proposito dell’immunità mi è stata raccontata, quando ero piccola, da mio padre, che è medico. Riguardava Achille, che la madre tentò di rendere immortale. Secondo una versione del mito, lei annientò la mortalità del figlio per mezzo del fuoco, rese il corpo di Achille invulnerabile a ogni ferita, a eccezione però del tallone, e fu proprio quello il punto in cui lo colpì una freccia avvelenata, uccidendolo. In un’altra versione, il piccolo Achille venne immerso nel fiume Stige, quello che segna il confine tra il mondo dei vivi e l’aldilà. La madre, per non farlo sprofondare nell’acqua, tenne il figlio per il tallone, lasciandogli anche in questo caso una fatale vulnerabilità.

Ed è proprio dal fiume Stige che partì Rubens per dipingere la storia di Achille. Il quadro raffigura pipistrelli che volano nel cielo, mentre sullo sfondo si vede un traghetto guidato da morti. In primo piano c’è Achille, penzola dalla mano della madre che lo tiene per la gambetta paffuta, la testa e le spalle già sommerse dall’acqua. Chiaramente il suo non è un bagno qualsiasi. Nel punto in cui il bambino tocca l’acqua è raggomitolato un cane a tre teste, che fa la guardia al regno dell’aldilà, sembra quasi che Achille venga immerso nel corpo della bestia. Conferire immunità, così almeno pare suggerire l’opera, è un’impresa pericolosa.

In una delle storie, un uomo acconsente a barattare col diavolo qualunque cosa si trovi dietro al proprio mulino. È convinto di dar via un albero di mele, ma scoprirà con sgomento che oltre il mulino c’è sua figlia. In un’altra fiaba, una donna che da tempo desidera un figlio e che finalmente resta incinta smania per una pianta nota come raperonzolo, che si trova nel giardino di una strega malvagia. La donna spedisce il marito a rubare la pianta, ma quando l’uomo viene colto sul fatto promette la figlia nascitura alla strega; questa rinchiuderà la bambina in un’alta torre priva di porte.

Tanto le fanciulle prigioniere nelle torri possono sempre calare le loro lunghe trecce dalle finestre.

La stessa cosa accade nei miti greci che mi leggeva mia madre. A un re che aveva ricevuto un’infausta profezia non fu sufficiente rinchiudere la figlia in una torre per impedirle di avere figli. Zeus infatti fece visita alla fanciulla sotto forma di pioggia d’oro, mettendola incinta di un bambino destinato a uccidere il re. Anche se il neonato Edipo, lasciato a morire su un monte, venne salvato da un pastore, non scampò alla profezia secondo cui avrebbe ucciso il proprio padre e sposato la propria madre. E Teti, la madre di Achille, non fu in grado di distruggere col fuoco né di affogare nell’acqua la mortalità del figlio.

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Anche se un figlio non può sfuggire al proprio destino, persino gli dèi provano a far sì che accada. La madre di Achille, una dea che si era unita a un mortale, seppe da una profezia che il figlio sarebbe morto giovane. Nel tentativo di scongiurare la predizione, arrivò a vestire Achille da ragazza per sottrarlo alla Guerra di Troia. Quando poi il figlio impugnò una spada rivelando di essere un ragazzo, sua madre pregò il dio del fuoco di forgiargli uno scudo. Questo era istoriato con il sole e la luna, la terra e l’oceano, città in guerra e in pace, campi dissodati e mietuti: c’era l’intero universo, con tutte le sue dualità, sullo scudo di Achille.

Adesso mio padre mi fa notare che la storia che mi raccontava quando ero piccola non era il mito di Achille, bensì un’antica leggenda. Mentre me ne narra la trama, capisco perché ho confuso i due racconti. L’eroe della seconda storia diventa invulnerabile alle ferite grazie a un bagno nel sangue di drago, ma nel momento in cui si lava nel sangue una foglia resta appiccicata al suo corpo, lasciando una piccola porzione di schiena non protetta. Pur essendo uscito vittorioso da numerose battaglie, basterà un colpo sferrato in quel punto per ucciderlo.

Tutte queste storie ci fanno capire che quello dell’immunità è un mito, e non esiste mortale che possa diventare invulnerabile. Una verità che facevo meno fatica ad accettare prima di diventare madre. La nascita di mio figlio ha portato con sé un senso esagerato di potenza così come di impotenza. Mi sono ritrovata a negoziare con il destino tante di quelle volte che alla fine mio marito e io abbiamo trasformato quest’abitudine in gioco, e ci domandavamo quale malattia avremmo assegnato a nostro figlio al solo scopo di prevenirne un’altra: recitavamo una parodia delle decisioni impossibili per un genitore.

Quando mio figlio era neonato, mi capitò di ascoltare molte variazioni sul tema “l’unica cosa che importa è proteggerlo”. Mi domandavo se questa fosse davvero la cosa più importante, e quasi altrettanto spesso mi domandavo se sarei stata in grado di proteggerlo. Avevo la certezza di non possedere il potere di proteggerlo dalla sua sorte, qualunque fosse. Ciononostante ero determinata a evitare le scommesse sbagliate delle fiabe dei Grimm. Non avrei permesso che mio figlio venisse dannato per colpa della mia negligenza o cupidigia. Non avrei detto per errore al diavolo: “Pigliati pure tutto ciò che si trova dietro al mio mulino”, per poi scoprire che dietro il mulino c’era proprio il mio bambino.

In alto, Pietro Testa, Teti immerge Achille nell’acqua dello Stige, National Gallery of Victoria, Melbourne 

Eula Biss

Eula Biss

Eula Biss è una scrittrice americana. Insegna alla Northwestern University e i suoi precedenti libri hanno vinto numerosi premi, tra cui il National Book Critics Circle Award per Notes from No Man’s Land. Immunità è stato un successo di pubblico e critica, tradotto in oltre dieci lingue e segnalato tra i migliori libri dell’anno da New York Times e Publishers Weekly.