Proponiamo un estratto da Contro l’economia. Scritti 1949-1997 del grande filosofo, sociologo ed economista Cornelius Castoriadis. Alto funzionario dell’OCSE in pieno Sessantotto, incaricato di coordinare gli studi sulla crescita economica che avrebbero guidato la politica dei governi occidentali, Castoriadis nascondeva una doppia vita di militante rivoluzionario nel movimento Socialisme ou Barbarie, da lui fondato nel 1949. Attraverso l’omonima rivista, per vent’anni ha utilizzato clandestinamente quegli stessi studi per sviluppare una critica radicale del capitalismo e della burocrazia. Sempre in anticipo sui tempi, Castoriadis lo è ancora oggi a un secolo dalla nascita, assieme ai concetti che lo hanno reso celebre: la burocratizzazione dell’economia, la centralità dell’immaginario, la critica dello sviluppo e l’autonomia. Questa antologia tradotta e curata da Raffaele Alberto Ventura ne riassume il percorso attraverso la pubblicazione di testi inediti o introvabili in italiano.

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La specificità delle società occidentali per come le conosciamo, la loro unicità storica, è che sono istituite a partire da due significazioni primarie (o precisamente due magmi di significazioni) tra loro contraddittorie. Si tratta, da una parte, delle significazioni che animano il capitalismo e, dall’altra, delle significazioni che da secoli animano il movimento verso l’autonomia sociale e individuale. Sotto l’influenza di pregiudizi inconsci, il più delle volte tendiamo a pensare che si tratti della stessa cosa o di due aspetti della stessa cosa, eventualmente l’una come conseguenza dell’altra, o magari di cancellare l’una per parlare soltanto dell’altra.

Le società occidentali non sono soltanto delle società capitalistiche. Dobbiamo questa erronea identificazione all’assurda tesi marxista secondo la quale il “modo di produzione” determina la totalità della vita sociale. Se le nostre società fossero soltanto capitaliste, il capitalismo non avrebbe mai potuto svilupparsi – ne ho già fornito una dimostrazione sul piano economico.

Ed è ugualmente erroneo considerare che gli elementi di libertà connaturati all’istituzione di queste società non sono altro che un effetto o un sottoprodotto del capitalismo.

Poche nozioni sono sbagliate come quella di “rivoluzione borghese-democratica” nel senso in cui chi la usa, sempre i marxisti, intende una rivoluzione “capitalista-democratica”, una rivoluzione che segna l’accesso al potere della classe capitalista, che esprime gli interessi di questa classe, e che si troverebbe portata a concedere alcune presunte “libertà formali” come controparte della sua dominazione. Non esiste nessun legame, né logico né reale, tra capitalismo e democrazia, “reale” o “formale” che sia. Il capitalismo, nella sua fase ascendente e nei Paesi in cui è pienamente sviluppato (come la Germania di Bismarck o il Giappone dopo la restaurazione Meiji), può tranquillamente adattarsi a ogni sorta di regime politico. E la democrazia non gli deve niente; mentre deve tutto ai movimenti popolari e cosiddetti “borghesi” (ovvero piccolo-borghesi o borghesi “precapitalisti”) che hanno introdotto l’idea democratica nelle società europee ben prima che esistesse, anche solo come embrione, qualcosa come il capitalismo. Né le libertà comunali, né l’habeas corpus, né le Rivoluzioni inglesi del Seicento, né la Rivoluzione americana hanno alcunché a che vedere con il capitalismo.

Quello di cui il capitalismo ha bisogno come regime politico-sociale, ideal-tipicamente, è la distruzione della protoborghesia, delle corporazioni, dei residui feudali nella proprietà e nell’economia agricola (sebbene l’antica aristocrazia e la classe capitalista si siano spesso associate); e sul piano precisamente politico, e di nuovo ideal-tipicamente, presuppone il regno della legalità e una burocrazia statale “razionale”, weberiana.

Ma in realtà la nascita, lo sviluppo e la fioritura del capitalismo sono inseparabili dalla simbiosi con un potere di Stato arbitrario, pronto a trasgredire, aggirare o ammorbidire la sua stessa “legalità” se serve agli affari e al proprio tornaconto.

Dietro la facciata del capitalismo privato, Marx aveva già visto chiaramente che ci sono sempre i magheggi dello Stato. Il sedicente antistatalismo del capitalismo “privato” è sempre stato parziale e a senso unico: contro l’intervento dello Stato che perturba le sacrosante leggi del libero mercato soltanto quando questo, subendo le pressioni delle rivendicazioni di altre classi, tenta di legiferare sulla durata del lavoro o il salario minimo; a favore dell’intervento dello Stato quando invece si tratta di conquistare delle commesse pubbliche, “proteggere l’interesse nazionale” aumentando i dazi doganali o spedire l’esercito a colonizzare dei selvaggi. Inutile quindi prendere sul serio i peana liberali sul capitalismo come prodotto del gioco delle “libere” forze del mercato e gli infiniti dibattiti sui “meriti” e gli “eccessi” di questo sistema inesistente.

Il capitalismo non è altro che l’istituzione di una significazione immaginaria sociale centrale – l’espansione illimitata del dominio “razionale” – assieme a una serie di istituzioni secondarie che incarnano e realizzano questa significazione. Non si tratta di un semplice obiettivo di onnipotenza o di un desiderio di espansione senza limiti. Tali finalità e desideri sono sicuramente presenti in ogni società da millenni; e possono trovare uno sbocco nella magia o nelle conquiste militari. La differenza essenziale è che il capitalismo istituisce e realizza i mezzi reali per un dominio reale: questo si verifica in primo luogo sul piano della produzione e dell’economia, che diventano, contemporaneamente, settori separati e dominanti della vita sociale – è la tendenza all’espansione illimitata delle forze produttive, come diceva Marx. Produzione ed economia non conoscono soltanto un’espansione quantitativa, ma sono oggetto di uno sforzo permanente di penetrazione, di trasformazione, di “razionalizzazione” che porta a rimettere in discussione, modificare, rivoluzionare ogni forma sociale prima data per scontata e intoccabile, per sottometterla all’imperativo della massima economicità, che sia in termini di rendimento o di efficienza. Dominio “razionale” degli strumenti, del processo di produzione, della sua organizzazione ed evidentemente dei produttori stessi, poi dei consumatori. La mediazione essenziale è qui evidentemente la massimizzazione del profitto. Alla fine, come ultima cosa, questo dominio “razionale” esce dalla sfera economica per invadere la totalità della vita e delle funzioni della società: consumo (ovvero manipolazione dei bisogni e di ogni aspetto della vita sociale), educazione, politica, organizzazione e attività dello Stato, cultura e divertimento. A questo punto vediamo nella sua purezza la significazione immaginaria dell’espansione illimitata del dominio “razionale”, divenuto fine in sé stesso (Selbstzweck), perseguito per sé stesso, senza più nemmeno rapporto con la massimizzazione del profitto economico.

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Questa istituzione primaria, nucleare, non può prevalere e realizzarsi senza creare e imporre una serie di istituzioni secondarie, come l’azienda o lo pseudomercato, o appropriandosi e modificando le istituzioni preesistenti, imponendo loro le proprie significazioni, com’è accaduto quando si è passati dalla Monarchia allo Stato burocratico centralizzato. Deve contemporaneamente istituire un nuovo tipo antropologico di individuo (o un insieme complementare di tipi umani) che possiamo definire homo oeconomicus et rationalis, incarnato da una serie di figure: l’imprenditore, il consumatore sempre aggiornato o, eredità del passato, il burocrate impregnato dall’ethos del “servizio”, della “legalità”, e della “razionalità”, ben descritto da Weber, Schumpeter, Veblen, Tawney eccetera. Tutto questo è essenziale ed essenzialmente noto fin dai tempi di Marx e Weber. Gli aspetti che invece non sono stati notati da questi vari autori, e tralasciando le questioni secondarie, sono i seguenti:

a) La razionalità del dominio del capitalismo è di fatto una pseudorazionalità. Lo è sotto due aspetti.

L’idea stessa di un dominio razionale non ha nulla di razionale. Innanzitutto, da un punto di vista storico-sociale, si tratta evidentemente di una creazione immaginaria e totalmente arbitraria, ma inoltre all’interno della stessa istituzione storica della Ragione, l’idea di una corsa infinita alla “razionalizzazione” degli strumenti e dei mezzi separata da ogni finalità definita è divenuta essa stessa un’idea tutt’altro che “neutra” e anzi irrazionale (vernunfrwidrig).

Più importante ancora sul piano effettivo, all’interno stesso della sua sfera limitata, la volontà d’imporre a ogni prezzo una “razionalità” strumentale, decisa e gestita dall’esterno, a ogni attività e affare umano porta molto spesso a esiti assurdi dal suo stesso punto di vista. Questo è già evidente nella sfera che apparentemente dovrebbe prestarsi meglio a questo progetto: la sfera della produzione materiale. Ma la divergenza tra le finalità della “razionalizzazione” e i risultati effettivi si accentua via via che ci si allontana dalla sfera della produzione materiale, per esempio nell’educazione.

b) La tendenza effettiva del capitalismo verso l’espansione illimitata del dominio “razionale” include di fatto il germe storico effettivo (non soltanto l’idea, il sogno, il desiderio) di ciò che diventerà poi il totalitarismo.

Nella fabbrica capitalista vediamo già in nuce un progetto esplicito di dominazione totale, che mobilita tutti i mezzi necessari al fine di penetrare in ogni cosa. Qui tutto deve essere subordinato a un punto di vista unico, che non ammette nessuna discussione, come in ogni organizzazione dello sfruttamento, e tende inoltre a penetrare l’interno del materiale umano di cui si appropria per assimilarlo totalmente e renderlo totalmente conforme ai suoi obiettivi.

L’instaurazione dei regimi totalitari costituisce indubbiamente una rottura storica, una creazione mostruosa, e sarebbe vano tentare di ridurli o dedurli da esperienze precedenti; per esempio non possiamo comprenderli senza prendere in considerazione la colossale mobilitazione di pathos (presso l’intera società o ampi strati sociali) che richiedono, e che nessuna semplice “idea” filosofica o politica saprebbe suscitare. Ma se cerchiamo di individuare la premessa al loro progetto di dominazione totale, la possiamo trovare nell’immaginario capitalistico del dominio illimitato che si manifesta nell’organizzazione della fabbrica: nel nazismo è stato emendato da ogni pretesa di razionalità mentre nello stalinismo è stato occultato dietro un’irrazionalità delirante.

c) L’aspetto più importante è che il capitalismo si è trovato a coesistere con un elemento storico a lui del tutto eterogeneo; si è trovato a nascere e crescere in una società nella quale, da molto prima della sua nascita, un movimento di emancipazione era in corso; è stato costretto a istituirsi in una società che da lungo tempo aveva sviluppato un’opposizione interna, una dimensione conflittuale il cui significato centrale s’incarna in un movimento verso l’autonomia. Questo movimento ha tutt’altra origine rispetto all’istituzione del capitalismo e, sebbene incorporato al suo interno nelle società occidentali, vi si oppone radicalmente. Sorge con la protoborghesia dei secoli XII e XIII europei, che contro il feudalesimo costituisce degli aggregati politici che aspirano all’autogoverno, e in parte riescono a realizzarlo negoziando con lo Stato monarchico o imperiale in via di costituzione. Si sviluppa nelle lotte comunali, poi nei fermenti del Quattrocento, nelle rivoluzioni del Seicento e del Settecento, con l’Illuminismo, e assume una nuova dimensione, più profonda, con il movimento operaio socialista. Oggi è incarnata dai movimenti di emancipazione delle donne, dei giovani, degli ecologisti, delle minoranze. Tornerò più avanti sulla natura epocale di questo movimento, oltre che su quello che giustifica la mia scelta di accorpare tra loro realtà tanto differenti;

per ora importa capire che esiste una continuità forte all’insegna di un progressivo svincolamento della società civile rispetto allo Stato in senso stretto, un aumento dell’eguaglianza e della democrazia, l’emergenza di movimenti di emancipazione, lotta di classe e movimenti rivoluzionari, emancipazione dalla religione e affermazione del diritto al libero esame e all’autonomia dello spirito – tutti fenomeni che da principio appaiono evidentemente soltanto in forma embrionale.

Perché voler pensare tutto questo alla luce della significazione dell’autonomia? Perché con la nascita della modernità, per la seconda volta nella storia dell’umanità e dopo una pausa lunga quindici secoli, riemerge il problema politico vero e proprio, anzi il conflitto politico vero e proprio; il problema dell’istituzione della società, conflitto e lotta che hanno come posta in gioco esplicita questa istituzione e che mobilitano l’essenziale delle collettività coinvolte. Conflitto che non esiste soltanto nell’Europa dell’VIII secolo, per esempio, proprio come non esiste a nostra conoscenza in Egitto o a Babilonia, a Bisanzio o in Russia prima della seconda metà dell’Ottocento, ma che si manifesta per la prima volta dal tempo dei Greci, attraverso la rivendicazione di una collettività che vuole affermarsi esplicitamente come fonte della sua stessa istituzione, dissolvendo ogni illusione sull’origine “trascendente” di questa.

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Da Contro l’economia. Scritti 1949-1997 di Cornelius Castoradis, prefazione e traduzione di Raffaele Alberto Ventura. In alto, immagine di Chris Li chrisli, Monochrome wall street sign.

Cornelius Castoriadis

Economista all’OCSE e fondatore dello storico gruppo Socialisme ou Barbarie, viene oggi celebrato come uno dei più influenti pensatori della seconda metà del Novecento. “Cattivo maestro”del Sessantotto, critico radicale dell’esperienza sovietica, precorritore dell’ecologia politica, il filosofo ha denunciato senza sosta la burocratizzazione del mondo e difeso un ideale di società autonoma, realmente democratica.