Proponiamo un estratto da La grande ricchezza. Come libertà e innovazione hanno reso il mondo un posto migliore di Deirdre Nansen McCloskey con Art Carden. McCloskey, professoressa emerita alla University of Illinois Chicago e influente teorica del libero mercato, ripercorre le vicende storiche del liberalismo in senso classico, mostrando come libertà economica, politica e personale, idee che non appartengono né alla destra né alla sinistra, siano state le inscindibili basi di crescita e sviluppo.

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Nel 2005, una coalizione di gruppi ha organizzato la campagna Make Poverty History. Basta la sola idea – rendere storia passata la povertà – per restare a bocca aperta, visto quanto era dura un tempo la vita di praticamente chiunque sul pianeta, a parte qualche nobile o membro del clero. In termini quantitativi, se si vuole affrontare dal punto di vista scientifico la storia dell’economia, bisogna innanzitutto considerale che nel 1800 la misera media della produzione e del consumo quotidiano pro capite era di circa 3 dollari. Anche in Paesi da poco benestanti come Stati Uniti, Olanda e Gran Bretagna arrivava solo a 6 dollari. Ahia. Sono cifre espresse in termini attuali, senza alcun trucchetto. Provate a vivere nel vostro quartiere con 3 o 6 dollari al giorno, oppure pensate che oggi la media mondiale è di 33 dollari, che arrivano a 130 negli Stati Uniti. La cifra è raddoppiata generazione dopo generazione e sono stati soprattutto i poveri a trarne beneficio. Inoltre, al contrario di quel che si dice, dalla metà del Ventesimo secolo, le diseguaglianze a livello mondiale sono crollate.

Le persone più povere al mondo stanno arrivando a poter contare su un reddito dignitoso o perfino più che dignitoso. Wow. Il nostro compito è far capire quell’ahia e spiegare il wow, dimostrando che il passaggio da ahia a wow è avvenuto grazie alla libertà. Nel 1651, il filosofo inglese Thomas Hobbes pensava che quando gli uomini vivono senza un sovrano onnipotente si trovano in quella condizione che chiama “guerra di tutti contro tutti”. La storiografia e l’antropologia moderna ci dicono che probabilmente si sbagliava sul sovrano o su quel “durante il tempo”. La sua celebre visione della povertà di una società priva di qualche tipo di disciplina, imposta da una mano visibile o richiesta a una mano invisibile, può servirci però a definire quel mondo dal quale la campagna Make Poverty History si vuole allontanare:  

In tale condizione [lo “stato di natura” privo di disciplina da lui immaginato] non c’è posto per l’industria, perché il frutto di essa è incerto [pensate: se il frutto verrà rubato, vengono a mancare gli incentivi a produrlo], e per conseguenza non v’è cultura della terra, né navigazione [pensate: niente caravelle di Enrico il Navigatore che esplorano le coste dell’Africa], né uso dei prodotti che si possono importare per mare [pensate: niente pepe dall’Oriente], né comodi edifici [pensate: niente municipio di Amsterdam nel Dam], né macchine per muovere e trasportare cose che richiedono molta forza [pensate: niente carrozze sulle strade del re], né conoscenza della faccia della terra [pensate: “Don’t know much about geography”], né calcolo del tempo [niente orologi, niente storia: “Don’t know much about the Middle Ages”],* né arti, né lettere, né società, e, quel che è peggio di tutto, v’è continuo timore e pericolo di morte violenta, e la vita dell’uomo è solitaria, misera, sgradevole, animalesca e breve.  

Doppio ahia. Non va bene. Hobbes presupponeva che le persone fossero per natura crudeli ed egoiste, e soprattutto incapaci di organizzarsi volontariamente. Serviva un “leviatano” che le domasse, quello che dà il titolo alla sua opera del 1651: una gran bestia di governo. Solo un re imposto dall’alto, come il suo amato – seppur da poco decapitato – signore Carlo I d’Inghilterra, o il figlio di Carlo che si nascondeva in Francia, il futuro Carlo II, avrebbe potuto proteggere pace e civiltà. (Le sue argomentazioni, va detto, somigliano molto a quelle della sinistra attuale secondo la quale un governo leviatano, molto più potente di quanto Carlo I avrebbe mai potuto immaginare, sia necessario per difendere la pace, la civiltà e i poveri.) Hobbes sosteneva che si dovesse scegliere tra vivere nella miseria più nera privi di un potente re o nella semplice miseria (in ogni caso) sotto il regno di uno di essi.

In tanti, ancora oggi, a destra e a sinistra, si rifanno alle tesi di Hobbes sul governo imposto dall’alto.

Ritengono, nelle parole dell’economista liberale Donald Boudreaux, “che noi umani senza la direzione di un sovrano possiamo essere solo dei blob inerti e buoni a nulla [così sostengono dem, labour e il caro vecchio John Dewey] oppure barbari stupidi e brutali destinati a rubare, stuprare, saccheggiare e ammazzarci a vicenda [così sostengono gop,* tory e il caro vecchio Thomas Hobbes], fino a quando un potere sovrano non ci doma e indirizza le energie economiche su sentieri più produttivi”.

Chi crede in cose del genere viene giustamente chiamato “statalista”, per esempio, nella politica recente, Elizabeth Warren a sinistra dello spettro convenzionale e Donald Trump a destra. La destra, la sinistra e il centro vogliono costringere zucconi e barbari a organizzarsi. Tanto i progressisti quanto i conservatori, in altre parole, vedono le persone comuni come bambini, ignoranti o irrequieti, incapaci di badare a sé stessi e pericolosi per gli altri, da governare in modo ferreo. Insopportabili. Noi liberali invece no. Vogliamo convincervi a diventare liberali nel senso più antico e onorevole del termine, oppure, se proprio vi piace la parola, a condividere con noi una versione generosa del libertarismo (una parola degli anni Cinquanta del Novecento che vorremmo mandare in pensione). Non vi piace che le persone subiscano delle costrizioni tramite un sistema penitenziario-industriale o attraverso norme che impediscono loro di guadagnarsi da vivere intrecciando i capelli o per mezzo dei danni collaterali degli attacchi dei droni o ancora dividendo neonati e mamme al confine tra USA e Messico, vero? Siamo sicuri di no. Come dice una versione della “regola d’oro”, fate anche agli altri tutto quel che volete che essi facciano a voi. Con mente aperta e cuore generoso, amici lettori, crediamo che vorrete scegliere un vero liberalismo dal volto umano.

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Sia benvenuta pertanto una società tenuta insieme dalle conversazioni tra adulti liberi e non dalla coercizione del leviatano su schiavi e bambini. Un tempo, la causa hobbesiana, statalista e antiliberale poteva in qualche modo essere plausibile; per chi la difendeva lo era al punto da giustificare la schiavitù, in quanto avrebbe costretto gli schiavi a fare cose utili, o da accettare che gli olandesi dominassero gli indonesiani per un altro secolo o che le donne fossero sottomesse ai loro mariti-re.

[…] In altre parole, al mondo moderno si addice il liberalismo moderno, per come lo stiamo definendo, e non, lo ripetiamo per l’ultima volta, per come da un secolo viene definito negli Stati Uniti (secondo l’idea di una generale subordinazione volontaria alla coercizione del governo). Nel nostro liberalismo ci sono adulti istruiti e intraprendenti, in grado di prendersi cura di sé stessi e delle loro famiglie e di provvedere ai propri vicini tramite scambi volontari. Riteniamo che la visione liberale per gli esseri umani sia meglio della vecchia visione di sinistra, fatta di proletari disorganizzati da affidare alla guida del Partito comunista o della vecchia versione di destra, fatta di sciocchi bifolchi da affidare alla guida dell’aristocrazia. In altre parole, il momento migliore per dare una chance a persone adulte e dignitose, e accettare il Patto Borghese, è ora. Per essere ancor più precisi, e per parafrasare un proverbio africano, il momento migliore per dare una chance a persone adulte e dignitose, e accettare il Patto Borghese, era venti o duecento o duemila o duecentomila anni fa. Il secondo momento migliore è ora. Le persone sono pronte per l’autonomia liberale.

Concedergliela vuol dire permettere loro di crescere. L’epoca dei grandi governi, che dirigono e giudicano, dei signorotti, dei mariti e degli esperti che spadroneggiano semmai (e sottolineiamo mai) poteva essere il passato. Oggi è giunta l’ora di quello che viene chiamato “liberalismo classico”, espressione che potrebbe suonare un po’ obsoleta. Non lo è affatto e possiamo sbarazzarci pure dell’aggettivo “classico”. È lo Stato leviatano a essere obsoleto, che sia gestito dai re di un tempo o dai tiranni di oggi, da Carlo I o da Tayyip Erdog˘an. Noi, e con noi il Patto Borghese, sosteniamo che il mondo può – e dall’Ottocento l’ha fatto visibilmente – fuggire dalla miseria, dalla sgradevolezza, dall’animalità e da una vita di durata breve come lo era nel 1651, senza il rischio di una guerra di tutti contro tutti. Affermiamo che Hobbes non sbagliava nel descrivere i mali reali e potenziali del 1651, ma l’epoca moderna ha contraddetto la sua fede nel dominio di un potere governativo. E i 130 dollari, o anche solo i 33 dollari, al giorno, in costante crescita, con le relative implicazioni spirituali, hanno contraddetto i nostri cari amici statalisti mode rati di sinistra e destra. I fatti hanno contraddetto ancor di più i rivoluzionari. La dittatura del proletariato o il Reich millenario non hanno contribuito al progresso umano. Il Patto Borghese sì. 

Fino all’Ottocento, l’argomentazione di Hobbes sembrava del tutto naturale in una società di re e signori, con Gengis Khan o Re Salomone. La tirannia era adatta a un’economia basata sulla pastorizia e a una società contadina. Re e signori erano ben lieti di sfruttare il monopolio della coercizione su contadini impossibilitati a fuggire. La storia inglese, fino alla cosiddetta Gloriosa rivoluzione del 1688-’89, e la storia mondiale, fino alla Rivoluzione francese e a quella americana, diedero ben poco spazio a qualunque alternativa al Grande Fratello o al Grande Papà. È sempre stato così, da quando gli umani, dopo milioni di anni, hanno smesso di essere cacciatori raccoglitori, uscendo da una condizione libera ma segnata da una povertà estrema. È allora che ci è entrata nei geni la voglia di libertà. Le persone però sono complicate. Allo stesso tempo pensano di volere un re, un padre della nazione. Nella Bibbia Ebraica c’è un passaggio esilarante su come gli antichi israeliti, non diversamente dagli argentini di oggi o dagli italiani e in verità da qualunque elettorato che si trovi del giusto umore, volessero più statalismo imposto dall’alto, più bonapartismo, in altre parole un condottiero su un cavallo bianco. Per sentirsi al sicuro e prosperare. Nel passo biblico, gli israeliti chiedono a Samuele di dare loro un re, “come tutte le nazioni”. Samuele si consulta con Dio, che gli dice di metterli in guardia dall’ottenere quel che desiderano. “Samuele riferì tutte le parole del Signore al popolo che gli aveva chiesto un re” (1 Samuele 8: 10-18): 

Questo sarà il diritto del re […] prenderà i vostri figli per destinarli ai suoi carri e ai suoi cavalli, […] li costringerà ad arare i suoi campi, mietere le sue messi e apprestargli armi per le sue battaglie e attrezzature per i suoi carri. Prenderà anche le vostre figlie per farle sue profumiere e cuoche e fornaie. Prenderà pure i vostri campi, le vostre vigne, i vostri oliveti più belli. […] Sulle vostre sementi e sulle vostre vigne prenderà le decime e le darà ai suoi cortigiani e ai suoi ministri. […] Allora griderete a causa del re che avrete voluto eleggere, ma il Signore non vi ascolterà. “Il popolo rifiutò di ascoltare.” Ah ah ah. Imprevedibilmente, anche ai tempi di Hobbes, una serie di opere liberali cominciò a sfidare l’assunto statalista. Sono state queste idee, secondo noi, a creare il mondo moderno, ispirando la gente comune a essere libera e intraprendente, a essere adulta, invece di arare o confezionare profumi in schiavitù per qualche re.

Dalla metà del Diciassettesimo secolo, la lista degli scrittori liberali si fa sempre più lunga, dai levellers, i “livellatori” inglesi degli anni Quaranta del Seicento, ai fratelli de la Court in Olanda negli anni Sessanta dello stesso secolo.

L’inglese John Locke, fortemente influenzato dagli olandesi, negli anni Ottanta del Seicento, mentre proprio nel loro Paese si nascondeva da Re Giacomo II, diede al liberalismo quella forma che un secolo dopo avrebbe ispirato la Rivoluzione americana. Nel 1733, il francese Voltaire, che ammirava i primi passi del liberalismo e della dignità borghese nella Gran Bretagna dell’epoca – in opposizione allo snobismo monarchico del proprio Paese – lodò il libero commercio proprio come fece Locke.

Scrisse con piglio sarcastico: “Non so se sia più utile allo Stato un signore bene incipriato che sa con precisione a che ora si alza il re […] o un commerciante che arricchisce il proprio Paese, manda ordini dal suo ufficio fino a Surat e al Cairo, e contribuisce al benessere del mondo”. Circa quarant’anni dopo, Thomas Jefferson, proprietario di schiavi combattuto nell’animo, scrisse, come è noto, che tutti gli uomini sono stati creati uguali e dovrebbero poter ricercare la felicità tramite il commercio. Ancora nel 1776, il nostro eroe del cuore del liberalismo, lo scozzese Adam Smith (1723-’90; sarete felici di sapere che condivide il compleanno con la figlia di Carden), diede vita all’ideologia dell’“ovvio e semplice sistema della libertà naturale”. Quattro mesi prima che il Congresso continentale approvasse l’ultima bozza della Dichiarazione d’Indipendenza, pubblicò la sua Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni. Il libro sosteneva quanto noi sosteniamo: la libertà consente la prosperità e non corrompe l’anima. Naturalmente l’idea liberale aveva delle cause. Smith proveniva da due secoli e mezzo di preparativi accidentali, in un’Europa nordoccidentale un tempo ben distante dall’essere liberale. Pensiamo all’illiberale Enrico VIII, che dal 1509 al 1547 governò l’Inghilterra con il pugno di ferro. A dispetto di quanto sostengono oggi i suprematisti bianchi e altri svitati, l’Europa non ha fatto da subito eccezione. Ancora nel 1492 era un angolo povero, sgradevole e animalesco del mondo, dove la vita era breve. Poi, pian piano, l’ideologia del laissez faire arrivò da quelle parti e cominciò a essere onorata. 

La lunga rivolta olandese del 1568-1648 contro gli Asburgo, per esempio, consentì alla classe media, la middling sort, la bourgeoisie (pronunciata “boor-zwah-ZEE”), di occupare quel vuoto lasciato da un’aristocrazia decimata dalle battaglie. Le città dei Paesi Bassi da tempo erano ormai gestite dall’alta borghesia, dai grandi mercanti e dai membri delle corporazioni chiamati “reggenti”. Era un governo difficile da sopportare per le classi inferiori, che non avevano diritti, ma era comunque un po’ liberale, specialmente in economia. Poi, dalla fine del Diciassettesimo secolo, sulla spinta dello straordinario successo economico degli olandesi, l’idea che le persone comuni potessero essere lasciate in pace senza che i loro padroni fissassero ogni più minuscola regola cominciò a emergere in Inghilterra, in Scozia e nelle loro colonie. Prima l’Inghilterra e poi la Scozia cominciarono ad apprezzare quanto prima disprezzavano: un mercante capace di comprare a poco e rivendere a tanto arricchisce il suo Paese e contribuisce al benessere del mondo. Il laissez faire economico divenne lentamente la dottrina dominante. Il grande storico dell’economia Eric Jones descrive per esempio la fine delle restrizioni imposte dalle corporazioni in Inghilterra: “Il jolly fu il cambiamento di opinione delle élite del Paese, condiviso da gran parte dei tribunali. I giudici spesso si rifiutavano di sostenere le restrizioni che le corporazioni avrebbero voluto imporre. […] Un caso chiave interessò Newbury e Ipswich nel 1616 […] e sancì che gli ‘stranieri’, gli uomini non appartenenti a un distretto, non potevano essere costretti a iscriversi”, vale a dire a entrare nella corporazione ed essere soggetti alle sue limitazioni. Gli inglesi, un tempo violenti e illiberali adoratori di re, diventarono progressivamente, secondo un’espressione dell’epoca, “un popolo educato e dedito al commercio

 […] Ciò che prima veniva considerato disonorevole e indegno – la ricerca del puro lucro – era ora esaltato, perlomeno non combattuto da corporazioni e governi. (Una nostra preoccupazione, che dovreste condividere anche voi, è: stanno imponendo di nuovo un ostruzionismo normativo illiberale e medievale?) La conseguenza della nuova idea liberale è stata che intorno all’Ottocento, uno tsunami di miglioramenti ha travolto prima l’Occidente e poi il resto del mondo. Possiamo chiamarlo il Grande Arricchimento. Ferrovie. Scuole di massa. Grattaceli. Elettricità. Fogne. Università. Antibiotici. Container. Computer. Nei posti dove il Grande Arricchimento è stato vissuto fino in fondo, Pinco e Pallina, discendenti da avi poverissimi, vivono una vita connessa, ricca, gradevole, pacifica e – per gli standard storici – incredibilmente lunga. Per nulla hobbesiana. Wow.

Da La grande ricchezza di Deirdre Nansen McCloskey con Art Carden. In alto, 

Deirdre Nansen McCloskey

Deirdre Nansen McCloskey, professoressa emerita alla University of Illinois Chicago, è considerata tra i più influenti economisti al mondo e tra i massimi teorici del libero mercato. È autrice di numerosi volumi sulla storia e la filosofia dell’economia, tra i quali la celebre Bourgeois Era, trilogia che oggi, con La grande ricchezza, abbrevia e riscrive per un pubblico ampio.