Tratto da La Russia eterna. Origini e costruzione dell’ideologia post sovietica di Luca Gori.


Credo nel katechon; è la sola possibilità per me di capire la storia e di trovare il suo significato come cristiano
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Carl Schmitt

Se l’eccezionalismo americano era nato come momento di “rottura” rivoluzionaria rispetto all’ordine costituito, proponendo la democrazia come nuovo orizzonte politico universale, il conservatorismo russo ha invece nel suo Dna il Kathéchon: la visione di una Russia come “scudo” che protegge l’ordine dalle forze apocalittiche del caos. Si tratta di un concetto chiave per chi voglia provare a capire la Russia di Putin, la sua “svolta conservatrice” e l’obiettivo di sfidare l’egemonia occidentale per affermare una civiltà russa autonoma e creare un mondo policentrico.

La parola Kathéchon viene dal greco antico e significa “ciò che trattiene” o “colui che trattiene”. Nella visione escatologica della cultura cristiana, il Kathéchon viene identificato con la Roma imperiale, considerata l’ultimo Regno in grado di proteggere il mondo dalla venuta dell’Anticristo. Questa interpretazione è basata sulla seconda Lettera di San Paolo Apostolo ai Tessalonicesi, e in particolare sul seguente (per molti versi misterioso) passaggio:

Nessuno vi inganni in alcun modo! Prima infatti dovrà avvenire l’apostasia e dovrà esser rivelato l’uomo iniquo, il figlio della perdizione, colui che si contrappone e s’innalza sopra ogni essere che viene detto Dio o è oggetto di culto, fino a sedere nel tempio di Dio, additando se stesso come Dio. Non ricordate che, quando ancora ero tra voi, venivo dicendo queste cose? E ora sapete ciò che impedisce la sua manifestazione, che avverrà nella sua ora. Il mistero dell’iniquità è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo chi finora lo trattiene.

Nella tradizione russa, il Kathéchon viene riproposto nella formula della “Terza Roma”, coniata dal monaco Filofej di Pskov nel XVI secolo. L’idea che i russi fossero il “popolo eletto” destinato a combattere l’Anticristo forgiò una mentalità con evidenti ripercussioni politiche e ideologiche. Già durante il regno di Ivan IV (detto il Terribile), incoronato nel 1547 dal metropolita Makarij con il titolo di “gran principe e zar di tutta la Rus’”, in un rito di definitiva sacralizzazione della monarchia russa, vennero indicati due nemici contro cui Mosca doveva fungere da Kathéchon.

Un Anticristo esterno, che poteva arrivare dalle terre oltre la Moscova; e un Anticristo interno, che veniva identificato nella resistenza alla volontà del potere costituito, soprattutto nelle fasi di instabilità e disordine. Equiparando ogni insubordinazione al tentativo di indebolire lo Stato nel suo ruolo di “freno” al ritorno dell’Anticristo, veniva forgiato in chiave escatologica un certo tipo di regime e di esercizio del potere che avrebbe segnato a lungo la cultura politica della Russia. In particolare nel rapporto tra Stato e popolo.

Nel XVIII e XIX secolo, i contenuti del concetto di Kathéchon cambiarono però sensibilmente. La sua interpretazione venne collegata al dibattito tra occidentalisti e slavofili, divenendo così una dottrina laica di politica estera a difesa dell’unicità storico-culturale della Russia. Manteneva comunque anche una dimensione messianica, per cui Mosca restava la protettrice del mondo e lo “scudo” che aveva salvato l’Europa dall’orda mongola. A quest’ultimo riguardo, è rinomata la presa di posizione di Puškin nella sua Lettera a Cˇaadaev del 19 ottobre 1836:

Senza dubbio, lo scisma ci ha separati dal resto dell’Europa, e non abbiamo potuto partecipare a tutti i grandi eventi che l’hanno definita, ma noi abbiamo avuto un destino speciale. È stata la Russia e il suo territorio senza limiti che ha assorbito l’invasione dei Mongoli. I Tatari non hanno osato giungere sino ai nostri confini occidentali, lasciandoci alle loro spalle. Si ritirarono verso i loro deserti e la civiltà cristiana è stata salvata […] il nostro martirio ha evitato distrazioni allo sviluppo energico dell’Europa cattolica.

Durante l’Epoca d’argento, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, il principio del Kathécon venne nuovamente riformulato, questa volta in termini apocalittici e declinisti. Nel 1894 Vladimir Solov’ev, ispiratore del movimento poetico del Simbolismo, scrisse una poesia, Panmongolismo, in cui elogiava la cultura orientale e profetizzava la caduta di Mosca come Terza Roma. A seguito della guerra russo-giapponese del 1905, si diffuse inoltre in Russia la paura – ampiamente riflessa nella letteratura del tempo – dell’uomo orientale. Nel 1913, Andrej Belyj scrisse uno dei più importanti romanzi simbolisti, Pietroburgo, dove a questa fobia veniva riservato uno spazio centrale.

La Prima guerra mondiale e la Rivoluzione bolscevica aggiunsero poi un ulteriore elemento di caos e di disordine dionisiaco, silitico che di autocoscienza. La Russia non sembrava più in grado di mettere un freno alla venuta dell’Anticristo. Anzi, di fronte ad un mondo che non offriva più una prospettiva di salvezza, abbassava lo scudo protettivo e lasciava passare la “malvagità”, con il suo carico di guerra, morte e distruzione.

Questo senso di Apocalisse imminente lo si ritrova – in particolare – nella poesia di Aleksandr Blok, Gli Sciti. Nei versi dedicati al popolo delle steppe vi si intravede – all’inizio del 1918, sullo sfondo dei colloqui che avrebbero condotto al Trattato di Brest-Litovsk – una Russia tumultuosa, impaurita e smarrita, che minaccia di non alzare nuovamente la “diga” contro l’onda (anche simbolica) del panmongolismo nel caso in cui russi ed europei non fossero riusciti a trovare la pace e a salvare la loro civiltà. Particolarmente significativo è il passaggio seguente:

Unisciti a noi! Via dalla guerra,
Vieni nelle nostre pacifiche braccia!
Sei ancora in tempo – la spada sotterra,
Compagno! Fratello, ti abbraccio!
Ma se la nostra offerta sarà vana,
Anche noi conosciamo la slealtà!
La vostra progenie sarà malsana
E per secoli interi vi maledirà!
Per boscaglie e boschi ci scanseremo
Davanti all’Europa bella e distinta,
E rivolti ad essa noi mostreremo
Il nostro sorriso e l’asiatica grinta!
Andate, andate pure negli Urali!
Noi lasceremo il campo di battaglia,
Là dove respira l’integrale,
Dove colpisce la mongola marmaglia!
Ma d’ora in poi non saremo più un baluardo,
D’ora in poi alla lotta non costretti,
La lotta seguiremo con lo sguardo,
Coi nostri occhi sghembi e stretti.
Noi non ci muoveremo quando gli empi
Unni i cadaveri deruberanno,
Bruceranno le città e i templi,
E la carne dei bianchi arrostiranno!

Per quanto concerne la versione sovietica del Kathéchon, la questione è molto articolata e richiederebbe ben altra trattazione. Ci limitiamo qui a ricordare in modo succinto due interpretazioni storiografiche. In primo luogo, è stato sostenuto che secondo una logica conservatrice, Stati Uniti e Urss hanno svolto entrambi, durante la Guerra fredda, un ruolo di “freno” rispetto al rischio dell’Apocalisse atomica. La dottrina della “distruzione mutua assicurata” avrebbe cioè “trattenuto” sia Mosca che Washington dal compiere passi avventati, garantendo – in ultima istanza – la stabilità globale. Secondo un’altra lettura, di stampo liberale, sarebbe stata invece la stessa guerra fredda ad agire da Kathéchon, “congelando” la realizzazione del progetto kantiano di un governo mondiale e di una pace perpetua.

Dopo il 1991 è tuttavia prevalsa – almeno tra le fila dei neoconservatori russi – un’ulteriore interpretazione dell’Urss come Kathéchon. Il regime sovietico è stato presentato, secondo una visione secolarizzata del messianismo russo, come protettore della classe operaia rispetto all’oppressione del capitalismo e – soprattutto – come bastione che ha difeso l’umanità dal male assoluto del nazismo. Negli anni Novanta, i neoconservatori russi hanno inoltre scoperto il pensiero di Carl Schmitt che ha scritto del Kathéchon in Il nomos della terra. Ed è stato soprattutto Dugin, attraverso una serie di articoli tra i quali Katechon and Revolution pubblicato nel 1997, a rendere Schmitt popolare anche in Russia.

Se nella filosofia di Schmitt il Kathéchon coincide sostanzialmente con lo Stato che protegge contro il caos, nella Russia post sovietica il concetto, molto caro ai “conservatori radicali”, ha finito per incarnare l’idea stessa di difesa dalla minaccia esterna. Mosca è vista cioè come la forza che resiste a un nemico fisico e metafisico inviato dall’Anticristo. Un tempo i Tatari, i Turchi, Napoleone o Hitler. Più di recente i liberali, gli agenti americani, i movimenti Lgbt, la Nato, l’Unione europea, il liberalismo, la globalizzazione, il postmodernismo.

Il Kathéchon si erge in sostanza a difesa della civiltà russa, a cominciare dalla sua identità ortodossa. Nel manifesto conservatore, La dottrina russa si enfatizza proprio la dimensione religiosa ed escatologica del concetto e infatti vi si legge: “Il Kathéchon come regno ortodosso difende i cristiani contro le forze ostili alla salvezza dell’anima”. Dal canto suo, il conservatore Cholmogorov ha definito il Kathékon come segue:

Ecco come l’idea bizantina di Kathéchon, l’idea di trattenere il mondo, è riflessa nella nostra coscienza imperiale. È ciò che sta sul ponte tra l’Anticristo e il mondo e che impedisce all’Anticristo di entrare nel mondo. Ora non è più un ponte, ma piuttosto una botola, il cui coperchio viene ogni tanto rimosso e alcuni vampiri o lupi mannari o assassini escono dal buco. Lo stivale [militare] russo incerato pesta il coperchio e ripristina il silenzio per un po’ di tempo.

La forza militare è quindi un alleato del Kathéchon. Le parole di Cholmogorov lasciano intravedere come i conservatori post sovietici, soprattutto i più radicali, abbiano una visione politica, patriottica e militarizzata della religione ortodossa. Una visione nazionalista. Come direbbe Dugin, sono intellettuali che oppongono al cattolicesimo occidentale lo spirito ortodosso: contemplativo, apofatico, esicastico, comunitario, anti-individualista e antimoderno. E che fanno rivivere il mito di fine Ottocento della Russia “Nuova Gerusalemme”, la terra che custodisce la verità di Cristo. I neoconservatori parlano, in particolare, di un’ideologia dell’“ortodossia atomica”.

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Una dottrina basata sulla capacità di unire il “rosso” (lo scudo atomico forgiato in epoca sovietica) e il “bianco” (lo scudo della chiesa ortodossa), garantendo così la sovranità del Paese. Il “doppio scudo” (militare e religioso) è indispensabile affinché la Russia sia indipendente e realizzi la sua missione nel mondo. Fede e forza militare concorrono al conseguimento di uno stesso obiettivo: difendere l’ordine.

Per Cholmogorov, Dugin e Prochanov la dimensione militare della Russia riguarda, in altri termini, la sua stessa natura spirituale. Mosca deve essere infatti forte perché nulla e nessuno possa mettere a rischio la sua capacità di testimoniare la fede cristiana. Questo “patriottismo ortodosso” risale al 1888, quando fu celebrato il novecentesimo anniversario della conversione della Russia. Il simbolo più recente di tale connubio può essere individuato nella costruzione di un’enorme cattedrale, fuori Mosca, nel Parco della Vittoria, dedicata alle forze armate russe. Putin sembra aver convalidato il concetto di “doppio scudo” quando nel 2007 a Sarov (la città dove fu prodotta la prima bomba atomica sovietica) ha risposto alla domanda di un giornalista sulla politica nucleare di Mosca e sul futuro dell’ortodossia, usando le seguenti parole:

Le due questioni sono correlate perché sia la fede tradizionale della Federazione Russa che lo scudo nucleare della Russia sono componenti che rafforzano lo Stato russo e creano le condizioni necessarie per la sicurezza interna ed esterna del Paese. Ciò indica chiaramente come lo Stato debba trattare entrambe [le problematiche] oggi e in futuro.

Nel pensiero di Putin, l’ortodossia va quindi arruolata a difesa della stabilità, della Patria, dello Stato e della sua sovranità. La scelta di considerare l’ortodossia come una religione politica ha implicato – per alcuni circoli conservatori – la messa in evidenza del legame con la guerra e la resistenza al male. Da qui la tendenza a rivalutare i principi guerrieri (Nevskij, Donskoj) e il tentativo di “canonizzare” i costruttori dello Stato russo: Ivan il Terribile, Pietro il Grande e Stalin, o personalità militari come il Maresciallo Zˇukov o i marinai del sottomarino Kursk.

In definitiva, possiamo ritenere che Kathéchon e ortodossia atomica facciano parte della coscienza collettiva russa, come l’eccezionalismo di quella americana. Entrambi i concetti contribuiscono infatti alla missione nazionale di respingere i nemici e tutelare ordine e status quo, secondo un’esigenza fortemente sentita dai russi, consciamente o inconsciamente. In Fuga da Bisanzio, Iosif Brodskij – sia pur nel quadro di riflessioni metafisiche e certo non di segno conservatore – ha scritto:

Noi siamo, dopo tutto, un popolo molto sedentario, lo siamo anche più di altri popoli europei (tedeschi o francesi) che corrono a destra e a sinistra, se non altro perché hanno le automobili e non hanno frontiere che siano vere frontiere. Per noi un appartamento è a vita, la città è a vita, il Paese è a vita. Perciò i concetti di residenza e di permanenza sono più forti; e così il senso di perdita. Eppure una nazione che in mezzo secolo ha perduto quasi sessanta milioni di anime sacrificandole al suo Stato carnivoro […] era sicuramente in grado di intensificare in sé il senso della stabilità. Se non altro perché quelle perdite furono sostenute per la causa dello status quo.

I russi incarnano dunque una drammatica propensione alla stabilità. Di cui lo Stato approfitta per perseguire i suoi fini e preservare sé stesso. Secondo la logica conservatrice, attraverso questa interiorizzata capacità russa di “trattenimento” dello status quo, Mosca non difenderebbe peraltro solo sé stessa (e il suo sistema) da una minaccia occidentale che la pone sotto attacco ma proteggerebbe anche, ancora una volta, la cultura europea autentica, i veri valori cristiani, l’anima spirituale del Vecchio continente cui gli europei stessi avrebbero voltato le spalle.

[La Chiesa ortodossa] – ha osservato John Burgess – è arrivata alla seguente conclusione: poiché la Russia, spesso a dispetto di sé stessa, ha preservato l’ortodossia nel tempo, la nazione e la sua Chiesa hanno ora una responsabilità speciale, dimostrare cosa è buono e vero non solo per i russi ma per l’umanità intera. La grandezza della Russia sta nel tutelare questa visione di paradiso in terra e nell’offrirla al mondo.

Di fronte all’invocazione di questa responsabilità universale, il nemico del Kathékon e dell’ordine costituito non sarebbe allora l’Occidente in sé, ma la sua degenerazione postmoderna. La vera dialettica contemporanea – ha sottolineato Natal’ja Naroˇcnickaja, membro dell’Izbosrkij Club – andrebbe pertanto riassunta in questi termini: “Europa conservatrice versus Europa postmoderna e la Russia è dalla parte dell’Europa conservatrice”. Sebbene Putin non si sia mai schierato in modo così netto e non abbia mai usato esplicitamente il concetto di Kathéchon, la sua narrativa pubblica ne è pervasa. Basti ricordare il discorso di Monaco del 2007, l’intervento presso il Club Valdaj del 2013 o le parole usate in occasione dell’annessione della Crimea nel 2014. Basti pensare alla sua posizione sulle “rivoluzioni colorate” o sulle “Primavere arabe”. Tutti esempi dai quali emerge la consapevolezza di quale sia diventata – oggi – la posta in gioco nel rapporto tra Russia e Occidente.

Non più soltanto una competizione geopolitica tra divergenti interessi nazionali, ma una battaglia metafisica tra diversi modelli di valori. Eccezionalismo americano versus Idea Russa. Cosmopolitismo europeo versus sovranismo russo. Disordine versus ordine. Cambio di regime versus status quo. Anomia versus Kathéchon. Una battaglia che implica anche una crescente politicizzazione della dimensione religiosa, nel caso della Russia dell’ortodossia, attraverso un’alleanza sempre più stretta tra “spada” e “altare”.

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Da La Russia eterna. Origini e costruzione dell’ideologia post sovietica di Luca Gori. In alto, immagine di Pieter BruegelThe Fall of the Rebel Angels

Luca Gori

Luca Gori è un diplomatico italiano, ha prestato servizio nelle Ambasciate d’Italia a Mosca, Washington e nella Rappresentanza Permanente italiana presso l’Unione europea a Bruxelles. È autore di vari saggi di politica internazionale, tra i quali Il russo del diplomatico (Studio Editoriale Gordini, 2007), L’Unione europea e i Balcani occidentali (Rubbettino, 2007), L’America allo specchio (Aracne, 2015), L’interesse nazionale: la bussola dell’Italia, con Alessandro Aresu (Il Mulino, 2018).