Ma che cosa sono gli Iposoggetti? In Iposoggetti. Sul divenire umani Timothy Morton e Dominic Boyer sostengono che gli iposoggetti sono le specie native dell’Antropocene. Sono plurali, sono il non ancora, il né qui né lì. Non cercano né pretendono una conoscenza, un linguaggio e men che meno una forma di potere che siano assoluti. Si accontentano di giocare, di prendersi cura, di adattarsi, di farsi male, di ridere. Gli iposoggetti sono intrinsecamente femministi, antirazzisti, colorati, queer, ecologici, transumani e interumani. Gli iposoggetti sono come squatter che occupano e abitano le crepe e le cavità. Gli iposoggetti fanno la rivoluzione nei luoghi in cui il radar della tecnomodernità non è in grado di scorgerli.

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Quali sono gli esseri che possiamo considerare iposoggetti? Abbiamo parlato abbondantemente di esseri umani, ma che dire di altri tipi di esseri? Qualche detrattore potrebbe dire: “Oh, guarda come sono antropocentrici, anche quando cercano di intervenire sull’Antropocene. Uno di loro è persino un antropologo!”. Quanti “antropo-” in una sola frase!

Siamo più o meno in questa situazione. Forse potrebbe essere un buon momento per ampliare l’oggetto della nostra conversazione. Il concetto di iposoggetto è abbastanza robusto da includere il non umano? Deve necessariamente includere il non umano? La parola “robusto” è proprio quella giusta. Ciò che mi piace della nozione di iposoggetto è che sembra essere sottrattiva. Si tolgono alcune caratteristiche del soggetto, permettendogli così di percolare in domini che normalmente nemmeno contempliamo. Se ci permette di fare questa distinzione, è perché non è un atteggiamento eliminativista, ma sottrattivo. Non stiamo dicendo: “Siamo fatti tutti di atomi, ecco perché siamo tutti parimenti importanti”.

Stiamo affermando che c’è qualcosa nella qualità ipo- dell’iposoggetto che permette a tale concetto di essere esportato in domini categoriali che normalmente non associamo alla soggettività. In un certo senso, si tratta di un concetto “debole”. Non che non sia valido, ma è un concetto di soggetto molto deformato. O forse è solo un concetto selvatico. Non vogliamo iper-addomesticarlo troppo, iper-razionalizzarlo, proprio perché non è questo il punto di tutto il discorso fatto finora.

Il concetto di multispecie gioca un ruolo molto importante nell’intera ecologia del pensiero contemporaneo. Aspira, credo in modo persuasivo, a un progetto che, finalmente, spacca davvero, cerca rifugio dall’impero del privilegio nordoccidentale mettendo in discussione il vertice su cui quel tipo di umanità ha costruito la sua Umanità, con la U maiuscola.

Lo fa iniziando a pensare alle relazioni tra specie e alle responsabilità che abbiamo gli uni verso gli altri, alle reciproche concessioni di potere. Donna Haraway è una pensatrice davvero importante e, nonostante sia molto conosciuta, per qualche motivo non riceve mai il riconoscimento che merita. Per Primate Visions, che ha instradato intellettualmente Latour, ma anche per Modest_Witness, una dichiarazione così potente sul massiccio impiego di lavoro non umano necessario a creare il mondo fluttuante della modernità in cui l’umanità vuole vivere. Tutti quei test, tutta quella sperimentazione, tutto quel lavoro muscolare.

A questo si aggiunge la fotosintesi, che rende l’energia solare utilizzabile dagli esseri non fotosintetici. Nulla esisterebbe senza i fotosintetizzatori. Mi piace molto il saggio di OncoMouse. Si potrebbe sostenere che una sorta di modalità agricola occidentale, che rimane uno dei nostri grandi problemi, costituisca una specie di dispositivo, un regime di paraconoscenza. È un elefante nella stanza che risucchia nella sua orbita altri esseri e, letteralmente, si libera di essi.

Mi sembra che il progetto sia quello di pensare a un modo per strisciare al di sotto di esso piuttosto che trascenderlo, perché la trascendenza è proprio la modalità operativa dell’agricoltura.

[…] Non voglio ripetermi, ma è proprio questo il mio problema con ciò che ha fatto il talentuoso Christopher Nolan in Interstellar. Si tratta proprio di trascendenza. È quello che accade quando si parla con persone che lavorano nell’industria del petrolio e del gas, qui a Houston: credono che, grazie alla tecnologia, si sia fatto un magico balzo in avanti rispetto allo stoccaggio del carbonio così che possiamo continuare pompare tutto il petrolio che vogliamo vivendo ancora in ambienti puliti e sostenibili e tutto – o almeno tutto ciò che ci interessa – andrà bene. È una fantasia potente e seducente allo stesso tempo.

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Il punto è che, se anche fosse vero, sarebbe comunque arrivato il momento di pensare diversamente. Anche se fosse vero che premendo un pulsante tutti i nostri problemi sparirebbero in modo ecologico, vorremmo vivere in un mondo in cui il pulsante è premuto da un’enorme azienda petrolifera coordinata ancora da questo dispositivo epistemico?

E naturalmente il “noi”, nella frase pronunciata dal maschio bianco del petrolio, è “noi esseri umani”. Non tiene conto delle altre specie. Perciò – scusami, sto andando un po’ per la tangente – quando si parla dell’importanza della rivoluzione agricola, dell’agrilogistica, si parla proprio dell’organizzazione di altre forme di vita al servizio dell’umano? È questo il tema che si vuole mettere a fuoco? Sviluppiamo la piantagione perenne del mais per renderlo produttivo in maniera duratura per la vita umana e per permetterci di rimanere in un luogo. Così, il resto è organizzato come lavoro e cibo a nostra disposizione.

[…] Potremmo invece metterci alla ricerca di un atteggiamento opposto al padroneggiare la trascendenza, capire se non si tratti semplicemente di essere un componente di una macchina che non si può cambiare. Mi piace questa mossa. Si potrebbe sostenere che, piuttosto che trascendere, potremmo lasciar spazio a una maggiore suscettibilità? Questa è una cosa a cui continuo a pensare. Che forse l’opposto sarebbe diventare più suscettibile a una più grande varietà di cose che non sei tu, la maggior parte delle quali non sono umane – incluso, in una certa misura, il tuo stesso corpo.

 

Da questo punto di vista, la specie umana, in un certo senso, non è umana: ricordiamoci dei nostri batteri intestinali e di altri microbi, microrganismi che abitano il nostro corpo in proporzione 10 a 1 rispetto alle nostre cellule umane.

Sono piccoli, ma sono pur sempre agenti. Penso che quello che stai dicendo sia che dobbiamo prestare attenzione al fatto che siamo suscettibili e interconnessi con altri esseri. E che nell’Antropocene, con i suoi incombenti iperoggetti, sperimentiamo nuovi tipi di suscettibilità ma scopriamo anche nuove potenziali alleanze. Per esempio, tra il bestiame che muore nei genocidi dei macelli industriali e gli esseri umani le cui case sono sommerse dall’innalzamento dell’acqua del mare e che diventano dei rifugiati. Entrambe sono forme di vita che si stanno estinguendo a causa di processi interconnessi e hanno interessi comuni che raramente sono identificati in quanto tali.

Dunque, c’è interrelazione e suscettibilità. E poi, a un livello più politico, ci sono le alleanze. Rendendoti conto che non puoi fare a meno dei tuoi batteri intestinali, potresti diventare fenomenologicamente suscettibile nei loro confronti, il che eroderebbe la tua percezione di essere speciale, un padrone. La cosa ti incoraggerebbe a formare un’alleanza: è questa la direzione politica che sentiamo nell’aria.

L’altro grande tema è quello del riconoscimento, nel senso di Haraway: abbiamo bisogno di riconoscere e recuperare l’enorme quantità di lavoro non umano e umano necessario a costituire la Modernità. Quel lavoro è stato completamente messo a tacere e segregato dietro muri istituzionali. Non visto, impensato. Sentiamo parlare solo dell’invenzione umana, del genio e delle scoperte. E si tratta di nuovo di trascendenza. Non sentiamo mai parlare di tutta la vita orchestrata affinché questo accadesse.

E perché mai non dovrebbero essere gli umani a guidare le cose? Ovviamente, siamo la classe di esseri più intelligente che ci sia, la più potente, l’eletta. E allora questa idea per cui siamo solidali perché siamo tutti vivi potrebbe essere il peggior tipo di pseudoalleanza che si possa immaginare. Non è affatto un’alleanza, vero? Perché un’alleanza è necessariamente finita. Questa idea, questo appello a un concetto-ombrello universale, completo… la vita: è proprio questo il problema. Qualche giorno fa pensavo a tutto ciò in termini di diritti, e non perché credo che una campagna per il diritto degli scimpanzé ad abbandonare lo zoo non sia giustificata. Ma perché ritengo che, se si applicano i diritti in modo generoso, benevolo, antropocentrico, a tutte le forme di vita, allora cesseranno di avere significato. I diritti dipendono dall’esclusione, perché i diritti dipendono dalla nozione di possesso e di proprietà, per di più di proprietà privata.

[…] Bisogna considerare le alleanze necessariamente fragili, transitorie e talvolta violente. Se decidi di non volere il virus dell’Aids, ti alleerai con dell’Azt. Vorrai l’Azt come attore nella tua rete, per usare il lessico di Latour. Questo è un buon argomento. C’è una visione rosea per cui tutte le piccole creature del mondo possono unirsi per i loro interessi comuni e sconfiggere gli iperoggetti e gli ipersoggetti. Da un punto di vista politico la cosa mi convince, ma da un punto di vista analitico non basta.

In alto, immagine di Emmanuel Lafont.

Timothy Morton; Dominic Boyer

Timothy Morton è Rita Shea Guffey Chair in English alla Rice University. Ha scritto numerosi libri, tra i quali sono apparsi in italiano Iperoggetti (2018), Noi, esseri ecologici (2018) e Come un’ombra dal futuro (2019). Tra i suoi numerosi progetti, ha collaborato con artisti come Laurie Anderson, Björk e Pharrell Williams, ha scritto il libretto dell’opera Time Time Time di Jennifer Walshe e partecipato a Living in the Future’s Past, il documentario sul riscaldamento globale con Jeff Bridges