Proponiamo un estratto da Io Tiranno dello scrittore e filosofo Éric Sadin. Proteste, manifestazioni, sommosse, scioperi, rifiuto dell’autorità e sfiducia massima nelle istituzioni: negli ultimi anni, in Europa, la rabbia sociale è cresciuta sempre di più, fino a diventare il tratto caratteristico del nostro tempo. Le ragioni sono ben note: l’aggravarsi delle disuguaglianze, il deterioramento delle condizioni di lavoro, il declino dei servizi pubblici. Ma la violenza con cui tutto ciò si sta manifestando è senza precedenti perché per la prima volta espressa da un soggetto nuovo: l’individuo tiranno.

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Per cogliere alcune evoluzioni delle mentalità̀ a volte può̀ essere opportuno osservare certi segnali non verbali che, se da un lato hanno il difetto di dare luogo a interpretazioni equivoche, dall’altro, per chi è in grado di prestarvi la dovuta attenzione, possono rivelarsi molto eloquenti. Verso l’inizio degli anni Novanta le strade si sono riempite di corpi dalle posture inedite, diverse le une dalle altre, ma caratterizzate da espressioni – o assenza di espressioni – che sembravano appartenere a un registro abbastanza simile. Questi nuovi atteggiamenti erano tutti contraddistinti da sguardi sfuggenti, schiene curve, teste basse, posizioni erette che osservavano di traverso e con distacco i flussi solitamente allineati dei pedoni. Ad accompagnare o a dare maggiore consistenza a queste pose c’era sempre lei: la felpa col cappuccio. La sua generosa e penzolante massa di tessuto veniva utilizzata per coprirsi il capo e il volto, in parte se non del tutto. Ma, nonostante le apparenze, non si trattava affatto di manifestazioni di aggressività̀, quanto piuttosto della volontà̀ di non adeguarsi al rigore di strade e viali, di non allinearsi ad andature che, in modo tanto determinato quanto fiacco, sembravano andare quasi meccanicamente da un punto a un altro, e di affermare una distanza con il passo maggioritario della città.

Forse, più̀ che la prova di un sentimento contenuto di ribellione, tali condotte sono la testimonianza di qualcosa di più̀ impalpabile, che a volte può̀ persino generare vergogna: l’inadeguatezza nei confronti di un ordine generale delle cose.

Con l’andare del tempo era sempre più̀ evidente che l’atmosfera si stava irrigidendo, che le mimiche si facevano più contratte e che un astio diffuso andava via via, e come ineluttabilmente, diffondendosi. Le risse diventavano sempre più frequenti, ma ciò che più le caratterizzava era che, nonostante vedessero scontrarsi le persone, sembravano evacuare una rabbia che, in fin dei conti, aveva ragioni ben più ampie: era un rancore provato nei confronti dell’intera società. Forse la causa era da ricercarsi nelle tante difficoltà incontrate da molti, nei continui fallimenti, nell’inasprimento delle disuguaglianze, nel fatto di essere cresciuti in ambienti familiari complicati ed essere vittime di svogliatezza e rinunce.

Tutti motivi che non facevano che scatenare focolai continui di risentimento nei confronti del mondo, fomentati da una rabbia difficilmente contenuta e percepita come sconcertante, imprigionante e schiacciante.

Verso i primi anni 2010 questi atteggiamenti sembravano essersi diffusi al punto da diventare una prerogativa di qualsiasi individuo incrociato sul proprio cammino. L’odio si manifestava attraverso gli sguardi impassibili, le espressioni di freddezza o diffidenza, i corpi impacciati perché́ incapaci di scendere a patti con la presenza dell’altro. Il ripiegamento, più̀ o meno rivendicato, su sé stessi diventava la nuova norma comportamentale. Queste pose erano particolarmente favorite dalla consulta- zione compulsiva e ininterrotta degli smartphone per strada. E così, anziché́ prestare attenzione agli altri com’era normale fare negli spazi pubblici, a poco a poco ci si è cominciati a scontrare, sia fisicamente sia verbalmente, a riprova dell’irruzione di un’inciviltà̀ dilagante e dall’aspetto inedito. Le difficoltà, le incertezze, le angosce proprie dell’epoca sembravano avere come effetto singolare quello di ripercuotersi sui comportamenti degli individui, i quali evolvevano in una sorta di “isolamento collettivo” e ogni tanto si rivoltavano, quasi senza ragione, gli uni contro gli altri.

Questo stato di crescente impotenza, che in molti sentivano di subire, veniva al contempo contraddetto dall’uso delle tecnologie personali, che consentivano un rapporto individuale e diretto con l’informazione, la costruzione delle proprie narrazioni, la libera espressione di sé e un’esperienza facilitata del quotidiano. Questi strumenti davano a chiunque la sensazione di sentirsi più̀ attivo e poter riconquistare quel margine di potere che era stato indebitamente ridotto. Tale condizione avrebbe favorito – forse ce ne rendiamo conto solo oggi – la costituzione di un immaginario che si sarebbe nutrito dell’illusione dell’autosufficienza. Forse è con questo parametro che ora bisogna comprendere la nozione di virtuale, inteso come il perno di una costruzione psicologica che, oltre a sentirsi in grado di tenere a bada la violenza del mondo, ora è convinta di essere perfettamente equipaggiata per garantire un migliore funzionamento della vita. Ethos che non può̀ che condurre a un distanziamento tra l’insieme comune e sé stessi, in quanto appartenente per un certo verso a una sfera personale, protetta e situata in disparte, che comporta l’esperienza più̀ o meno viva di una scissione vissuta soggettivamente – ma condivisa su vasta scala – e di cui, oggi come oggi, possiamo cogliere soltanto i primi segnali.

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Il rapporto con la società̀ si trova quindi a essere ridefinito: ci si sente meno coinvolti e meno vincolati. Molti si sono resi conto che, sin dall’epoca dei nostri nonni, ci ingannano con sistemi che ci danno a bere di non essere più̀ degli zimbelli; e quando è così, è impossibile non pensare che tutto ciò che appartiene a un quadro normativo impersonale continuerà̀ a lederci, e che quindi è meglio non aderirvi più̀.

Assistiamo alla realizzazione della tesi sostenuta da Max Stirner in L’Unico e la sua proprietà secondo cui la persona “ha nulla al di sopra di sé”, o più esattamente quello che ora conterebbe più di qualsiasi altra cosa è la determinazione a condurre la propria esistenza solo e soltanto seguendo i propri credo.

Tale configurazione costituisce la leva di quella che potrebbe essere definita la svolta implosiva, ossia il divorzio massiccio tra gli individui e l’ordinamento collettivo, e la comparsa di fratture soggettive che incrinano la base comune. E così a trovarsi escluso dal campo dell’attenzione o a essere risolutamente rifiutato è tutto ciò che struttura la vita socia- le (codici, regole, usi, obblighi e divieti). Automaticamente si sgretola una dimensione fondamentale: il principio di autorità̀. Ossia il fatto di riconoscere a certe istituzioni la prerogativa di garantire la coesione della comunità̀ politica, e a molte persone competenze specifiche che permettono a ognuno, in varie occasioni, di evolvere appoggiandosi a qualcuno con competenze maggiori.

Dato che ognuno ormai percepisce sé stesso come affrancato dallo stato di ingenuità̀ passiva che caratterizzava le generazioni precedenti, e dato che, nella maggior parte dei casi, si ha la sensazione che i rappresentanti abusino del loro potere, si sta via via diffondendo un crescente rifiuto nei confronti dell’autorità. Tali posture prendono, per esempio, la forma di una messa in discussione della parola dei professori, in ragione sia della posizione “ufficiale” che questi incarnano, sia della convinzione diffusa di essere ormai informati riguardo tante cose, una convinzione che lascia supporre che sia diventato possibile e normale stabilire con loro rapporti di uguaglianza, se non addirittura di concorrenza. È il caso, peraltro, del rapporto con i medici, che si vede ridefinito da pazienti convinti di essere talmente tanto esperti da poter contestare le dia- gnosi che gli vengono proposte. O degli insulti scagliati senza timore contro le forze dell’ordine, o della decisione di filmarle quando si reputa stia- no adottando comportamenti inappropriati, con l’obiettivo di diffondere le immagini in rete e dare così l’impressione di non essere più vittime impotenti di situazioni ingiuste. Basti pensare al video dello strangolamento e della morte di George Floyd, diffuso nel maggio del 2020, che ha per- messo di portare alla luce i fatti. In teoria ogni rango fondato su un ascendente simbolico è ormai suscettibile di essere delegittimato da folle di individui che ormai considerano qualsiasi istanza di potere relativa e responsabile del mantenimento di un ordine giudicato iniquo.

In realtà̀, a quanto pare, a essere stati screditati sono certi assiomi fondamentali che, fino a poco tempo fa, determinavano una convivenza efficace. Essi fungevano in un certo senso da aevum che, secondo lo storico medievalista Ernst Kantorowicz, designa ciò che, in modo alquanto impalpabile, supera la nostra comprensione e permette di istituire una saltuaria unità tra l’insieme dei membri del tessuto sociale. Questa dimensione impalpabile è, in prima istanza, la fiducia accordata alle istituzioni – considerate garanti di alcuni precetti considerati essenziali – e alle varie forme di impegno che ci legano gli uni agli altri. Questa nozione di fiducia era stata assunta come oggetto di studio da Georg Simmel, il quale era giunto alla conclusione che “senza la fiducia reciproca tra gli uomini la società tutta si dislocherebbe – sono infatti rare le relazioni unicamente fondate su quello che si sa in modo dimostrabile così come sono rare le relazioni che durerebbero, fosse anche poco, se la fede non fosse così forte, a volte anche più forte delle prove e dell’evidenza stessa”.

Ebbene, in una società̀ la fiducia dipende da due fattori essenziali. In primo luogo, dalla promessa morale, tacitamente garantita dal potere politico, di non violare i termini del patto sociale e di adoperarsi per ottenere le condizioni più eque della sua realizzazione. In secondo luogo, dal fatto che ognuno riconosca i propri limiti e, di conseguenza, conceda a tutta una serie di individui e istanze la prerogativa di costituirsi come complementi indispensabili alla nostra persona, suscettibili di venirci in aiuto o elevarci. A cedere oggi sono esattamente queste due leve. Innanzitutto, a causa della sensazione, sempre più diffusa, di essere stati traditi da un potere pubblico che, a poco a poco, si è distolto dal suo dovere principale, ossia quello di puntare al bene comune. In secondo luogo, per via dell’uso generalizzato delle tecnologie personali che ci fan- no credere di avere meno bisogno degli altri nel corso della vita di tutti i giorni.

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Da Io Tiranno di Eric Sadin. In alto, immagine di REUTERS/Stephane Mahe. 

Éric Sadin

scrittore e filosofo, è considerato tra i maggiori e più sensibili critici della rivoluzione digitale. È autore di numerosi libri sugli effetti nascosti dello sviluppo tecnologico, tra cui La siliconizzazione del mondo e, per Luiss University Press, Critica della ragione artificiale. Una difesa dell'umanità (2019) e Io Tiranno. La società digitale e la fine del mondo comune (2022).