Proponiamo un estratto del volume Lo Stato sociale. Storia, politica, economia di Francesco Farina. In questo lavoro, sviluppatosi nell’arco di oltre un decennio, Farina che propone l’uguaglianza delle opportunità come stella polare della rinascita di politiche sociali volte alla protezione dei cittadini e alle loro condizioni di vita, ponendo potenziamento dei servizi pubblici, della sanità e dell’istruzione, tutela del pianeta e rafforzamento del welfare come precondizioni essenziali per una crescita stabile e equa. 

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L’emersione dell’individualismo come carattere dominante del comportamento economico e sociale ebbe i suoi prodromi nella nascita negli Stati Uniti della società dei consumi di massa descritta da Thorstein Veblen (1899) nella sua Teoria della classe agiata. La spinta al soddisfacimento dei bisogni individuali si sviluppò poi in Europa in concomitanza con il solidarismo delle coalizioni maggioritarie favorevoli alle politiche ridistributive, che contribuì a far raggiungere il benessere economico a fasce sempre più ampie della popolazione. L’individualismo, l’espansione degli spazi di espressione delle persone, va salutato come una conquista dell’umanità. Non altrettanto commendevole è l’interpretazione che dell’individualismo dà l’ideologia neoliberista.

Il liberalismo nacque nei secoli XVII e XVIII, nella società dell’economia mercantile e dell’aristocrazia al potere, con lo scopo di assicurare all’individuo il riconoscimento dei propri diritti. Nello scenario affatto mutato dell’odierno neoliberismo, il riconoscimento dei diritti sembra circoscritto ai soggetti con maggiore potere sociale. Il primato del soggetto può tuttavia essere declinato in vari modi. Alla base dell’“individualismo etico” di Amartya Sen c’è il concetto aristotelico di eudaimonia. Secondo Aristotele, l’essere in compagnia di un “buon demone” (eudaimonia è la sintesi di eu, bene, e daimon, demone) è uno stato d’animo legato al condurre un’esistenza rivolta al corretto perseguimento del proprio progetto di vita. Per mettere in grado i soggetti di realizzare sé stessi, è tuttavia indispensabile un contesto istituzionale politico ed economico orientato all’empowerment (Deneulin, Shahani, 2009).

Il neoliberismo propone invece la subordinazione della società al mercato.

L’individualismo prende lì le vesti della autoselezione dei più “forti” per reddito e per status sociale per porsi al comando del sistema capitalistico. L’ipotesi implicita è che sarà la logica del mercato a permettere l’“inclusione” nella società dei gruppi sociali “subalterni”. C’è tuttavia una condizione sottaciuta. Si vuole che l’“inclusione” passi attraverso la responsabilità individuale di seguire le regole di un mercato in cui il lavoro è esposto ai rischi della globalizzazione, di un progresso tecnico guidato dal movente del profitto, e dove su due capisaldi della dignità della persona come salute e istruzione pende la minaccia della ri-commodification, il ritorno alla dimensione di beni sottoposti alla logica del profitto. Le innovazioni scientifiche tendono ad avere un impatto ambivalente.

Le nuove tecnologie rappresentano uno stimolo per le imprese a partecipare alle “catene globali del valore”, spingendole così a disgregare l’organizzazione degli stadi produttivi. All’indomani di una crisi, a causa della più ridotta creazione di posti di lavoro, il lavoratore licenziato ha difficoltà a trovare una nuova occupazione, mentre l’espansione delle piattaforme digitali offre al lavoratore autonomo la possibilità di ottenere posizioni lavorative in prevalenza a tempo determinato o precarie. Di tutto ciò era ben consapevole Ken Arrow, il quale così commentò ciò che si vociferava durante la Grande depressione: “l’idea che la disoccupazione fosse colpa dei disoccupati – fossero o meno pigri oppure incompetenti – mi colpì per quanto era ridicola. Mi dispiace dover dire che questo concetto viene riproposto” (Arrow, 1978, p. 472).

In una fase storica caratterizzata da una crescente “interdipendenza sistemica”, l’attuale “forma del gioco”, basata sulla ricerca del profitto nel breve periodo, non sembra in grado di governare il nesso fra mercato e società. Il primato dell’individuo può conciliarsi con i bisogni della società soltanto attraverso un’evoluzione della “forma del gioco” del capitalismo verso la democrazia economica. Lo ha chiarito bene Joe Stiglitz: “Se vi sono ampie discrepanze fra il rendimento sociale – il beneficio per la società – e il rendimento privato – il beneficio per una persona o per un’impresa –, i mercati da soli non possono svolgere il lavoro (di produrre un risultato economico efficiente)” (Stiglitz, 2019, p. XXIII).

Una nuova “forma del gioco” del capitalismo non può quindi prescindere dallo Stato sociale.Per il loro orientamento a offrire tutela a tutti i gruppi sociali, i principali sistemi di Welfare vengono raccolti sotto il nome di “universalismo”.

A questo termine si associano varie declinazioni del Welfare (Bergh, 2004). In letteratura, con l’espressione “universalismo finalizzato” (targeted universalism) si suole fare riferimento all’orientamento delle istituzioni di Welfare ai bisogni di uno specifico gruppo sociale individuato in base alla sola variabile reddito (ad esempio, coloro che alla “verifica dei mezzi” risultano poveri). A questa logica economica, anche detta dell’universalismo “selettivo”, si ispirano oggi molti sistemi di protezione sociale. Tale concezione del Welfare si inquadra nell’orientamento teorico intellettualmente subalterno al modello comportamentale ipostatizzato dalla teoria economica ortodossa, secondo il quale allo Stato sociale andrebbero assegnati gli obiettivi dell’efficienza e del contrasto dell’“azzardo morale”.

Compito dello Stato sociale non deve essere semplicemente quello di compensare con dei sussidi i “perdenti” dell’equilibrio economico sociale dell’austerità. Limitare l’intervento pubblico al sussidio non fa che “ratificare” la posizione di debolezza nel mercato dei lavoratori dotati di basse skills a causa di un background familiare e sociale “svantaggiato”. L’intervento pubblico deve porsi, come suo principale compito, il potenziamento delle opportunità dei giovani “svantaggiati”, per “metterli in grado” (enabling) di possedere qualificazione e competenze adeguate per rafforzare la propria partecipazione al mercato del lavoro e alla società. Il principio dell’universalismo rappresenta il criterio in base al quale è di norma organizzato lo Stato sociale. Tale principio sancisce l’eguale diritto ai benefici di Welfare, riflettendo in tal modo l’appartenenza di tutti i cittadini alla collettività.

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Nella realtà, tuttavia, questo principio risulta spesso disatteso. Ad esempio, è stato documentato che nell’Unione europea due soggetti che hanno guadagnato un eguale reddito nel mercato, e quindi sono di norma sottoposti dal Welfare allo stesso trattamento, spesso conseguano livelli differenti di benessere (Fusco et al., 2010). Fra le possibili cause di tale risultato, vanno annoverate le circostanze di “svantaggio” nella lotteria della vita”, il “campo di gioco inclinato” sul quale si svolge il “gioco del mercato”, l’assenza di equità nell’accesso a trasferimenti e servizi in-kind pubblici, e così via. Non è difficile comprendere perché a eguale reddito finisca per corrispondere diseguale livello di benessere. A ben guardare, infatti, l’universalismo non fornisce un criterio sufficiente affinché vengano riconosciuti a tutti eguali diritti. Per conseguire tale obiettivo, nella società deve realizzarsi l’imparziale accesso alle opportunità: “ciò che l’imparzialità sembra richiedere non è che ciascuno riceva un eguale trattamento, ma piuttosto che ciascuno sia trattato come un eguale” (Dworkin 1977, p. 227). Come si approfondirà nel prosieguo, il concetto dell’“universalismo differenziato” è in grado di garantirlo:

soggetti diseguali per “circostanze” – in primis, la ricchezza, il reddito e la cultura dei genitori – devono ricevere un trattamento diseguale, con l’obiettivo di ridurre il loro “svantaggio” nelle varie dimensioni del benessere.

Realizzare il principio dell’eguaglianza come “imparzialità nell’accesso alle opportunità” richiede tuttavia una valutazione comparata fra gli insiemi di opportunità delle persone, che è resa complicata dall’eterogeneità fra i loro bisogni (Farina et al., 2004). Si può pensare, per ciascuna dimensione, a una soglia standard di benessere a livello nazionale, che tutti devono progressivamente essere messi nelle condizioni di raggiungere. Tanto più un soggetto è lontano dallo standard di una specifica dimensione, tanto più dovrà avere la priorità nell’ottenere i benefici di Welfare necessari alla convergenza verso lo standard.

Conclusioni

Gli ultimi quarant’anni hanno visto l’“adattamento” della società al mercato. Le forme di aggregazione degli interessi e di convergenza verso le norme sociali della democrazia economica, che portarono all’equilibrio economico-sociale dei Trente Glorieuses, hanno abbandonato la scena. Il neoliberismo è riuscito a spostare la distribuzione funzionale del reddito nella direzione dell’innalzamento della quota del profitto (Palley, 2018). Se al declino della quota del salario sul reddito non corrisponde anche un aumento della diseguaglianza salariale, è solo perché la porzione “bassa” della distribuzione dei salari scompare a causa dell’incremento della disoccupazione, con conseguente maggiore concentrazione salariale (Farina, 2007). Ci troviamo nel mezzo di un guado. L’asimmetria di potere che caratterizza il capitalismo allontana sempre più il mercato dalla società, creando una crescente contraddizione fra economia globalizzata e società frammentata. È impressione diffusa che l’ideologia del mondo dei “liberi e uguali” del contrattualismo e del modello dell’EEG – che ha trovato espressione nell’equilibro economico- sociale dell’austerità – finisca per “annullare ogni presunzione di armonia fra l’interesse individuale e l’interesse collettivo” (Frank, 2011, p. 11).

Le élite neoliberiste potrebbero però avere fatto un errore di valutazione: ritenere che la crisi delle ideologie, la dissoluzione dei partiti e la irrilevanza dei sindacati abbiano definitivamente sancito l’espansione degli spazi del mercato a scapito delle politiche pubbliche. Un indizio in tal senso è la diffusione a macchia d’olio del populismo in Europa. Il populismo nasce dall’acquiescenza dimostrata dalle classi dirigenti all’austerità sostenuta dal neoliberismo. Se gli effetti di una concezione di politica economica non sono quelli attesi, c’è qualcosa di sbagliato nell’approccio degli attori dell’economia o delle rappresentanze politiche, o di entrambi. L’economia e le altre scienze sociali hanno manifestato una buona dose di pigrizia nel prendere consapevolezza del crescente distacco del funzionamento del mercato dai bisogni della società. Ci ha pensato ancora Joe Stiglitz, con parole sferzanti, a ricordarlo: “Per quarant’anni, le élite dei Paesi ricchi e dei Paesi poveri hanno promesso che le politiche neoliberiste avrebbero condotto a una crescita più veloce, e che i suoi benefici sarebbero sgocciolati giù, così che tutti, i poveri inclusi, avrebbero goduto di un maggiore benessere. Ora che abbiamo avuto esperienza di cosa è accaduto, possiamo forse meravigliarci del fatto che la fiducia nelle élite sia crollata? […] Il simultaneo dissolversi della fiducia nel neoliberismo e nella democrazia non è una pura coincidenza o una semplice correlazione. Il neoliberismo ha minato la democrazia per quarant’anni” (Stiglitz, 2019b).

I due registri da cui siamo partiti – mercato e società – essendo formati dallo stesso mare, sono obbligati ad andare d’accordo. L’individualismo, l’approdo di secoli di emancipazione del soggetto, è pienamente compatibile con l’evolvere di norme sociali ispirate alla reciprocità e alla solidarietà. Se tuttavia lo Stato sociale non riconquisterà una posizione centrale, le diseguaglianze permarranno e il benessere continuerà a non essere condiviso. L’odierna elevata diseguaglianza va contrastata nel momento della formazione del reddito nel mercato, prima ancora che con l’operare del meccanismo di tasse e trasferimenti. Per riprendere il cammino verso la democrazia economica occorre una collaborazione fra l’intervento pubblico e il sistema economico privato nei progetti di investimento il cui rendimento può manifestarsi solo nel lungo termine. La ricerca economica più attenta e rigorosa suggerisce che la crescita economica è molto influenzata dall’eguale accesso dei giovani alle opportunità di formazione. Affinché un’economia di mercato cresca la diseguaglianza di reddito non può essere “alta” (OECD, 2015; Furceri et al., 2016).

Lo Stato sociale può tornare a essere il Canale di Panama che mette in comunicazione il mercato con la società.

Nella società dell’“interdipendenza sistemica”, tutti devono essere posti sullo stesso piano nel perseguimento del benessere, quale che sia la ricchezza, il reddito e lo status sociale. Le istituzioni del capitalismo andranno reindirizzate verso la coesione sociale. La strada possibile è un passaggio dall’“adattamento” della società al mercato a programmi di Welfare rivolti all’“attivazione” (empowerment) delle persone nella realizzazione del proprio progetto di vita. Questo studio prende prevalentemente in esame lo Stato sociale dei Paesi europei e degli Stati Uniti. Il Welfare delle altre nazioni OECD è oggetto di numerosi riferimenti, prevalentemente di ordine statistico, riguardanti i Paesi dell’America Latina. L’estensione dell’analisi alle istituzioni di Welfare di Australia e Nuova Zelanda e delle nazioni più avanzate dell’Asia (Giappone, Sud Corea), data la distanza culturale che separa questi Paesi dall’Occidente, avrebbe richiesto una conoscenza della storia di questi Paesi molto superiore alla mia.

Il volume consta di tre parti. La Parte prima ripercorre il lungo cammino dall’intervento pubblico di protezione sociale in Occidente. Per secoli la povertà era stata considerata una sciagura inevitabile, o addirittura necessaria. Nel Settecento la povertà e l’esclusione sociale cominciarono a essere meno episodicamente contrastate; ma il loro contrasto era soprattutto motivato dal desiderio di rendere le città più sicure. Seguirono i primi programmi di Welfare a fine Ottocento, l’introduzione della “progressività” nei sistemi fiscali a inizio Novecento. Il New Deal, i programmi di intervento pubblico varati negli Stati Uniti dal presidente F.D. Roosevelt durante la Grande depressione, non si esaurì nell’intervento fiscale anticiclico, ma tese anche a rafforzare le istituzioni di Welfare. Nell’Europa occidentale, il secondo dopoguerra vide poi la costruzione di organici sistemi di Stato sociale, con l’obiettivo di ridurre le diseguaglianze e combattere la povertà.

La Parte seconda è dedicata al passaggio dall’equilibrio economico-sociale della democrazia economica all’equilibrio economico-sociale dell’austerità, ovvero dall’idea che la distanza fra mercato e società venga accorciata dalla spesa pubblica all’idea che sia piuttosto la sua restrizione a favorire l’espansione economica (expansionary austerity). A partire dagli anni Ottanta, il primato culturale conquistato dal neoliberismo e l’orientamento dell’utilizzo del progresso tecnico al profitto di breve periodo hanno inciso profondamente sulle condizioni della crescita economica e sul contrasto delle diseguaglianze da parte delle istituzioni di Welfare. Il meccanismo politico del voto che presiede alle politiche pubbliche dei governi si è modificato. All’indebolimento delle istituzioni che regolano il mercato del lavoro, e al ridimensionamento delle funzioni assicurative e ridistributive del Welfare, ha fatto seguito la nascita dei populismi.

La Parte terza esplora i problemi che i sistemi di Welfare dovranno affrontare in futuro. Mercato e società, i cui nessi lo Stato sociale è chiamato a governare, sono in profondo mutamento. Mentre la globalizzazione continua ad accrescere l’“interdipendenza sistemica” fra le persone e fra gli Stati, le società appaiono sempre più frammentate. Lo Stato sociale dovrà rafforzare non solo gli schemi di sostegno del reddito ma soprattutto l’offerta di “beni meritori”, permettendo che per i giovani con “circostanze svantaggiate” l’accesso alle opportunità si traduca in effettive “capacità”.

Da Lo Stato sociale. Storia, politica, economia di Francesco Farina (pp. 50-55). In alto, Street Fighter II: Champion Edition (1992) in Street Fighter 30th Anniversary Collection (2018) © CAPCOM Co. Ltd.

Francesco Farina

Francesco Farina è stato docente di Economia nelle Università di Napoli L’Orientale, Toronto, Perugia e per molti anni nell’Università di Siena, dove ha anche ricoperto la Jean Monnet Chair in European Macroeconomics. Ha condiviso con Tony Atkinson il corso di Labour Market e Welfare Policies nell’ambito del Master in European Studies alla Luiss, dove è stato anche docente di Economia internazionale. Dal 2014 al 2018 è stato presidente dell’Associazione italiana per lo studio dei sistemi economici comparati (AISSEC).