L’orizzonte del possibile è una sottile linea di demarcazione tra quanto può esistere e ciò che invece non si realizza. Il possibile infatti non è, non appartiene (ancora) al dominio della realtà. Tuttavia, non è del tutto corretto dire che non sia, perché non è escluso che possa divenire reale. Il discrimine è così sottile che secondo alcuni il possibile non esiste affatto. Il tema del possibile ha attraversato la storia del pensiero occidentale: perché qualcosa che può essere è? E, viceversa, perché qualcosa che potrebbe non essere, e forse sarebbe meglio che non fosse, invece è? La vertigine del possibile si è andata intrecciando nei secoli con il cristianesimo, che lo ha inserito – non senza difficoltà e passaggi complessi – in una teologia costruita secondo le categorie dell’ontologia greca. Un momento significativo si è raggiunto in età moderna con il confronto tra Spinoza, secondo cui tutto ciò che è possibile in Dio è per ciò stesso necessario, e Leibniz, il quale sostiene l’infinità dei mondi possibili nella mente di Dio. Quest’ultimo sceglie di realizzare soltanto i possibili che rispondono al suo disegno e che vanno a costituire, appunto, “il migliore dei mondi possibili”. Perché il mondo è come è, e non è diverso? Perché proprio questa alternativa è quella reale, tra tutte le altre infinite possibilità? Evidentemente, conclude Leibniz, tra tutti i mondi che avrebbero potuto essere, questo è quello che è sostenuto dalle ragioni migliori. E chi può valutarle, se non Dio, che sceglie il migliore dei mondi dopo aver contemplato tutti gli altri possibili, come se fossero dispiegati davanti a lui, sottratti al tempo e alla storia: ipotetici, certo, ma esattamente come sarebbero stati se fossero esistiti. Nei Saggi di teodicea (1710, trad. it. di M. Marilli, Bur 2013), Leibniz descrive la scelta divina con la raffigurazione del palazzo dei destini, le cui stanze rappresentano ciascuna un mondo e sono disposte in una forma piramidale, con al vertice il mondo reale e a discendere tutti gli altri mondi possibili, che si ampliano in una base infinita. In un’immagine tanto efficace quanto poetica, il palazzo appare in sogno a Teodoro, gran sacerdote del tempio di Giove: “V’era là un palazzo di indescrivibile splendore e d’immensa grandezza […]. Esso racchiude le rappresentazioni non solo di ciò che accade, ma anche di tutto ciò che è possibile. E Giove, avendole passate in rassegna prima che il mondo iniziasse a esistere, distribuì le possibilità in mondi, e scelse il migliore di tutti. Qualche volta egli viene a visitare questi luoghi, per concedersi il piacere di ricapitolare le cose e rinnovare la propria scelta, della quale non può fare a meno di compiacersi”.

L’infinità dei possibili e la loro combinazione che dà vita alla realtà (sull’arte combinatoria verte anche Il castello dei destini incrociati, romanzo del 1969 di Italo Calvino, forse non esente da un’ispirazione leibniziana) non può che destare un senso di meraviglia. Quella stessa meraviglia che è stata vista come il primo passo verso la conoscenza, l’inizio del desiderio di sapere: si veda Platone (Teeteto, 155 b): “È proprio del filosofo essere pieno di meraviglia, né altro cominciamento ha il filosofare che questo”, e anche Aristotele (Metafisica I, 1, 980 a 1): “Gli uomini cominciarono a filosofare a causa della meraviglia”. In questa ottica, la meraviglia è un sentimento complesso: non è semplice stupore dinanzi all’ignoto e a ciò che non si comprende, ma è il riconoscimento della propria ignoranza e il desiderio di superarla. Questo impulso conoscitivo attiva un processo che è poi la dinamica stessa del progresso: una volta acquisita la spiegazione di un fenomeno, la ricerca delle cause prosegue per trovare nuove risposte a ulteriori domande, nella consapevolezza che l’arte dell’interrogare è più decisiva di quella del rispondere. Noi esseri umani siamo alla continua ricerca di risposte. L’esigenza di ottenerle sembra essere connaturata all’esperienza stessa della vita. La meraviglia del possibile, allora, vuole abitare le domande e i dubbi, riscoprire il pensiero interrogante che si alimenta di critica, e quindi evocare quel senso di stupore e di vertigine di fronte all’ignoto, quella tensione, quel richiamo a gettarci nell’abisso del futuro per anticiparne gli svolgimenti e conoscerne i segreti. La rivista della Luiss, che porta questo titolo, si pone l’obiettivo di affrontare i temi dell’attualità di domani muovendo da una riflessione sul presente: dai cambiamenti sociali alla tecnologia, dalla filosofia all’ambiente, le voci del mondo Luiss e di appartenenti al panorama culturale nazionale e internazionale si confrontano e dibattono di temi di grande rilevanza. In “Cominciare e Finire” , riflettendo sul momento dell’inizio di un’opera di prosa o poesia, Calvino scrive: “Ogni volta l’inizio è questo momento di distacco dalla molteplicità dei possibili: per il narratore l’allontanare da sé la molteplicità delle storie possibili, in modo da isolare e rendere raccontabile la singola storia che ha deciso di raccontare” (addendum alle Lezioni Americane (1988), Mondadori 1993).

Con La meraviglia del possibile, l’idea è paradossalmente di mantenere vivo il “momento del distacco dalla molteplicità del possibile”: per gli autori che contribuiranno, l’inizio sarà stimolato dall’esplorazione – anche pre-teorica – di fenomeni, per distillare una storia da raccontare. Il primo numero è dedicato al racconto del mondo di domani, di quello che ancora non si è concretizzato, ma che sarà protagonista di un futuro prossimo. Numerosigli spunti su una molteplicità di argomenti e percorsi, tutti accomunati dal tentativo di dare senso a una realtà in divenire e di cogliere i mondi possibili un istante prima della loro effettiva realizzazione. Un simile sguardo al futuro e quella che potremmo definire “un’arte combinatoria” dei possibili comportano una complessità la cui gestione richiede un approccio interdisciplinare. Si pensi ai paradigmi metodologici messi in campo da quelle che Joseph Kagan, professore emerito di psicologia di Harvard e pioniere della psicologia dello sviluppo, ha definito le “tre culture”: scienze naturali, discipline umanistiche e scienze sociali (The Three Cultures. Natural Sciences, Social Sciences, and the Humanities in the 21st Century, Cambridge University Press 2009. Il riferimento, evidente sin dal titolo, è al saggio The Two Cultures and the Scientific Revolution (1959) di Charles Percy Snow). Le discipline umanistiche pongono l’enfasi su creatività e immaginazione, aumentano la capacità di una lettura contestuale e di stravolgere il convenzionale e permettono così di aprire nuove prospettive. Da questo punto di vista, sono scienze “umane” in quanto esaltano le caratteristiche proprie dell’uomo, che si ritrovano in quel senso di meraviglia davanti all’ignoto cui si accennava prima. Il metodo di creazione di conoscenza delle scienze sociali e delle scienze “dure”, invece, si basa sulla formulazione di ipotesi, su analisi e dimostrazioni. Pur nella diversità di approcci, si ritrova la complementarità delle tre culture. La meraviglia del possibile propone un approccio ibrido che combini scienze umane, sociali e naturali, per mettere a frutto metodi di produzione di conoscenza diversi in un lavoro sulle intersezioni fra culture che esalta il pensiero creativo, critico e multi-prospettico ed evita una visione ristretta. Una traiettoria simile servirebbe per rispondere alla meraviglia di fronte a ciò possiamo conoscere e interpretare le trasformazioni del possibile.

Andrea Prencipe

Rettore della Luiss e professore di Organizzazione e Innovazione