“Ricordo la prima volta che ho letto Nick Land. All’epoca circolava una certa quantità di teoria cibernetica ma nessuno scritto sembrava provenire da dentro le macchine – ossia da fuori di noi – come facevano i testi di Land. Il testo non aveva il distacco che ci si aspetterebbe da uno scritto accademico: si serviva della narrativa e dei film come di terreni da occupare, anziché come artefatti da commentare. Aveva trovato un piano di consistenza in cui la narrativa cyberpunk di William Gibson si connetteva con la filosofia di Immanuel Kant, Blade Runner con la finanza. La teoria non veniva applicata, veniva collegata, come un cavo a una macchina. La sensazione era che il testo provenisse da qualche posto reale, da un altrove esterno, e non da un’interiorità psicologica. Il tutto era pervaso da una sorta di incosciente rigore: mancava qualsiasi forma di quel distacco che rende buona parte della scrittura accademica così noiosa. C’era la nitida sensazione che si prova qualora si incontri un progetto autentico: la sensazione che qualcosa del genere dovesse essere scritta”.
Mark Fisher autore di Realismo capitalista