Un quotidiano ucraino riporta il fatto che siano stati trafugati i dati personali di circa 120.000 soldati russi che combattono in Ucraina – se confermato, sarebbe una delle fughe di notizie più devastanti di tutti i tempi. Ma qual è il rapporto tra guerra e furto dati? Quale la relazione tra una notizia come questa e le tattiche di disinformazione? Di questi temi ha scritto Thomas Rid nel suo ultimo Misure attive. Storia segreta della disinformazione di cui proponiamo un estratto.
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Nel tardo pomeriggio di un giorno di settembre del 1961, tre bambini inglesi stavano giocando in un parchetto nel verde dello Tsvetnoy Boulevard, nel cuore di Mosca. La loro mamma, Anne Chisolm, se ne stava seduta poco distante. Un uomo russo si fermò e si avvicinò sorridendo ai bambini. Consegnò loro un pacchetto di caramelle e sparì. I bambini diedero la scatola alla mamma. Sotto ai dolci, c’erano rullini di pellicola con le immagini di documenti segreti fotografati con una piccola macchina Minox. La mamma era sposata con il capo della sede moscovita dell’MI6; il passante era un agente del Direttorato principale per l’informazione (GRU), il servizio informazioni delle forze armate sovietiche; e i bambini che giocavano erano parte di un brush-pass, un rapido passaggio manuale di materiale, impercettibile e attentamente pianificato per far arrivare documenti da un agente all’altro.
Oleg Vladimirovicˇ Pen’kovskij fu una delle spie più efficienti dell’intera guerra fredda. L’agente del GRU, diventato colonnello a trentun anni, passò una mole incredibile di informazioni ai nemici del suo paese, comprese 5000 foto di documenti e bozzetti; partecipò inoltre a una serie di inestimabili colloqui nei suoi numerosi viaggi a Londra e Parigi. La CIA ricavò dal materiale fornito da Pen’kovskij più di diecimila pagine di rapporti in inglese. Gran parte degli incontri segreti tra CIA, MI6 e il loro agente della GRU si svolsero al Mount Royal Hotel di Oxford Street. Durante questi insoliti viaggi di lavoro, le richieste personali di Pen’kovskij in genere prevedevano cure dentali e “incontri con qualche signora inglese”. Gli incaricati britannici lo accontentavano, come rivelato molti anni dopo dagli archivi CIA: “L’MI6 (con l’aiuto dell’MI5) ha fatto quanto richiesto” (hanno detto alla ragazza che si trattava di un certo Alex di Belgrado, lei aveva ventidue anni, ci sono volute due ore e 10 sterline). Non tutti gli incontri con Pen’kovskij filavano così lisci.
Durante un meeting con agenti della CIA, Pen’kovskij propose un piano per “mettere Mosca” e l’intera leadership sovietica “sotto scacco”. “Ci consigliò di posizionare 29 piccoli ordigni nucleari in modo casuale in tutta Mosca, nascosti dentro a valigette o cestini dei rifiuti” riportò uno degli agenti americani presenti. “Noi avremmo dovuto fornirgli le armi, spiegargli come saldarle sul fondo dei cassonetti moscoviti e dargli un detonatore per attivarle al nostro comando.” Non fu semplice spiegare a Pen’kovskij che il suo piano non era realizzabile. A convincere il colonnello del GRU non furono i motivi strategici, ma solo l’impossibilità di miniaturizzare le armi atomiche.
Pen’kovskij non parlava bene l’inglese ma era una spia che non temeva nulla. Collaborò con CIA e MI6 per sedici mesi, dal 12 aprile 1961 al 4 settembre 1962. La guerra fredda era più fredda che mai: nel giugno del 1961 venne costruito il muro di Berlino, e alla fine dell’estate del 1962 ci fu la crisi dei missili cubani, che portò il mondo a un passo dalla catastrofe nucleare. La spia del GRU, ambiziosa al punto di essere sconsiderata, passò alla CIA i piani dettagliati e le descrizioni delle postazioni di lancio dei missili cubani. Senza l’aiuto di Pen’kovskij, gli americani non sarebbero riusciti a identificare i missili sovietici sulle rampe di lancio e a tracciare quanto fossero pronti a entrare in azione. Il KGB cominciò però a sorvegliare Pen’kovskij. Osservando la sua finestra con una microcamera nascosta in un vaso di fiori, il KGB scoprì che nascondeva attrezzatura per lo spionaggio nel proprio studio. Venne arrestato nel 1962. Otto mesi dopo, la Corte Suprema dell’Unione Sovietica ritenne il colonnello quarantaquattrenne colpevole di alto tradimento e lo condannò a morte tramite plotone di esecuzione nella prigione della Lubjanka. Quando il giudice lesse la sentenza, nell’aula stracolma il pubblico applaudì e festeggiò per trenta secondi. “La spia Oleg Pen’kovskij è stata giustiziata” riportò la tass il 16 maggio 1963. Il processo a Pen’kovskij innescò la più aggressiva misura attiva della CIA dai tempi della chiusura del fronte LCCASSCK di Berlino, avvenuta tre anni prima.
Il 3 maggio, prima che iniziassero le udienze in tribunale, il direttore della CIA si fece preparare una nota dettagliata di sette pagine che esaminava rischi e possibili risposte dell’agenzia. “Faremo uscire in Turchia un articolo che racconterà la vita di Pen’kovskij basandosi su tutte le fonti plausibili a nostra disposizione” spiegava la nota. La CIA usò il quotidiano di Istanbul Cumhuriyet per descrivere quel personaggio tanto singolare. Il governo americano voleva far sapere che Pen’kovskij era un militare di carriera, medaglia al valore nella Seconda guerra mondiale, appartenuto all’intelligence militare. Si trattava di fatti veri, ai quali la CIA volle aggiungere “una foto di Pen’kovskij in uniforme con le sue decorazioni” da pubblicare sullo stesso numero di Cumhuriyet. La nota indicava poi, sempre in modo confidenziale, che l’articolo turco doveva essere “diffuso quanto più possibile dai principali media occidentali”.
Una settimana dopo, Cumhuriyet pubblicò effettivamente l’articolo mettendo la foto in prima pagina. E il testo venne diffuso, come pianificato, dopo che il Washington Post ebbe tradotto e pubblicato i passaggi salienti. Stephen Rosenfeld del Post scrisse che l’articolo del giornale di Istanbul “si basava su fonti che paiono veritiere” e che Pen’kovskij aveva passato agli Stati Uniti “documenti segreti sulla potenza missilistica dell’Unione Sovietica”.
L’articolo turco era solo l’inizio. La nota di inizio maggio della CIA, scritta prima del processo a Pen’kovskij, proponeva di inventarsi un fantasma per perseguitare il KGB: “Prevediamo che dovremo soprattutto impegnarci a preparare le ‘memorie’ di Pen’kovskij” spiegava al direttore della CIA la divisione sr (così venivano chiamati gli esperti della Russia sovietica). Bisognava ricostruire il modo in cui Pen’kovskij considerava il regime sovietico, la sua storia e le sue prospettive il “più accuratamente possibile”. L’unico falso menzionato esplicitamente nella prima nota era il racconto di come il memoriale e altri documenti sarebbero comparsi a Ovest: bisognava dire che il tutto “era stato affidato a una persona occidentale di fiducia” da Pen’kovskij, con la promessa di renderlo pubblico nel caso fosse stato arrestato in Russia. Già il 3 maggio 1963 la CIA annotava che erano cominciati i primi lavori al memoriale.
Circa due anni dopo l’esecuzione di Pen’kovskij, alla fine del 1965, ventinove giornali – compresi The Washington Post, Los Angeles Times e The Observer di Londra – pubblicarono a puntate gli estratti di un nuovo libro scandalo, che sarebbe divenuto celebre come The Pen’kovskij Papers.
I Papers cominciavano con una breve biografia che spiegava perché Pen’kovskij fosse diventato una spia. Suo padre si era arruolato come ufficiale dell’esercito Bianco ed era morto combattendo contro i comunisti durante la guerra civile, senza mai conoscere suo figlio. Pen’kovskij era divenuto a sua volta un ambizioso comandante dello stesso esercito che “aveva fatto a pezzi i Bianchi”, come disse una volta utilizzando un modo di dire dell’esercito russo. La sua storia professionale e quella personale erano destinate a convergere. “Mi vergogno di me, perché sono parte di questo sistema e vivo in una bugia” raccontava Pen’kovskij. “Conosco l’Armata e so che molti ufficiali provano lo stesso sentimento.” Come referente scientifico, Pen’kovskij aveva molti contatti coi leader del partito e dell’esercito. Le informazioni che passava all’estero, e di conseguenza le sue memorie, riguardavano dettagli tecnici degli scambi tra intelligence, le dinamiche politiche del Partito comunista e perfino le scappatelle erotiche dei leader della polizia moscovita.
Nel libro c’era anche un manuale del direttorato anglo-americano del GRU su come gestire e supervisionare gli agenti americani. Spiegava come mettere in atto senza rischi un dead drop (ossia uno scambio che avviene lasciando il materiale in un posto e senza che le spie si incontrino), come incontrare fonti sotto sorveglianza, cosa indossare per un weekend con un agente locale (“scegliere colori chiari”) e perfino come ordinare una birra in un bar americano senza attrarre attenzioni “superflue”: “Non basta dire: ‘Una birra, grazie’. Bisogna anche aggiungere la marca, Schlitz, Rheingold eccetera”.
Nel libro, Pen’kovskij lavava in piazza i panni sporchi. Insinuava che Ivan Kupin, comandante delle truppe missilistiche e dell’artiglieria del distretto militare moscovita, mentre era in servizio in Germania Est come comandante dell’artiglieria della Prima armata corazzata, vivesse con l’addetta ai codici segreti all’insaputa di sua moglie. Dopo aver promesso di sposare l’addetta, l’aveva lasciata mentre era incinta, e lei si era impiccata. Gli investigatori avevano trovato foto di Kupin tra gli averi della ragazza. Il racconto di Pen’kovskij dipingeva un mondo di decadimento morale e abusi di potere.
Pen’kovskij se la prendeva soprattutto con Nikita Krusciov. Ricordava di averlo conosciuto nel 1939, quando il futuro segretario del partito era membro del Consiglio militare del distretto di Kiev, con indosso un’uniforme che “gli stava bene come una sella a una mucca” (una citazione di Gogol’). Il memoriale accusava Krusciov di guidare un “governo di avventurieri” e definiva il Politburo un mucchio di “demagoghi e bugiardi”, fintamente interessati alla pace, e in realtà pronti a rischiare l’olocausto nucleare. “So che i leader del nostro Stato sovietico vogliono provocare una guerra atomica” scriveva Pen’kovskij.
Era in particolare questa accusa a irritare Mosca. Tutti questi dettagli vennero pubblicati nei giornali statunitensi durante le prime due settimane di novembre del 1965, e il libro divenne uno dei bestseller spionistici della guerra fredda. John le Carré non si limitò a recensirlo per Book Week, ma lo usò come ispirazione per uno dei suoi romanzi.
Il 13 novembre, il ministro degli Esteri russo convocò Stephen Rosenfeld, corrispondente da Mosca del Washington Post, che già si era occupato del processo a Pen’kovskij. F.M. Simonov, un diplomatico che lavorava nell’ufficio stampa del ministero, lesse una dichiarazione a Rosenfeld: “Il 31 ottobre il Washington Post ha cominciato a pubblicare i cosiddetti Pen’kovskij Papers. Si tratta di un falso, un misto di invenzioni antisovietiche e calunnie messe in bocca a una spia che è stata smascherata”. Il diplomatico moscovita spiegò che la pubblicazione del falso avrebbe avvelenato i rapporti internazionali, rendendo più difficile un riavvicinamento. “Le responsabilità” dichiarò Simonov “sono condivise da chiunque abbia a che fare con la pubblicazione dei Pen’kovskij Papers”. Mise in guardia il suo interlocutore: “Ci aspettiamo che vengano presi provvedimenti in modo che in futuro articoli e materiale del genere non vengano più pubblicati sul Washington Post”.
Il Post fu inamovibile. Il giorno seguente, le memorie vennero pubblicate come previsto. Il Post raccontò anche delle minacce sovietiche e di come Mosca considerava quel materiale tanto controverso. “Di fatto” sosteneva il comunicato stampa sovietico citato dal Post “i cosiddetti Pen’kovskij Papers non sono altro che un vile falso elaborato da chi si è giovato dei servizi della spia Pen’kovskij a due anni dalla sua detenzione”. La pubblicazione del falso americano sui giornali statunitensi, affermavano i sovietici, andava “considerata come un atto premeditato nella peggior tradizione della ‘guerra fredda’”.
Il quotidiano di Washington era diventato un campo di battaglia per le operazioni di disinformazione degli Stati Uniti contro i sovietici. La Russia accusò direttamente la CIA di gestire operazioni del genere contro Mosca: o era il kgb che stava conducendo una sua campagna di disinformazione? Impossibile da dirsi. Il Post comprendeva un tale dilemma, e fece qualcosa di inatteso: nei due giorni seguenti pubblicò due articoli memorabili, che davano ragione ai sovietici e mettevano in dubbio l’autenticità dei Pen’kovskij Papers.
Victor Zorza aveva divorato una copia in anteprima del libro di Pen’kovskij. Britannico di origini polacche, Zorza era un prolifico giornalista d’inchiesta attento ai minimi dettagli, oltre che uno dei più celebri cremlinologi del mondo. Si accorse subito che qualcosa non quadrava.
Un piccolo editore russo con sede in Germania Ovest, dopo aver notato l’annuncio del memoriale sulla stampa internazionale, aveva contattato Doubleday, l’editore statunitense, offrendo 1000 marchi per il diritto di pubblicarlo in russo e facendo richiesta del manoscritto originale. Doubleday aveva accettato l’accordo: secondo Zorza era in buonafede e voleva davvero inviare il manoscritto russo, ma non era riuscito a trovarlo. Per due volte, raccontava Zorza, Doubleday aveva contattato il Dipartimento di Stato per ottenerlo, ma senza alcun riscontro. Era abbastanza per essere molto sospettosi. Zorza si lanciò inoltre in un’analisi linguistica minuziosa. Il testo non era una traduzione diretta, c’erano troppi passaggi e intere sezioni dalle quali traspariva “una mano – o lingua – straniera”.
Il mattino del 16 novembre, la CIA inserì una copia dell’approfondimento di Zorza nella rassegna stampa del direttore. Un analista, con un pennarello, sottolineò le parole “Opera della CIA” in nero a beneficio del capo. Zorza terminava con una critica all’Agenzia di Langley, che l’analista sottolineò con un tratto molto marcato: “Nella CIA ci sono alcuni dei miei migliori amici, ma se vogliono che i loro atti di warfare psicologico rimangano segreti, devono darsi più da fare”.
Due giorni dopo, l’esperto ambasciatore sovietico a Washington, Anatolij Dobrynin, si incontrò con Llewellyn Thompson, ex ambasciatore americano a Mosca, per parlare dei Pen’kovskij Papers. Fu una conversazione segnata dalla tensione.
“Il governo degli Stati Uniti non è responsabile della loro pubblicazione” disse Thompson a Dobrynin. “Come l’ambasciatore ben saprà, i nostri quotidiani e editori sono liberi di stampare quello che vogliono. La responsabilità è soltanto loro.”
Dobrynin non ci stava. Disse al suo collega americano che avrebbe informato Mosca secondo l’usanza diplomatica, ma aggiunse: “Sono certo che voi sappiate, come io so, che qualcuno di qualche agenzia americana ha scritto queste memorie”. L’ambasciatore russo aggiunse che ciò non implicava che il complotto Pen’kovskij fosse partito dalla Casa Bianca, e che la CIA forse non aveva avvisato il Dipartimento di Stato. Thompson era irremovibile. Ripeté quanto già detto a Dobrynin: il Dipartimento di Stato aveva chiesto spiegazioni alla CIA, e l’agenzia aveva negato ogni coinvolgimento. In verità la CIA era coinvolta eccome, ma non l’aveva detto al Dipartimento di Stato.
Dobrynin e Zorza avevano ragione: le memorie erano false. Si sbagliavano però su un aspetto importante. La storia vera aveva ancora qualche sorpresa in serbo.
La CIA pensava che Pen’kovskij fosse stato arrestato attorno al 4 settembre 1962. Nei sedici mesi che avevano preceduto il suo arresto, la spia si era incontrata in segreto quarantacinque volte con il personale della divisione sovietica della CIA in Inghilterra, con la supervisione dell’MI6. Tutte le conversazioni erano state registrate. Quattro settimane dopo l’arresto di Pen’kovskij a Mosca, prima che fosse giustiziato nella prigione della Lubjanka, gli esperti della CIA avevano finito di compilare le sue “memorie” e la divisione sovietica aveva già deciso di diffonderle come misura attiva anticomunista. Una nota interna della CIA del 4 ottobre 1962 chiariva: “Le ‘memorie’ dovranno essere pubblicate, in qualche modo, dalla stampa libera”.
L’operazione incappò subito in qualche ostacolo. La CIA aveva chiesto a Deriabin, uno dei “super disertori sovietici”, di scrivere una prima bozza delle memorie di Pen’kovskij in russo, con “l’assistenza dell’intera” divisione sovietica della CIA. Deriabin aveva già collaborato a misure attive, e in seguito avrebbe perfino pubblicato un vademecum sui trucchetti sovietici; fu così che il traduttore ufficiale divenne il ghostwriter. La bozza di Deriabin ebbe però vita breve. Sembrava non riuscire a liberarsi delle proprie abitudini di falsario del kgb. Nella prima bozza in russo, cambiò parti della storia inventandosi un colpo di scena: scrisse che Pen’kovskij aveva lavorato in segreto per il kgb per molto tempo. Quando gli esperti di Russia della CIA lessero la prima stesura di Deriabin, non gradirono la creatività dell’ex agente del kgb. Il primo maggio 1963, la divisione sr espresse la sua preoccupazione: “Secondo noi è un grosso errore basare la storia della vita di Pen’kovskij sulla falsità che fosse stato un agente del kgb per gran parte della sua carriera”.
Questa implicazione, come indicarono molti della CIA che avevano familiarità con la vicenda, “non sarebbe stata accettata come vera dalle persone che volevamo colpire con quei documenti: gli agenti dell’intelligence sovietica”. I critici letterari dell’agenzia fecero anche notare che per i giornalisti occidentali già sarebbe stato difficile capire il racconto di Pen’kovskij e che “aggiungere anche questo colpo di scena li avrebbe confusi del tutto”. La CIA voleva invece che la storia fosse accurata e comprensibile. “Secondo noi, attenerci ai fatti e alle parole di Pen’kovskij renderà la storia non solo più valida ma anche più avvincente.” Pertanto Deriabin non venne più usato come ghostwriter, anche se sul libro sarebbe stato citato come traduttore.
Alla CIA serviva un ghostwriter adeguato. La divisione sr si mise in cerca di “uno scrittore competente in grado di revisionare le memorie e approntarle per la pubblicazione”. L’agenzia si rivolse così a Frank Gibney, esperto giornalista e redattore, che accettò di correggere e riscrivere l’intero manoscritto. Per questo la divisione sr non volle dare il manoscritto originale in russo alla Doubleday: non coincideva con la versione finale in inglese di Gibney. La CIA vendette i diritti di pubblicazione del manoscritto tramite un’organizzazione di facciata appositamente creata, la Pen’kovskij Foundation.
Ci vollero molti anni perché si scoprissero tutti i retroscena. Il Church Committee, una pietra miliare nella storia delle inchieste sull’intelligence, nel 1976 definì The Pankovsky Papers “un libro della CIA”. “Il libro è stato scritto da personale dell’agenzia che si è basato su materiale veritiero” affermava il rapporto del comitato. La morale della storia fu chiara per Rosenfeld, che venne cacciato da Mosca per aver fatto pubblicare a puntate il libro sul Washington Post. “Le vere vittime di quest’operazione furono cittadini americani” scrisse Rosenfeld. Già nel 1965, Zorza aveva osservato che nelle democrazie aperte le agenzie di intelligence “hanno il grosso svantaggio di dover ingannare il proprio pubblico quando cercano di danneggiare l’avversario”. Rosenfeld era d’accordo. L’operazione aveva danneggiato un pilastro fondamentale della democrazia liberale, la stampa libera. L’inganno ai danni del pubblico americano, si chiedeva, era “una conseguenza inattesa o uno degli scopi?”.
Chi criticava la CIA si sbagliava su un aspetto importante. A Langley non avevano falsificato i contenuti, ma solo il modo di raccontarli. Il Direttorato per la pianificazione, che approvava le operazioni segrete e clandestine, insisteva sempre meno sul political warfare; il libro di Pen’kovskij non era certo ai livelli di falsificazione e aggressività dimostrati dalle organizzazioni di facciata della CIA a Berlino.
Il 6 novembre 1964, David Murphy, capo della divisione SR, preparò un memorandum per Richard Helms, all’epoca vicedirettore della pianificazione, dal titolo: “Richiesta per l’approvazione della pubblicazione delle memorie di Pen’kovskij”. Il documento esaminava il lavoro svolto dalla CIA per scrivere le memorie: gli agenti dell’SR che avevano lavorato con la spia del GRU e conoscevano la sua personalità si assicurarono che la bozza conservasse lo stile di Pen’kovskij, “spesso con le sue esatte parole”, oltre che il suo “sapore russo”. La CIA si procurò anche una copia della trascrizione del processo a Pen’kovskij, la tradusse e la usò per colmare qualche lacuna, compresi i riferimenti all’agenzia stessa e all’MI6 (che tecnicamente erano ancora segreti). Il memorandum di Murphy sottolineava che la CIA non avrebbe incensato la spia: “Il ritratto dell’uomo Pen’kovskij che emerge da queste pagine non solo è accurato, ma anche interessante e credibile”. L’agenzia si aspettava un “forte” ritorno finanziario dal libro, che magari avrebbe potuto dar vita a un film o a una serie tv; il denaro sarebbe stato poi donato a un’organizzazione anticomunista non specificata. Il memorandum si concludeva sottolineando che non serviva il consenso del Dipartimento di Stato. Helms diede la sua approvazione. Nel frattempo, l’Est calcava la mano sull’uso dei libri in questo tipo di operazioni.
Il volume aveva l’aria di una Bibbia, ma era più piccolo di un tascabile, con una copertina rigida granata; l’elegante rilegatura custodiva 592 pagine di carta sottile di alta qualità, tradotte in tedesco e in inglese. Aveva lo stesso titolo in entrambe le lingue: Who’s Who in CIA.
L’editore era un certo Julius Mader, un cittadino privato associato all’indirizzo “Berlin W 66, Mauerstr. 69”. Anche quest’informazione era ingannevole: “W” non stava per “West”, visto che l’indirizzo si trovava a Berlino Est, a solo un isolato dal Checkpoint Charlie. Il goffo sottotitolo di Who’s Who in CIA lo presentava così: “Un’enciclopedia biografica dei 3000 membri dello staff delle agenzie di intelligence militari e civili degli USA in 120 Stati”. Il libro non si occupava solo della CIA, ma usava quel nome celebre per parlare di tutta l’intelligence americana. Conteneva sei pieghevoli con stampate sopra altrettante tabelle, comprese una con la struttura dell’intelligence del Pentagono, una della National Security Agency e una per vari fronti segreti della CIA, più un organigramma dell’FBI. Molti dei nomi elencati avevano effettivamente lavorato per la CIA nel corso della loro vita.
Il libro era pasticciato, quasi comico. Mader accusava la CIA di praticare “la sovversione […], il warfare psicologico e il gioco sporco”, e lo faceva impiegando gli stessi metodi. Nella lista degli agenti c’erano molte importanti personalità che sembrava perlomeno esagerato includere, come il presidente Lyndon B. Johnson, il senatore Eugene McCarthy e perfino George Meany, un celebre leader sindacale fondatore di aflcio. Nel libro c’erano anche due cartoline staccabili che i lettori potevano usare per fornire le “biografie mancanti” degli agenti dell’intelligence statunitense. Una nota scritta in piccolo garantiva la possibilità dell’anonimato. Era il 9 luglio 1968, e Who’s Who in CIA costava 10,50 marchi della Germania Est, pari a circa 25 centesimi americani.
Il giorno dopo, Neues Deutschland pubblicò una recensione entusiasta del libro di Mader sul “governo ombra degli USA”, la più grande organizzazione segreta imperialista, più potente del resto del governo americano messo assieme. La Associated Press e il Washington Post avevano già menzionato il libro in modo neutro, senza accennare al fatto che potesse essere parte di un’operazione di disinformazione.
“D’improvviso la guerra dei libri si è infiammata” scrisse il Los Angeles Times, presentando il volume di Mader effettivamente come una misura attiva. Anche la rivista Time pubblicò una recensione critica. A novembre, secondo il Washington Post, il libro sulle spie era esaurito in una libreria di Washington. “Alcune istituzioni”, raccontava il negozio, l’avevano ordinato in grandi quantità, e perciò avevano dovuto richiedere altre 150 copie tramite posta aerea. Probabilmente Who’s Who in CIA era imperdibile per le ambasciate straniere nella capitale.
Bastava osservarlo bene, per capire che il libro di Mader era meno sofisticato di quanto sembrasse. Le tabelle apparivano clamorose, ma erano state ricavate da fonti disponibili a tutti. I nomi “filtrati” erano stati presi soprattutto dal registro biografico del Dipartimento di Stato. La CIA conosceva Mader, che esisteva davvero, come agente del blocco sovietico esperto di disinformazione, e aveva anche un proprio uomo sul posto che si relazionava direttamente con lui. Un analista della CIA disse che delle migliaia di persone elencate “il 99 per cento non aveva alcun collegamento con l’intelligence”. Anche questa era un’esagerazione. Il numero reale di agenti CIA nel libro è ancora oggi ignoto. Comunque fosse, molti recensori esterni capirono subito la vera natura del libro.
Julius Mader era un nome famigerato, perlomeno nel giro dell’intelligence. Negli anni Sessanta aveva già pubblicato sette libri, tutti contro le agenzie spionistiche occidentali. Non stava però lavorando da solo. Una dozzina di anni dopo, davanti alla commissione scelta permanente sull’intelligence della Camera, Bittman rispose a una domanda su Who’s Who in CIA. “Conosco molto bene quel libro” spiegò “perché purtroppo devo ammettere di esserne uno dei coautori”. Bittman continuò chiarendo la nascita e lo scopo dell’operazione.
Il libro Who’s Who in the CIA [sic] venne preparato a metà degli anni Sessanta dall’intelligence cecoslovacca assieme a quella della Germania Est. Ci vollero due anni per realizzarlo. Circa metà dei nomi elencati sono veri agenti CIA. L’altra metà erano solo diplomatici americani o ufficiali di vario tipo; venne preparato con ’intenzione di danneggiare moltissimi americani che lavoravano all’estero, diplomatici e così via, che sarebbero stati additati come agenti della CIA.
Alcuni recensori e persino la stessa agenzia avevano criticato questa pubblicazione congiunta di KGB-Stasi-STB in quanto inaccurata e raffazzonata; l’inclusione di persone innocenti non era però un errore, ma parte del piano. Lo scopo dell’operazione, come chiarito da Bittman, era “paralizzare” non solo la CIA ma anche diplomatici innocenti, giornalisti e altre persone ingiustamente accusate di spionaggio. Nei paesi occidentali, il libro sarebbe stato visto come un evidente falso. In quelli in via di sviluppo, invece, avrebbe causato più danni, perfino mortali, come si sarebbe visto in seguito. La stima dei danni della CIA è ancora segreta, ma il piccolo libretto rosso di Mader fu abbastanza nocivo da spingere l’agenzia a reagire. La CIA impiegò anni per vendicarsi.
Gli archivi della Stasi, oggi aperti, hanno confermato la ricostruzione di Bittman: il ministero della Sicurezza di Stato di Berlino Est arruolò Mader e la sua segretaria come “agenti in servizio speciale”. Venne promosso nel 1964 e cominciò a ricevere uno stipendio fisso dalla Stasi. Aveva molti nomi in codice, come FAINGOLD, HUNTER e x54. “Col nostro aiuto, Mader è diventato uno degli scrittori più importanti nella nostra area operativa”, segnalava un rapporto di valutazione dei primi anni Sessanta. Tuttavia, come accade a molti autori di successo, Mader finì per innamorarsi un po’ troppo della propria abilità. Un file del ministero della Sicurezza di Stato riportava: “Di tanto in tanto gli dobbiamo ricordare che i suoi successi non sono frutto solo del suo duro lavoro e del suo spirito d’iniziativa, ma anche dell’impegno dell’mfs e del sostegno che ha ricevuto dal ministero”.
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Da Misure attive. Storia segreta della disinformazione di Thomas Rid. In alto, immagine di Merle M. Rasmussen – Top Secret (copertina del gioco di ruolo)