Mentre le difficoltà dell’approvvigionamento dei vaccini a livello internazionale stanno portando in primo piano le criticità della relativa filiera produttiva anche in termini di sicurezza nazionale, due altre crisi delle supply chain globali – quelle dei microchip e delle batterie ad elevate prestazioni – danno un colpo d’acceleratore alla definizione delle politiche industriali negli Stati Uniti e in Europa, e costituiscono un banco di prova anche per il disegno geopolitico dell’Amministrazione Biden e per il ruolo che l’Europa intende ricoprirvi.
La visione americana appare saldamente incardinata sullo schema di una competizione strategica, che ha nella Cina l’avversario e che colloca nella dimensione tecnologico-industriale l’epicentro di questa nuova guerra fredda, individuando nella logica del contenimento la base per un ritrovato multilateralismo selettivo. Anche per l’Europa – come scrive Marta Dassù* – sarà in questa fase difficile separare economia e sicurezza ed eludere la necessità di una visione geopolitica. L’Europa dovrà però decidere in che misura una logica prevalente di contenimento rientri nel proprio interesse e sia coerente con la propria volontà di autonomia strategica. Il raccordo tra le due strategie di politica industriale, quella europea e quella americana, in termini di visione geopolitica, di obiettivi su cui lavorare assieme e di strumenti di cooperazione, costituirà dunque nei prossimi mesi uno dei punti focali della discussione sul nuovo assetto internazionale da ricostruire dopo le fratture dell’era Trump.
Come sempre, è una crisi ad accelerare le decisioni. Le criticità, emerse nella seconda metà del 2020 e divenute vere e proprie rotture dell’equilibrio a inizio 2021, riguardano le supply chain dei microchip e delle batterie al litio, due componenti essenziali per le industrie strategiche e per il rilancio dell’economia mondiale post-pandemia. La carenza di microchip è particolarmente devastante in questi mesi per l’industria automobilistica, che sta fermando stabilimenti e ridimensionando le attività, subendo una perdita globale di produzione, valutata ormai a più di 60 miliardi di dollari, e registrando anche un freno alla riconversione verso l’auto elettrica. Apple, da parte sua, ha annunciato che la produzione dell’iPhone 12 sta rallentando proprio per carenza di microchip.
Punto di svolta
La crisi delle supply chains globali nel settore dei semiconduttori costituisce un punto di svolta perché, forse per la prima volta dopo le crisi petrolifere degli anni ‘70, si manifesta concretamente la vulnerabilità industriale dell’occidente, dopo che negli anni dell’amministrazione Trump l’esposizione al rischio di una rottura nelle filiere era considerata un problema innanzitutto cinese, strumento di attacco industriale alla marcia della Cina verso la leadership in settori come le telecomunicazioni: questo era infatti il senso del decoupling delle filiere del 5G impostato da Trump come approccio offensivo alla competizione geopolitica.
L’insufficienza di offerta che da metà 2020 si registra nel mercato mondiale dei microprocessori è dovuta a tre ragioni: la crescita della domanda di chip per la produzione di computer e smartphone nel periodo di smart working e di virtualizzazione di molte attività; un calcolo errato dell’industria automobilistica, che è tra i maggiori utilizzatori di microprocessori, e che ha sbagliato le previsioni su quello che sarebbe stato l’andamento del mercato, sottovalutando la ripresa della domanda; l’accaparramento di scorte di microchip da parte della Cina, come misura preventiva rispetto al decoupling per garantire l’operatività di aziende come Huawei e di settori come l’automotive (nel 2020, la Cina ha importato microprocessori per un valore di 380 miliardi di dollari, una quota rilevante di tutto l’import).
Disegnare un chip e fabbricarlo sono due attività distinte, entrambe richiedono ingenti investimenti, costante innovazione tecnologica di frontiera ed economie di scala.
La filiera è esposta a rischi geopolitici, perché i produttori statunitensi ed europei dipendono in larga misura per la fabbricazione da imprese, prime tra tutte la coreana Samsung e la taiwanese TSMC, che hanno impianti in tutta l’Asia orientale; inoltre, fatto più inquietante per l’esposizione al rischio geopolitico, la gran parte degli stabilimenti per la fabbricazione dei chip (le fonderie) è concentrata proprio a Taiwan, in uno dei punti di maggior tensione e potenziale conflitto. Americani, cinesi ed europei dipendono in egual misura dalle fonderie dell’isola. Il governo tedesco è intervenuto direttamente sul governo di Taiwan per chiedere garanzie di approvvigionamenti alla propria industria automobilistica; e a inizio febbraio esponenti della nuova amministrazione Biden hanno avuto un confronto con il ministro dell’economia di quel paese, con il coinvolgimento di TSMC e dell’americana Qualcomm (tra i più grandi produttori al mondo, che delega a TSMC la fabbricazione). Il tema è stato la sicurezza degli approvvigionamenti. Il gruppo taiwanese ha per esempio in progetto di aprire un impianto in Arizona, con un investimento di 12 miliardi di dollari; ma i tempi di realizzazione sono lunghi e investimenti in questo settore hanno bisogno di garanzie, anche politiche. Nel frattempo, la faglia che si sta aprendo per il decoupling delle filiere strategiche tra Stati Uniti e Cina ha nello stretto di Taiwan il suo punto più rischioso.
La seconda emergenza riguarda la supply chain delle batterie ad alta capacità, non solo utilizzate dall’industria automobilistica per la conversione all’auto elettrica ma anche necessarie per l’innovazione nel settore energetico e, in particolare, per le reti e la produzione di energia rinnovabile. Nel 2020, la fabbricazione di batterie di elevata capacità al litio si è rivelata insufficiente a far fronte a una domanda mondiale che sta esplodendo. La criticità non dipende dalla disponibilità della materia prima grezza, bensì dalla possibilità di approvvigionarsi di litio lavorato per raggiungere caratteristiche di purezza e qualità elevate; è dunque nella fase intermedia della filiera che vi sono strozzature nella capacità produttiva e preoccupa, soprattutto, una concentrazione di quest’ultima in Cina. A fronte dell’aumento della richiesta mondiale di prodotto lavorato, nel 2019-20 in Cina sono stati aperti 46 mega-impianti di raffinazione del litio a fronte dei soli quattro che sono entrati in funzione nello stesso periodo negli Stati Uniti.
L’emergenza riguarda più in generale le filiere dei minerali strategici, tra i quali le cosiddette terre rare rivestono un ruolo particolare perché sono insostituibili in produzioni come le fibre ottiche. Ancora una volta, il problema è l’insufficienza della produzione rispetto alla domanda e, soprattutto, la concentrazione della produzione e della lavorazione intermedia in Cina. Pechino ha più volte minacciato un embargo delle terre rare nei confronti degli Stati Uniti, come rappresaglia per le sanzioni ai danni delle società cinesi del 5G. L’interruzione delle forniture avrebbe un effetto devastante per gran parte del comparto tecnologico americano, tanto più alla luce dell’impiego di alcune di queste terre rare per la realizzazione dei computer quantistici, che segneranno negli anni ’20 una svolta radicale negli ecosistemi digitali grazie a una finora inimmaginabile potenza di calcolo e alla pervasività del cloud computing.
Cooperazione industriale e geopolitica
Queste crisi hanno sottolineato l’urgenza di affrontare in modo strutturale la vulnerabilità dell’industria occidentale. L’Executive Order on American Supply Chains, firmato dal presidente Biden il 14 febbraio scorso, avvia un’azione ad ampio spettro di consolidamento e riorganizzazione delle filiere nei settori cruciali per la leadership tecnologica, la ricostruzione industriale e la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Vi è indicato un orizzonte di brevissimo termine, cento giorni, per avere dei piani di intervento su aree dove il tema della vulnerabilità delle supply chains ha urgenza politica: la filiera farmaceutica, ovviamente, per mettere in sicurezza la produzione dei vaccini, ma anche i superconduttori, le batterie ad alta capacità e l’approvvigionamento di minerali strategici. Nel breve-medio termine, un anno, dovranno essere poi predisposti piani per l’insieme della base industriale degli Stati Uniti: le industrie legate alla difesa, l’energia, l’ICT e i dati, i trasporti, l’alimentare, il complesso dei beni e servizi necessari alla sicurezza sanitaria.
L’ordine esecutivo di Biden rimanda esplicitamente a precedenti disposizioni di Trump: l’Executive Order del settembre 2020, dedicato a contrastare la dipendenza da “avversari strategici” in tema di approvvigionamento dei minerali strategici (critical minerals) e l’ordine esecutivo del luglio 2017 finalizzato a rafforzare l’industria della difesa e le sue supply chains, quest’ultimo provvedimento particolarmente innovativo per la sua concezione di cosa sia il perimetro delle tecnologie e delle industrie strategiche per la difesa e la sicurezza nazionale, identificato di fatto con l’insieme dell’industria digitale.
Anche in Europa l’allarme per la crisi delle filiere strategiche è al massimo grado. L’industria automobilistica tedesca, colpita dalla carenza di microchip in un momento cruciale per la ripresa, si è fatta sentire con forza chiedendo l’autonomia dell’Europa nella filiera dei microprocessori.
L’impulso ad agire, ancora una volta, è venuto dall’asse franco-tedesco, che nel vertice bilaterale dell’ottobre 2020, allargato alla Presidente della Commissione Europea e dedicato alla cooperazione tecnologica, ha offerto il quadro politico per impostare interventi mirati a specifiche aree. A fine gennaio 2021, la Commissione Europea ha approvato un finanziamento di 2,9 miliardi di euro per l’IPCEI (Important Project of Common European Interest) denominato European Battery Innovation, che si prevede attiverà anche circa 9 miliardi di investimenti privati; e che si aggiunge a un precedente stanziamento di dicembre 2019 per più di 3 miliardi. Nel dicembre 2020 è stata sottoscritta da venti governi l’impegno a una strategia comune per sviluppare l’intera filiera dei processori e delle tecnologie dei semiconduttori: il ministro tedesco dell’economia, Altmaier, ha previsto un investimento comune di 50 miliardi di euro per rafforzare la filiera dei microprocessori, nell’ambito di un impegno sottoscritto da 19 governi europei a dicembre dell’anno passato.
Il terreno comune per il progetto di cooperazione high-tech voluto da Biden è dato dal fatto che sia negli Stati Uniti che in Europa è acquisita la consapevolezza che la sicurezza delle supply chain è condizione per la sovranità sui processi tecnologico-industriali di sviluppo economico e in materia di difesa; e che nel XXI secolo il conflitto geopolitica si concretizza in misura determinante nella competizione tecnologico-industriale, incentrata nel controllo delle tecnologie e nei processi industriali in settori chiave come l’intelligenza artificiale, l’emergente quantum computing e il 5G. Sta diventando condivisa la preoccupazione per la sicurezza di comparti che dipendono da supply chain complesse, sovra-estese globalmente e particolarmente esposte a rischi politici, a fragilità legate all’insostituibilità di fornitori super-specializzati e forti di economie di scala, a shock finanziari o anche climatici (a febbraio, il black-out in Texas per il maltempo ha costretto a chiudere alcuni importanti impianti Samsung per la fabbricazione di microprocessori che, una volta spenti, hanno richiesto lunghe procedure per riprendere la lavorazione).
Il criterio di razionalizzazione della struttura industriale sta diventando la sicurezza nazionale – intesa anche come difesa della base tecnologica e della capacità produttiva – che prevale anche sulla ricerca di efficienza: la supply chain si sono allungate troppo nei decenni passati nella ricerca di efficienza a scapito della robustezza delle filiere, lasciando queste non solo esposte ai rischi di discontinuità dovuti a impreviste crisi delle imprese, dei distretti produttivi o dei paesi che nella filiera sono compresi, ma anche a vulnerabili ad attacchi o ritorsioni di un avversario strategico.
La politica, dunque, asseconda e anzi guida quella che appare comunque una tendenza delle imprese a regionalizzare le filiere, che non è mero re-shoring ma ridisegno su basi di solidità, ridondanza, anche compatezza macro-regionale, privilegiando la robustezza sulla stessa efficienza, in una logica di globalizzazione governata – non più iper-globalizzazione ma slowbalisation, per usare un termine inventato da The Economist subito prima della pandemia**.
A suggello della compenetrazione tra politica industriale e sicurezza nazionale, Biden affida l’attuazione dell’executive order congiuntamente al Consigliere per la sicurezza nazionale e a quello per la politica economica. E’ questa una sottolineatura di come, in continuità con le guerre tecnologiche di Trump, centrale sia il contenimento di un avversario strategico, individuato nella Cina, in grado di contestare la leadership americana sul piano economico e geopolitico: contenimento che mira innanzitutto, certo, ad impedire lo sfruttamento di punti vulnerabili nelle filiere che fanno capo alle industrie statunitensi, ma che può avere anche un significato interdittivo, ossia di indebolimento e rottura delle filiere dell’ “avversario strategico”, così come a suo tempo esplicitamente indicato dagli ordini esecutivi dell’amministrazione Trump e dalla sua guerra aperta al 5G made in China.
La distanza rispetto all’approccio degli anni di Trump sta nella consapevolezza che gli stati Uniti hanno bisogno di alleati. Lo choc di scoprirsi secondi in una tecnologia strategica come il 5G e di essere sfidati per il primato nell’intelligenza artificiale è stato nel decennio scorso una sorta di Vietnam tecnologico, che ha prima innescato una reazione di ripiegamento (“Make America Great Again”) e poi una riflessione sulla necessità di costruire la sfida geopolitica-industriale su un perimetro di risorse più vasto.
Una dimensione del multilateralismo selettivo di Biden sta in questa consapevolezza di mobilitare “alleati e partner” contro un avversario strategico, che si affianca alla ricerca di un multilateralismo inclusivo, senza avversari, su temi come la sicurezza climatica globale, i flussi migratori e il contrasto alla pandemia.
Rispetto a questo, l’Europa si trova a definire i propri interessi di lungo periodo: in che misura la cooperazione per il rafforzamento della base tecnologico-industriale, per l’innovazione e per la messa in sicurezza della supply chain strategiche deve avere come bussola la competizione con un avversario strategico, identificato con la Cina? detto in altri termini: quanto la ricerca di primato tecnologico e sicurezza industriale si deve declinare come guerra fredda tra tecno-democrazie e tecno-autoritarismi? E con quali strumenti può l’Europa tutelare la propria autonomia in ogni possibile futuro scenario, quando bastano poche migliaia di voti in Georgia o Michigan per cambiare il corso della politica americana anche su base di pulsioni contingenti e non razionali? Nei prossimi mesi l’intreccio tra alleanze geopolitiche e strategia tecnologico-industriale si presenterà in testa all’agenda politica europea, costringendo in ogni caso a superare definitivamente una visione economicista dei rapporti internazionali; ma ciò che dovrà essere scritto in quell’agenda non sarà di facile soluzione.
* Dassù, M. 2020 “L’Europa geopolitica tra Stati Uniti e Cina” Rivista di politica economica 2020 n. 2
** The Economist “Slowbalisation: The Steam Has Gone Out of Globalisation”, 24 gennaio 2019