La storia di Solo i più ricchi. Come i tecnomiliardari scamperanno alla catastrofe lasciandoci qui inizia il giorno in cui Douglas Rushkoff, noto studioso e popolare divulgatore sui temi dell’innovazione e dell’hi-tech, riceve un singolare invito: in cambio di un’ingente somma, dovrà raggiungere una località segreta nel deserto e qui fornire una consulenza a cinque delle persone più ricche del pianeta, che intendono verificare la bontà dei diversi piani di fuga da loro elaborati in vista di quello che chiamano l’Evento  la catastrofe di natura incerta ma che, ne sono sicuri, sta per abbattersi sul nostro pianeta. Sembra un film, ma è tutto vero.
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Mi avevano invitato a tenere un discorso in un resort extra lusso. Pensavo che il pubblico sarebbe stato composto da un centinaio di banchieri d’investimento. Non mi avevano mai offerto una cifra simile per una conferenza – circa un terzo di quanto guadagno in un anno insegnando in un college pubblico – e avrei dovuto solo offrire qualche dritta sul “futuro della tecnologia”.

Solo i più ricchi: qualche estratto dal nuovo libro di Douglas Rushkoff

Sono un umanista che si occupa dell’impatto della tecnologia digitale sulle nostre vite e per questo spesso mi scambiano per un futurologo. Non mi è mai piaciuto granché parlare del futuro, soprattutto davanti a un pubblico di ricchi. Le domande finali si trasformano sempre in un giochino da salotto, nel quale mi chiedono che cosa ne penso degli ultimi tormentoni tecnologici, come se fossero codici azionari: ai, vr, crispr. In genere al pubblico non interessa sapere quale impatto avranno queste tecnologie sulla società, ma solo se vale la pena o no investirci del denaro. Ma i soldi sono soldi, e così ho accettato.

Ho viaggiato in prima classe. Mi hanno offerto cuffie insonorizzanti e frutta secca tiepida (esatto, riscaldano le noccioline), mentre sul Mac-Book scrivevo il mio discorso su come le imprese digitali potrebbero sostenere i principi di un’economia circolare invece di persistere nel solito capitalismo basato sull’estrazione, ed ero tristemente consapevole che né l’afflato etico delle mie parole né il carbon offset (“compensazione delle emissioni di carbonio”) che avevo abbinato al mio biglietto avrebbero potuto compensare il danno ambientale che in quel momento contribuivo a perpetrare. Stavo pagando il mio mutuo e il college di mia figlia ai danni delle persone e dei luoghi che sorvolavo.

All’aeroporto mi aspettava una limousine che mi ha portato subito nel bel mezzo del deserto. Ho provato a parlare col conducente degli adoratori degli ufo attivi da quelle parti, oppure della desolata bellezza di quella zona, così diversa dalla frenesia di New York. Immagino volessi a tutti i costi fargli capire che non ero uno dei soliti ricconi che in genere si siedono sul sedile posteriore di un’auto come quella. A sua volta, come se volesse chiarire che neanche lui era quello che si poteva immaginare, mi ha risposto che non era un autista a tempo pieno, ma un trader in un momento no dopo qualche “investimento intempestivo”.

Il sole cominciava a tramontare e mi sono reso conto che ero in macchina da tre ore. Che razza di professionisti dei fondi di investimento fa tanta strada in auto dall’aeroporto solo per una conferenza? E poi ho capito. Parallelamente alla superstrada, quasi volesse sfidarci, un piccolo jet atterrava su una pista privata. Ormai era tutto chiaro.

Dietro il promontorio c’era il luogo più lussuoso e isolato che avessi mai visto. Un resort con spa nel bel mezzo del nulla. Strutture in pietra e vetro inserite in una formazione rocciosa con vista sull’immensità del deserto. Mentre facevo il check-in non si vedevano altro che membri del personale e ho dovuto usare una mappa per trovare il “padiglione” che mi avevano riservato e dove avrei trascorso la notte. C’era una vasca a idromassaggio all’aperto tutta per me.

La mattina dopo, due uomini con indosso lo stesso maglione Patagonia sono venuti a prendermi con un’auto da golf e tra rocce e sterpaglie mi hanno portato a una sala conferenze. Mi hanno lasciato solo a bere caffè e a concentrarmi in quello che credevo fosse il mio camerino. Ma non mi hanno sistemato il microfono né accompagnato al palco, sono stati i miei uditori a venire da me.

Si sono seduti al tavolo e si sono presentati: cinque tipi ricchissimi – esatto, tutti uomini – appartenenti alla più alta élite nel campo degli investimenti tecnologici e dei fondi speculativi. Almeno due erano miliardari. Dopo qualche chiacchiera, mi sono reso conto che non gli interessava il discorso sul futuro della tecnologia che mi ero preparato. Volevano farmi delle domande.

Hanno cominciato in modo abbastanza innocuo e prevedibile. Bitcoin o Ethereum? Realtà virtuale o aumentata? Chi arriverà per primo alla computazione quantistica, la Cina o Google? Ma sembravano irrequieti. Appena cominciavo a spiegare vantaggi e svantaggi di blockchain proof-of-stake o proof-of-work avevano già pronta un’altra domanda. Mi sembrava più che altro che mi stessero mettendo alla prova. Non riguardo alle mie competenze, ma ai miei scrupoli.

Nuova Zelanda o Alaska?

Ed ecco che sono arrivati a quel che gli stava davvero a cuore: Nuova Zelanda o Alaska? Quale zona subirà di meno la futura crisi climatica? E da quel momento in poi le cose non hanno fatto che peggiorare. Qual era la minaccia più grave: il cambiamento climatico o la guerra biologica? Quanto a lungo si può pensare di sopravvivere senza aiuto esterno? Un rifugio deve avere la sua riserva d’aria? Quanto è probabile che le falde acquifere vengano contaminate?

Alla fine il ceo di un’agenzia di intermediazione mi ha spiegato di aver quasi finito di costruire un suo complesso di bunker sotterranei e mi ha chiesto: “Come posso continuare a esercitare la mia autorità sulle forze di sicurezza dopo l’evento?”. L’Evento. Era il loro eufemismo per il collasso ambientale, le rivolte nelle strade, l’esplosione nucleare, la tempesta solare, il virus inarrestabile o l’hack informatico in grado di bloccare ogni cosa.

Per il resto dell’ora ci siamo dedicati a quella domanda. Le guardie armate avrebbero dovuto proteggere i loro bunker da razzie e da folle inferocite. Uno di loro aveva già assoldato una decina di Navy Seal pronti a intervenire a un suo segnale. Ma come pagare le guardie in un mondo nel quale le criptovalute non hanno più valore? Cosa gli avrebbe impedito di scegliere da sé il proprio leader? I miliardari avevano pensato di mettere sulle scorte di cibo lucchetti con combinazioni speciali che solo loro avrebbero conosciuto, o di fare indossare alle guardie collari di controllo, o addirittura di costruire robot che potessero servire da guardiani e da operai, sempre che si riuscisse a sviluppare “in tempo” una tecnologia simile.

Ho cercato di farli ragionare. Gli ho spiegato che collaborazione e solidarietà sono gli approcci migliori per le sfide a lungo termine che ci aspettano. Per fare in modo che le guardie vi siano fedeli in futuro, ho detto loro, potreste trattarle in modo amichevole già da ora. Non investite solo in munizioni e recinzioni elettrificate, investite sulle persone e nei rapporti. Hanno alzato gli occhi al cielo come se si fosse trattato di filosofia hippy e così gli ho consigliato ironicamente che per non farsi tagliare la gola in futuro dal proprio capo della security era meglio pagargli sin da ora il Bat-Mitzvah di sua figlia. Hanno sghignazzato. Almeno con il mio show stavo dando un senso al loro investimento. In realtà si vedeva che erano anche infastiditi. Non li stavo prendendo abbastanza sul serio.

Ma come avrei potuto? Erano probabilmente il gruppo di persone più ricche e potenti che avessi mai incontrato, eppure stavano chiedendo a un massmediologo marxista come allestire il loro bunker per l’apocalisse. E in quel momento ho capito: stando a quei gentiluomini, parlare del futuro della tecnologia significava parlare proprio di quello.

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Come il fondatore di Tesla Elon Musk, che vuole colonizzare Marte, Peter Thiel di Palantir, che vuole invertire il processo di invecchiamento, o Sam Altman e Ray Kurzweil, imprenditori nel campo dell’intelligenza artificiale, che stanno cercando di caricare le loro menti in un supercomputer, anche loro si stavano già preparando a un futuro digitale che aveva ben poco a che fare col rendere il mondo un posto migliore e molto più col superamento stesso della condizione umana. Le loro enormi ricchezze e i loro immensi privilegi li hanno resi ossessionati dall’idea di isolarsi da un presente sempre più pericoloso, fatto di cambiamento climatico, livello dei mari che si innalza, isteria sovranista, esaurimento delle risorse. Per loro, il futuro della tecnologia riguarda una cosa sola: fuggire da tutti noi.

Un tempo bombardavano il mondo di business plan ottimisti, spiegando come la tecnologia avrebbe fatto il bene dell’umanità. Adesso hanno trasformato il progresso tecnologico in un videogame nel quale vinceranno se riusciranno a trovare il sistema per fuggire.

Lo troverà Bezos scappando nello spazio, Thiel rifugiandosi in Nuova Zelanda o Zuckerberg nel suo Metaverso virtuale? E questi miliardari della catastrofe dovrebbero essere i vincitori del gioco dell’economia virtuale – i re della sopravvivenza –, gli esemplari più adatti a sopravvivere nel panorama finanziario alla base di queste ipotesi.

La tecnologia come controcultura

Naturalmente non è stato sempre così. Per un breve periodo all’inizio degli anni Novanta il futuro digitale non sembrava già scritto. Malgrado le sue origini nella crittografia militare e nello sforzo da parte della Difesa di creare un traffico dati protetto, la tecnologia digitale era diventata un campo della controcultura, che la riteneva un’opportunità per ideare un futuro più inclusivo, equo e partecipativo. Il “Rinascimento digitale”, come ho cominciato a chiamarlo già nel 1991, riguardava il potenziale sfrenato dell’immaginazione umana collettiva. Riguardava di tutto, dalla teoria del caos alla fisica quantistica, fino ai giochi di ruolo fantasy. Durante quella prima epoca cyberpunk, molti di noi credevano che – connessi e coordinati come non mai – gli esseri umani avrebbero potuto creare qualunque futuro potessero immaginare. Leggevamo riviste chiamate Reality Hackers, FringeWare e Mondo2000, che paragonavano il cyberspazio alla psichedelia, l’hacking informatico agli enormi rave a base di musica dance elettronica. I confini artificiali di una realtà lineare, basata su rapporti gerarchici e di causa effetto, sarebbero stati sorpassati da un nascente frattale di rapporti di interdipendenza. Il caos era ritmico, non casuale. Non avremmo più osservato l’oceano attraverso le longitudini e le latitudini tracciate dai cartografi, ma tramite i sottostanti pattern delle onde. Surf’s up, annunciai nel mio primo libro sulla cultura digitale: “Sta arrivando l’onda”.

Internet: una moda mai passata..

Nessuno ci prese sul serio. Nel 1992 quel progetto di libro venne cancellato dal suo primo editore, convinto che la moda delle reti informatiche sarebbe passata prima della sua data di pubblicazione, nel 1993. Solo quando la rivista Wired, nata quello stesso anno, cominciò a parlare di internet come di un’occasione per fare soldi, le persone ricche e potenti iniziarono a interessarsene. Le pagine fluorescenti del primo numero della rivista annunciavano: “L’arrivo di uno tsunami”. Negli articoli si ipotizzava che solo gli investitori in grado di ascoltare futurologi e visionari che scrivevano su quelle pagine sarebbero stati in grado di sopravvivere all’ondata.

Altro che controcultura psichedelica, avventure ipertestuali e consapevolezza collettiva. La rivoluzione digitale non era certo una rivoluzione, ma un’occasione per fare affari, la possibilità di dopare i già morenti scambi azionari del nasdaq, per mungere magari un altro paio di decenni di crescita da un’economia in stato di morte apparente sin dalla crisi delle biotech del 1987.

Tutti si precipitarono nel settore tecnologico per sfruttare il boom delle dot-com. Gli articoli su internet si spostarono dalle pagine culturali dei quotidiani a quelle di economia e finanza. Le imprese storiche si resero conto del potenziale della rete, ma solo per l’economia estrattiva che gli era familiare, mentre i giovani tecnologi subivano il fascino di offerte pubbliche iniziali belle come unicorni e payout da milioni di dollari. I future digitali venivano considerati come quelli su azioni o sul cotone: qualcosa su cui fare previsioni e scommettere. Gli utenti tecnologici allo stesso modo non venivano considerati come creatori da incentivare ma come consumatori da manipolare. Più il loro comportamento era prevedibile, più semplice sarebbe stato influenzarlo.

Douglas Rushkoff