Se si riuscisse ad abbandonare lo schema concettuale che ha plasmato politiche e istituzioni europee fin dagli anni Ottanta, si potrebbe ridisegnare l’Unione facendo leva sull’interazione tra mercati e attori pubblici nell’assorbire le fluttuazioni, ridurre le divergenze e sostenere la crescita di lungo periodo. Negli ultimi anni molti economisti hanno fatto proposte che andavano nella direzione delineata in questo volume.

Tuttavia, le ipotesi di riforma volte ad assicurare maggiore coesione e condivisone dei rischi macroeconomici si sono sempre scontrate con l’opposizione dei Paesi del cosiddetto centro dell’Eurozona. Lo spazio politico per una critica riformista allo status quo è sempre stato limitato, anche nei momenti in cui erano più evidenti la fragilità teorica e i costi (sociali ed economici) delle politiche imposte dalla dottrina di Berlino.

La catastrofica seconda recessione dell’Eurozona, nel 2012-13, ha alimentato il fuoco dell’euroscetticismo e dell’interesse nazionale, ma non ha dato voce a chi preconizzava un’Europa diversa. Cantori dello status quo e sovranisti si sono saldati in un’alleanza, tanto involontaria quanto innaturale, nella difesa dell’equivalenza tra la moneta unica e le politiche “neoliberali”. Il pilastro su cui ha prosperato l’immobilismo europeo è stato, almeno fino alla crisi del Covid-19, la Germania. Al punto che negli anni scorsi ogni proposta di riforma che cercasse di ovviare ai difetti di costruzione della moneta unica veniva gratificata dal sorriso di scherno di un euroscettico, assortito dall’immancabile “tanto la Merkel dirà di no”.

 

Dalla riforma Hartz al fiscal compact

Per una serie di ragioni, non tutte frutto di scelte deliberate, la Germania è uno dei Paesi che più hanno tratto profitto dell’integrazione economica e monetaria europea.

Per tutto il decennio successivo alla riunificazione, la Germania ha avuto tassi di crescita deludenti. Molti attribuiscono la rinascita tedesca alle già menzionate riforme Hartz del 2003-2005, che hanno reso più flessibile il mercato del lavoro e, secondo una percezione diffusa, aumentato la competitività del Paese. Se è vero che a partire dal 2005 la crescita tedesca è stata trainata dalle esportazioni, l’impatto delle riforme del mercato del lavoro è stato probabilmente marginale e non è passato per i canali che molti immaginano. Il “miracolo” tedesco è il frutto di una riorganizzazione della struttura produttiva del Paese causata in larga parte da eventi esterni.

I crescenti avanzi commerciali sono principalmente da attribuire a due fattori. In primo luogo, la crescita dei Paesi emergenti (in particolare Cina e India), ormai mercati stabili per i beni di lusso (ad esempio le autovetture di grossa cilindrata), ma soprattutto affamati di beni capitali e in particolare di macchinari, di cui la Germania è il massimo produttore mondiale.

In questo settore non è certo la moderazione salariale a determinare la competitività, ma al contrario la qualità, la produttività e il know-how, che consentono di mantenere situazioni di quasi monopolio in mercati di nicchia.

Questo dominio è facilitato dai legami commerciali con i Paesi dell’Est, rinforzati con l’allargamento dell’Unione europea del 2004.

Approfittando dei legami culturali e della prossimità geografica, al momento dell’ingresso dei Paesi dell’Est nel mercato unico le imprese tedesche vi hanno spostato la produzione di beni intermedi a basso valore aggiunto, comprimendo così i costi di produzione. Un altro elemento spesso dimenticato del successo tedesco è la riconversione dell’industria dell’ex Germania dell’Est.

La riunificazione è spesso vista come un fardello che ha rallentato per almeno un decennio la crescita tedesca, il che è certamente vero.

Ma è stata anche un’opportunità per fare un salto tecnologico importante. Approfittando del terreno vergine di un’industria desertificata e di generose sovvenzioni europee, le imprese della Germania occidentale hanno costruito impianti produttivi alla frontiera tecnologica (nei settori tradizionali come l’automobile, ma anche nella microelettronica) senza dover affrontare i costi della riconversione di imprese esistenti. La Germania dell’Est inoltre è stata una testa di ponte per rinsaldare i legami commerciali con i Paesi dell’ex blocco comunista. Certo, le riforme del mercato del lavoro hanno contribuito a ridurre i costi di produzione, riducendo i salari nei settori non protetti (principalmente servizi); ma in misura molto minore di quanto non abbia fatto la riorganizzazione della struttura industriale e del commercio di beni intermedi. Se hanno avuto un ruolo marginale nell’aumento della competitività e della produttività, le riforme del mercato del lavoro hanno invece avuto un ruolo nello spiegare l’aumento del tasso di risparmio delle famiglie tedesche, i cui salari sono rimasti stagnanti dall’inizio degli anni Novanta fino al 2017-18.

Il calo dell’investimento domestico e l’ossessiva attenzione dei governi che si sono succeduti alla disciplina di bilancio hanno fatto il resto: la tendenza alla deflazione e la compressione della domanda interna hanno accompagnato la crescita delle esportazioni. In conclusione, la rinascita tedesca è stata principalmente il frutto di una serie di circostanze esterne (la caduta del blocco sovietico e il ritorno nell’orbita europea dei Paesi dell’Est, l’affacciarsi dei Paesi emergenti sui mercati mondiali) che per motivi storici, geografici e industriali hanno avvantaggiato più la Germania che altri Paesi europei. Il formidabile “sistema Paese” tedesco ha fatto il resto, assicurandosi che quest’opportunità non fosse sprecata. L’euro non ha attenuato il vantaggio tedesco sui partner europei; anzi, lo ha se possibile accentuato. Dopo un’iniziale svalutazione al momento della sua introduzione, la moneta unica si è fortemente apprezzata tra l’inizio degli anni Duemila e l’inizio della crisi finanziaria globale. Questo ha naturalmente avuto un impatto negativo sulle esportazioni dei Paesi europei, impatto che tuttavia non è stato uniforme. Le imprese tedesche, da un lato erano specializzate in beni di gamma elevata, la cui domanda internazionale è poco sensibile alle fluttuazioni del tasso di cambio e del prezzo; dall’altro lato, grazie alla riorganizzazione della catena del valore si trovavano a pagare meno per i beni intermedi importati dai Paesi dell’Est rispetto ai quali l’euro si era rivalutato. La Germania inoltre vinceva su due fronti: mentre l’euro forte comprimeva i costi di materie prime e beni intermedi, l’inflazione più bassa di quella dei partner/concorrenti come l’Italia e la Francia creava una svalutazione reale all’interno della zona euro, garantendo competitività di prezzo e quote crescenti di mercato. Per la sua posizione peculiare nella catena del valore europea, dunque, la Germania è stata il solo Paese dell’Eurozona ad avere allo stesso tempo una valuta forte per pagare le importazioni e un cambio debole per le esportazioni. Questo, insieme alla compressione della domanda domestica, spiega l’accumulazione spettacolare degli avanzi commerciali, che è continuata fino a oggi.

Ma non è solo una questione di competitività. L’appartenenza all’euro ha anche consentito alla Germania di perseguire la disciplina di bilancio di cui è tanto fiera. L’editorialista del Financial Times Martin Wolf ha recentemente notato come l’area valutaria, il cambio stabile e il mercato unico abbiano rappresentato una valvola di sfogo per assorbire tutti gli eccessi di risparmio del settore privato. Wolf confronta la Germania con
il Giappone, che per caratteristiche demografiche simili ha anch’esso una cronica insufficienza di consumi e investimenti, ma che non dispone di un mercato estero così stabile; il settore pubblico ha quindi dovuto assorbire l’eccesso di risparmio con disavanzi notevoli, che hanno negli anni portato al più alto debito pubblico del mondo (237% del PIL nel 2019). Il governo tedesco ha potuto invece praticare quella virtù di bilancio che richiede a gran voce ai suoi partner europei, proprio perché gli eccessi di offerta del proprio settore privato erano assorbiti dalla spesa di consumatori, imprese e governi dei Paesi periferici dell’Eurozona. Senza l’euro, conclude Wolf, la virtù tedesca non sarebbe potuta esistere. Anche durante la crisi del debito sovrano la Germania ha tratto vantaggio dalla moneta unica. Quando la fuga dei capitali mette in ginocchio la Grecia, il Portogallo, l’Irlanda (si veda il paragrafo 5.3), i risparmiatori in cerca di investimenti sicuri si precipitano sui titoli di Stato dei
Paesi del Nord, e in particolare i Bund tedeschi. Mentre i Paesi della periferia hanno sempre più difficoltà a finanziarsi, i tassi di interesse dei Paesi del Nord crollano, fino a diventare negativi. Oggi, i risparmiatori sono disposti a pagare il governo tedesco pur di prestargli i soldi e metterli alsicuro. Un gruppo di ricercatori dell’università di Halle6 ha stimato che tra il 2010 e il 2015 la Germania ha risparmiato circa cento miliardi di
euro in interessi, un ammontare superiore a quanto il Paese abbia dovuto sborsare per salvare la Grecia. Nei primi quindici anni della moneta unica la Germania ha anche potuto contare sui vantaggi di una politica monetaria tagliata su misura. La BCE prende le proprie decisioni di tasso d’interesse sulla base delle condizioni macroeconomiche medie della zona euro. Per il semplice fatto delsuo peso economico, la Germania non si discosta mai significativamente dalla media. Se a questo si aggiunge l’influenza della potente Bundesbank nelle istanze decisionali della BCE. Si comprende facilmente perché la maggior parte degli studi sul tema trovino che la politica monetaria dell’Eurozona sia stata conforme ai bisogni dell’economia tedesca. Per i paesi della periferia, invece, essa è stata probabilmente troppo accomodante negli anni 1999-2007 e certamente troppo restrittiva negli anni della crisi finanziaria globale. In conclusione, per anni la resistenza al cambiamento della Germania e dei Paesi che le gravitano intorno è stata dovuta, in primo luogo, alla compatibilità del sistema attuale con il pensiero ordoliberale; in secondo luogo, alla capacità della Germania di trarre profitto dalla propria appartenenza all’euro e dalla sua posizione nelle catene del valore globali. Non è quindi sorprendente che, anche nei momenti più drammatici in cui era più evidente il carattere disfunzionale della nostra casa comune, ogni richiesta di riforma fosse lasciata cadere senza nemmeno essere discussa. Negli anni di fuoco della crisi il governo tedesco si è limitato a un approccio che potremmo definire da “minimo sindacale”: fare solo il necessario per mantenere l’Eurozona a galla, sempre con l’obiettivo prioritario di minimizzare il costo per i propri contribuenti. Ma il mondo nel 2020 è molto diverso da quello del 2000 o del 2010, per non parlare di come sarà quello del 2021, dopo la pandemia.

Francesco Saraceno

Francesco Saraceno

Francesco Saraceno è professore di macroe­conomia internazionale ed europea a Sciences Po e alla Luiss. È vicedirettore dell’OFCE, l’os­servatorio francese di congiunture economi­che, e membro del comitato scientifico della Luiss School of European Political Economy. Ha pubblicato il saggio La scienza inutile. Tutto quello che non abbiamo voluto imparare dal­l’economia (Luiss University Press, 2018). I suoi editoriali appaiono sul Sole 24 Ore.