La disponibilità di enormi masse di dati, di algoritmi efficienti e di un potere computazionale senza precedenti ha spinto gli esseri umani su un percorso co-evolutivo assieme alle macchine digitali che abbiamo creato. Visto da una prospettiva evolutiva, ciò potrebbe sembrare un altro dei tanti processi evolutivi a base di tentativi ed errori, il cui esito porta in un vicolo cieco o a nuove forme di vita. Per quanto questo esito sia impossibile da prevedere, dovremmo ricordare a noi stessi che l’evoluzione culturale, guidata dalla scienza e dalla tecnologia, ha superato l’evoluzione biologica. Ha dotato la specie umana di capacità cognitive che le hanno consentito di generare entità, dispositivi e infrastrutture digitali con cui gli esseri umani interagiscono in modi sempre più intricati e intimi. Dovremmo conoscerli meglio di quanto loro conoscano noi, eppure siamo spesso tormentati dall’ansia che alla fine potrebbero dominarci.

Di conseguenza, oscilliamo tra la fiducia nelle tecnologie digitali che sono diventate i nostri compagni quotidiani pur essendo consapevoli che ci sono molte ragioni per diffidare e cautelarsi. Le preoccupazioni relative alla privacy e al timore della sorveglianza coesistono con un nostro comportamento colluso di cessione volontaria dei nostri dati alle grandi multinazionali (S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, Luiss 2019). Le possibilità di abusi e malfunzionamenti, di vulnerabilità ad attacchi hacker e altre forme di cyber-insicurezza permangono, mentre allo stesso tempo continuano a venire invocati scenari ottimistici relativi alle nuove opportunità. Insistiamo giustamente sul fatto che nelle situazioni critiche gli esseri umani debbano avere l’ultima parola sulle decisioni e sulle reazioni automatiche, e che la responsabilità debba essere già integrata in questo processo nel caso in cui le cose vadano per il verso sbagliato (S. Russell, Human Compatible: AI and the Problem of Control, Allen Lane 2019; B. Christian, The Alignment Problem. Machine Learning and Human Values, Norton & Company 2020).

In questo viaggio co-evolutivo, e nonostante le incertezze del suo esito, siamo incoraggiati da ciò che potrebbe rivelarsi un’illusione: che ci siano state date delle carte anche solo leggermente migliori nel gioco co-evolutivo e che quindi l’ingegno umano prevarrà. È una delle premesse su cui si fonda l’umanesimo digitale, la convinzione che i valori umani possano essere instillati nelle tecnologie digitali e che un approccio basato sull’essere umano guiderà la loro progettazione, il loro uso e il loro sviluppo futuro (Werthner et al.,Vienna Manifesto on Digital Humanism, disponibile all’indirizzo www.informatik.tuwien.ac.at/dighum/, consultato il 20 giugno 2019).

Per l’umanesimo digitale, tali aspirazioni sono i presupposti necessari per guadagnare slancio, ma non devono oscurare le difficoltà che si presentano. Nella lunga storia delle invenzioni e innovazioni tecnologiche, l’essere umano ha sempre cercato di mantenere il controllo. Ciò che millenni fa è iniziato con l’impiego di strumenti che consentivano di ritagliarci una vita precaria nell’ambiente naturale si è poi trasformato, nel corso dell’industrializzazione, in un intervento massiccio e in un cambiamento su larga scala dell’ambiente naturale, con conseguenze devastanti per quest’ultimo, dal quale ancora dipendiamo. L’apice della convinzione che gli esseri umani abbiano il completo controllo sulla tecnologia e la totale padronanza del loro futuro è giunto con la modernità. Un momento di svolta si è verificato nella metà del Ventesimo secolo, quando è diventato chiaro che non avevamo più il controllo sulle scorie radioattive che ci siamo lasciati alle spalle dopo la produzione della bomba atomica.

Con la fine della guerra, la popolazione mondiale ha iniziato a crescere drammaticamente, e così hanno fatto anche il Pil e gli standard di vita. Allo stesso tempo, l’impatto dell’intervento umano sul sistema terrestre e sul suo funzionamento ha iniziato a farsi decisamente sentire. Battezzata “La grande accelerazione”, la convergenza di questi due sviluppi su vasta scala non è da allora più venuta meno (W. Steffen et al., “The Trajectory of the Anthropocene: The Great Acceleration”, The Anthropocene Review 2:1, 2015, pp. 81–98; P. Engelke, J.R. McNeill, La grande accelerazione. Una storia ambientale dell’Antropocene dopo il 1945, Einaudi 2015).

Oggi ci troviamo di fronte a una enorme crisi di sostenibilità, mentre la digitalizzazione prende sempre più slancio con implicazioni profonde e di lungo termine, relative a ciò che significa essere degli umani e a che cosa debba essere una buona società digitale. Siamo giunti nell’Antropocene, e si tratterà di un Antropocene digitale.

L’umanesimo digitale emerge di conseguenza in un momento cruciale, all’intersezione tra la crisi di sostenibilità e le opportunità offerte dalla digitalizzazione. Al fine di calibrare le sfide da affrontare, dobbiamo ricordare a noi stessi le continuità e le rotture che esso comporta. L’umanesimo digitale punta a edificare su alcune delle grandi trasformazioni culturali che sono parte dell’eredità europea, esplorando la natura umana e adottando un approccio basato sull’essere umano in circostanze globali in rapido cambiamento.

L’umanesimo digitale nasconde però una rottura meno evidente. Segnala la transizione dalla linearità nella concezione e comprensione del mondo, che è stata una delle caratteristiche fondamentali della modernità, verso la necessità di affrontare i processi non lineari dei sistemi adattativi complessi. Non è più possibile credere alla linearità di un progresso tecnologico che condurrà inevitabilmente a un futuro migliore del passato e del presente, per questa ragione, nel momento in cui affrontiamo una crescente incertezza e complessità, l’umanesimo digitale deve portarci a pensare in termini non lineari (H. Nowotny, The Cunning of Uncertainty, Polity Press 2015).

L’umanesimo digitale deve di conseguenza navigare tra i diversi filoni della nostra esistenza che emergono dalle tensioni intrinseche tra gli esseri umani e le macchine. In termini filosofici si parla di vita e non vita, di materia organica e inorganica, di diversi tassi di conversione energetica necessari per far funzionare noi e le macchine e, infine, della coscienza e della sua assenza nelle macchine (E.A. Lee, The Coevolution. The Entwined Futures of Humans and Machines, MIT Press 2020). Poiché c’è però poco accordo sulla definizione e il significato di questi termini, le interazioni ingarbugliate tra gli esseri umani e le macchine digitali continuano nella pratica a essere un processo sfumato e caotico. L’umanesimo digitale, se lo si vuole attuare, dev’essere pronto a navigare le tensioni manifeste e nascoste che vengono allo scoperto in modi attesi e inattesi e in costellazioni differenti.

La digitalizzazione esaspera delle tensioni già esistenti e familiari tra interessi economici, politici e sociali divergenti, come ampiamente dimostrato nel corso della pandemia da Covid-19, durante la quale le disuguaglianze e le spaccature sociali sono state messe a nudo. Le fake news e le teorie del complotto continuano a circolare liberamente sui social media, trasformando la scienza in una semplice opinione e rischiando di destabilizzare ulteriormente le già fragili democrazie liberali. Molti conflitti irrisolti sono collegati alle disuguaglianze crescenti. Mentre il divario digitale si approfondisce, persistono anche i timori che la digitalizzazione sostituirà le professioni più rapidamente di quanto ne genererà di nuove (D. Susskind, A World Without Work. Technology, Automation, and How We Should Respond, Allen Lane 2020).

Queste tensioni manifeste possono innescare dei gravi conflitti e lacerare ulteriormente un tessuto sociale già sotto considerevole stress. L’umanesimo digitale non può astenersi dall’entrare in questa arena contesa. Non può limitarsi a perseguire l’ideale di un individuo umanistico e digitalmente sofisticato senza considerare la società digitale che modella il nostro modo di vivere insieme. L’umanesimo digitale dovrà individuare nuovi progetti per nuove modalità di governance digitale, che possano essere all’altezza di una buona società digitale, adatta al Ventunesimo secolo.

Altre tensioni sono meno visibili, altre ancora sono latenti o emergenti. Aleggiano sulla domanda che costituisce il cuore dell’umanesimo digitale: cosa ci rende umani e come ci cambia l’interazione con le macchine digitali? Alcune di queste tensioni alimentano ansie identitarie che sono direttamente o indirettamente collegate ai social media o alla sensazione che un algoritmo ci conosca meglio di quanto noi non conosciamo noi stessi. Se l’esperienza dell’accelerazione domina la modernità, l’esperienza prevalente nell’epoca digitale è il sovraccarico informativo e la sovraestensione emotiva.

Nel momento in cui il passato raggiunge il presente e il futuro è già arrivato, almeno nelle forme visibili degli ultimi dispositivi digitali, il presente diventa più denso e si comprime ulteriormente. La sfida dell’umanesimo digitale è di creare nuovi spazi in questa atmosfera surriscaldata e iper-reattiva in cui la presenza fisica dev’essere riconciliata con gli spazi virtuali in modi che devono ancora essere inventati. Il virus ci ha insegnato molto sui bisogni del nostro corpo in un mondo digitale. Qualunque siano le lezioni da trarre, l’umanesimo digitale dovrà individuare nuovi percorsi per implementarle.

La straordinaria efficienza degli algoritmi predittivi e il fatto che siano praticamente subentrati nei processi decisionali pervade la nostra vita individuale e collettiva e segna un altro dominio carico di tensione che l’umanesimo digitale deve navigare. Che si tratti dell’intero settore sanitario o di stili di vita individuali, del nostro comportamento nei consumi o del funzionamento delle nostre istituzioni, gli algoritmi predittivi estrapolano dal passato per farci vedere più avanti nel futuro. Eppure, così facendo, ci spingono a trasferire la nostra agency a loro. Una volta che iniziamo a credere che un algoritmo possa prevedere cosa accadrà nel futuro e che i sistemi decisionali digitali verrano adottati su larga scala, potremmo raggiungere il punto in cui il giudizio umano sembrerà superfluo e le previsioni algoritmiche si trasformeranno in profezie che si autoavverano (H. Nowotny, In AI We Trust. Power, Illusion and Control of Predictive Algorithms, Polity Press 2021).

Di conseguenza, la posta in gioco per l’umanesimo digitale è elevata. Per navigare queste tensioni, dovremo individuare proposte concrete che includano i più profondi strati umanistici, andando oltre le soluzioni tecnologiche. Per quanto siano importanti gli appelli ai princìpi etici, non saranno sufficienti a meno che non possano attingere in termini molto pratici a un insieme ampiamente condiviso di atteggiamenti e di pratiche ispirati e guidati da un ideale umanistico di vita comunitaria. Ciò comporta di immaginare nuovi modi di affrontare i problemi che vadano oltre le soluzioni tecnologiche, e di ammettere che esistono “problemi malvagi” per i quali non si intravedono soluzioni, eppure anch’essi devono essere affrontati.

L’umanesimo digitale trae la sua forza dalla convinzione che una società digitale migliore sia possibile, trovando il coraggio di fare le sperimentazioni necessarie per riuscire a darle forma. In pratica, ciò richiede di coltivare una sensibilità umanistica per la diversità dei contesti sociali in cui le tecnologie digitali sono impiegate ed efficaci. Al momento, nessun algoritmo predittivo, e nemmeno i dati utilizzati per addestrarli, sono sufficientemente sensibili al contesto. L’umanesimo digitale può permetterci di scoprire alcune caratteristiche finora ignote di ciò che siamo senza determinare ciò che saremo. Ci può insegnare il valore insostituibile del giudizio critico umano quando affrontiamo gli algoritmi predittivi e la loro illusoria promessa di conoscere il futuro, che non è invece determinato da nessuna tecnologia ma rimane incerto e aperto.

I benefici principali dei processi digitali non consistono soltanto nell’essere “smart”, ce ne sono altri, potenziali, che attendono di essere esplorati da una mente curiosa e aperta. L’umanesimo digitale può sensibilizzarci su come affrontare questa complessità, che è più vicina alla nostra comprensione intuitiva di cosa significhi essere un umano di quanto non lo sia un modo di pensare lineare basato su causa ed effetto. Può sintonizzarci con le proprietà emergenti e con ciò che rimane imprevedibile: il segno definitivo di una vita che continua a evolversi.

Helga Nowotny

È professoressa emerita di Science and Technological Studies all’ETH di Zurigo. Il suo ultimo libro è Le macchine di Dio (2022).