Proponiamo un estratto dall’introduzione di Paolo Nori a Qualche impressione sulla Russia di Jhon Maynard Keynes. “Certo” conclude Keynes “è ragionevole aver paura della Russia, come fanno i gentiluomini che scrivono per il Times”, e viene ancora da dargli ragione. Per Erodoto, i popoli che vivono al nord, nelle terre adesso abitate dai russi, si chiamano Sciti, e un grande poeta russo, Aleksandr Blok, nel 1918 scrive una poesia che si intitola Sciti nella quale i russi, un anno dopo la rivoluzione, si rivolgono agli occidentali.

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Mi è capitato, qualche anno fa, di leggere un libro molto interessante sul modo in cui, in Unione Sovietica, venivano decisi i prezzi. Si intitola L’ultima favola russa, l’ha scritto Francis Spufford, l’ha pubblicato in Italia Bollati Boringhieri (traduzione di Carlo Prosperi), e in quarta di copertina si legge che è “impossibile pensare a un libro che comunichi altrettanto bene la quotidianità della vita in Unione Sovietica”. Ecco, a me, il libro di Spufford, “docente al Gold-smiths College di Londra nominato nel 1997 giovane scrittore dell’anno dal Sunday Times”, è sembrato una specie di Lettere persiane al contrario. Lettere persiane, come si sa, è un romanzo epistolare di Montesquieu in un cui Montesquieu fa finta di essere un persiano nella Francia di fine Settecento che scrive a un suo corrispondente persiano e gli descrive la vita dei francesi, per esempio gli racconta che i francesi di fine Settecento (cito a memoria) hanno un’abitudine stranissima, che ogni tanto tirano fuori dei rettangoli di stoffa, che tengono nascosti dentro i vestiti, e li avvicinano al naso proprio nel momento in cui dal naso sta per uscire un materiale segreto, di colore indefinito, tra il giallo e il verde e il marrone, evidentemente molto prezioso perché i francesi, scrive il finto persiano al suo finto amico persiano, lo nascondono molto velocemente e furtivamente dentro il rettangolo di stoffa che poi, altrettanto velocemente e furtivamente, rinascondono dentro i vestiti.

Cioè: fingendosi un persiano, fingendosi estraneo alla propria contemporaneità, Montesquieu costruisce una macchina narrativa che corrisponde a una specie di binocolo endotico, una macchina che mette in rilievo tutte le stranezze dei comportamenti suoi (di Montesquieu), mettendolo in una condizione di naturale e felice straniamento, verrebbe da dire. Spufford, invece, nei ringraziamenti dell’Ultima favola russa scrive: “Prima dei ringraziamenti, una confessione: ho scritto questo libro senza saper parlare né leggere il russo, e ho quindi potuto attingere a una piccola parte dei materiali disponibili”.

Con questo materiale a disposizione, Spufford mette in scena protagonisti russi, come Nikita Chrušcˇëv, o il cantautore Aleksandr Galicˇ, o il matematico Leonid Vital’evicˇ Kantorovicˇ, o Leonid Brežnev, e costruisce una macchina che corrisponde a una specie di binocolo esotico; cioè:

se Montesquieu, tramite i suoi protagonisti persiani, diceva continuamente, ai suoi lettori francesi, “guardate come siamo strani, e coglioni”, sembra che Spufford dica continuamente ai suoi lettori anglosassoni “guardate come erano strani, e coglioni, i sovietici”.

Che è una cosa che, un po’, è un peccato, perché l’idea del libro, di raccontare, in forma romanzesca, il modo in cui in Unione Sovietica si dava il prezzo alle cose, è un’idea molto bella, e fertile, e dev’essere stata una storia bellissima, solo che dal libro di Spufford a me non sembra che salti fuori, mentre continuamente salta fuori che erano strani, e coglioni, e ingenui, i sovietici, e che l’Unione Sovietica era un posto triste, e grigio, e ingiusto, e pieno di delinquenti, e di fool, e di sardine decapitate mentre per me, che il russo un po’ lo so, e che un po’ ci son stato, in Unione Sovietica, per me l’Unione Sovietica è stato un posto, per esempio, dove una volta, me lo ricorderò finché scampo, a Leningrado, un giorno che pioveva, ho preso un filobus, il filobus numero 10, sulla prospettiva grande dell’isola Vasil’evskij, per andare in biblioteca, e il filobus era pieno di gente dappertutto tranne che in un cerchio di un metro di diametro, perché sul tetto del filobus c’era un buco, e loro, gli addetti all’azienda dei trasporti urbani di Leningrado, o come si chiamava, cosa avevano fatto? Avevano fatto un buco sul pavimento, del filobus, di un metro di diametro, e l’acqua passava, e il filobus andava, e questa – avevo pensato – è l’Unione Sovietica.

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E non sapevo, allora, che nel 1925 John Maynard Keynes aveva scritto, dell’Unione Sovietica, che:

a tratti, malgrado la povertà, la stupidità e l’oppressione, si ha la sensazione che sia questo il laboratorio della vita. È qui che gli elementi chimici vengono mescolati in nuove combinazioni, è qui che puzzano ed esplodono. Potrebbe – c’è una piccola possibilità – venirne fuori qualcosa. E anche una sola possibilità rende quanto sta succedendo in Russia più importante di quanto sta succedendo (diciamo così) negli Stati Uniti d’America.

“Certo” conclude Keynes “è ragionevole aver paura della Russia, come fanno i gentiluomini che scrivono per il Times”, e viene ancora da dargli ragione. Per Erodoto, i popoli che vivono al nord, nelle terre adesso abitate dai russi, si chiamano Sciti, e un grande poeta russo, Aleksandr Blok, nel 1918 scrive una poesia che si intitola Sciti nella quale i russi, un anno dopo la rivoluzione, si rivolgono agli occidentali.

Voi siete milioni. Noi nugoli, e nugoli, e nugoli.
Provate a combattere con noi.
[…] Di amar così come ama il nostro sangue
tra voi nessuno è più capace.
Avete dimenticato che esiste un amore
che brucia e che distrugge.
Noi amiamo tutto: e l’ardore dei freddi numeri
e il dono delle visioni divine.
Noi capiamo tutto: e l’acuto spirito gallico
e il tenebroso genio germanico…
Noi ricordiamo tutto: l’inferno delle strade parigine
e il fresco di Venezia, la lontana
fragranza dei boschetti di limoni
e le moli fumose di Colonia…
Noi amiamo la carne – e il suo gusto e il suo colore
e l’afoso, mortale odore della carne…
È colpa nostra forse se scricchia il vostro scheletro
tra le nostre pesanti, carezzevoli zampe?

Ha ragione, Keynes, fanno paura. E qualche anno fa, quando una rivista russa, Inostrannaja literatura (Letteratura straniera), mi ha intervistato, alla fine, alla domanda di Anna Jampol’skaja su come mai mi piacesse così tanto la Russia, io mi ricordo ho risposto che la Russia mi piace perché fa paura.

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In alto, immagine di Derzsi Elekes Andor, 2012.

John Maynard Keynes; Paolo Nori

John Maynard Keynes (1883-1946) è stato tra i più grandi economisti del Ventesimo secolo, autore tra gli altri di Le conseguenze economiche della pace (1919), Trattato sulla moneta (1930) e Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta (1936).