Capitolo 5 – La prima luce

Immaginate un’esistenza talmente priva di sensazioni da non poterla neppure definire “buia”, dato che non è stata ancora concepita l’idea corrispondente di luce. Immaginate un mondo in cui non si vede, non si sente e non si percepisce niente e che rende l’idea stessa di essere vivi poco più di una distinzione metabolica. Immaginate un mondo di esseri a cui manca persino un senso elementare di sé al di fuori di un istinto meccanico e freddo ad alimentarsi e riprodursi, per non parlare di idee più complesse come un’identità, una comunità o una realtà più vasta. Ora immaginate tutto questo su scala globale: un pianeta brulicante di organismi che non si è ancora reso conto della propria esistenza. Questa era l’essenza della vita negli oceani primordiali che ricoprivano gran parte della Terra 543 milioni di anni fa. Per gli standard odierni, in cui ogni momento di veglia avvolge i sensi e sfida l’intelletto, questi organismi, talmente primitivi da sfiorare l’astrazione, conducevano vite che Socrate avrebbe potuto definire “non esaminate”. Era davvero un mondo non visto, caratterizzato da acque profonde ma istinti superficiali. Ovviamente la semplicità di questi nostri remoti antenati era naturale, dato l’ambiente dell’epoca. Abitavano uno spazio acquatico semivuoto, in cui persino la lotta per il cibo era una faccenda passiva. Gli organismi antecedenti ai trilobiti facevano affidamento al caso per trovare le loro prede, che prendevano misure altrettanto inutili – la cieca fortuna – per evitare i propri predatori e mangiavano soltanto quando il pasto era talmente vicino da poter essere consumato involontariamente.

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Tuttavia le implicazioni di questa deprivazione sensoriale furono profonde. Senza niente da vedere, sentire o toccare queste prime forme di vita non avevano neanche niente su cui riflettere. Senza i legami con la realtà esterna che diamo per scontati nella vita quotidiana, erano talmente prive di stimoli che non possedevano un cervello. Nonostante il mistero che lo circonda, il cervello, dopotutto, è una specie di sistema organico di elaborazione di informazioni, del tutto inutile in un mondo di esseri senza input sensoriali e quindi senza capacità di raccogliere informazioni su quel mondo. Immaginare davvero la vita interiore di un organismo del genere è impossibile, ma provarci può essere istruttivo. Ci ricorda che non abbiamo mai conosciuto l’esistenza senza un qualche collegamento sensoriale con il mondo esterno, anche nel grembo materno, e che non possiamo semplicemente fare un passo indietro da quella consapevolezza per contemplare un’alternativa. Dopo tutto, cosa sono i pensieri se non reazioni a stimoli, diretti o meno? Persino le nostre decisioni più astratte – cose effimere come i calcoli aritmetici a mente – non sono forse basate su un ragionamento acquisito in anni di esperienza nell’attraversamento di spazi fisici? Per quanto sofisticate possano essere le nostre menti, al loro interno succede ben poco che non si possa far risalire a un’intrusione esterna. Poi, in un periodo talmente breve e tuttavia portatore di una tale trasformazione su cui ancora oggi i biologi evoluzionisti si interrogano, il mondo si capovolse. La complessità della vita esplose – secondo una stima il ritmo dell’evoluzione accelerò incredibilmente, fino a quattro volte tanto quello di tutte le epoche successive – stimolando un’atmosfera di competizione senza precedenti. Fu una lotta continua per il dominio, e ogni nuova generazione subì la pressione ad adattarsi per minuscoli incrementi con l’intensificarsi della sfida per la sopravvivenza. I corpi si irrobustirono in reazione a un mondo di crescente ostilità, fortificando i tessuti molli con delicati esoscheletri difensivi e sviluppando elementi offensivi come denti, mandibole e fauci. L’esplosione cambriana, com’è nota oggi, fu un rimescolamento furioso dell’ordine evolutivo. Ma sebbene costituisca un capitolo fondamentale nella storia della vita sulla Terra, forse il più gravido di conseguenze, la sua causa precisa non è stata ancora individuata. Qualcuno immagina che fu scatenata da un cambiamento climatico improvviso, mentre altri hanno ipotizzato un’alterazione decisiva nell’acidità dell’oceano. Lo zoologo Andrew Parker però ha proposto una causa diversa e, anche se molti biologi sono scettici, la sua ipotesi ha profondamente influenzato le mie idee sull’IA. Secondo Parker la causa non fu tanto una forza esogena quanto una interna e la miccia che accese l’esplosione cambriana fu l’emersione di una sola capacità: la fotosensibilità o le basi dell’occhio moderno.
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La fotosensibilità fu un momento di svolta nella storia della vita sulla Terra. Facendo entrare la luce – a qualsiasi livello, a prescindere dall’intensità e dalla forma – i nostri predecessori evolutivi riconobbero per la prima volta che esisteva qualcosa oltre sé stessi. E, fatto più urgente, videro che erano impegnati in una lotta per la sopravvivenza che aveva più di un possibile esito. Si stavano risvegliando in un ambiente ostile in cui abbondavano in egual misura minacce e opportunità, la competizione per accaparrarsi le risorse era in aumento e le loro azioni facevano la differenza tra mangiare ed essere mangiati. La percezione della luce fu il primo colpo a salve di quella che sarebbe diventata una corsa agli armamenti evolutiva in cui anche il minimo vantaggio – un incremento nominale di profondità o un aumento quasi impercettibile dell’acutezza – poteva portare il suo fortunato possessore e la sua progenie davanti al gruppo in una caccia eterna di cibo, riparo e compagni giusti. Margini di competizione così stretti sono il campo da gioco delle pressioni evolutive, che si reiterano senza freni mutazione dopo mutazione e nel frattempo esercitano un impatto quasi immediato sull’ecosistema. La maggior parte di questi cambiamenti, ovviamente, non ha conseguenze, e alcuni sono dannosi. Ma i pochi che danno anche un minimo vantaggio possono essere motori di cambiamenti devastanti, che capovolgono l’ordine naturale in un vortice di sconvolgimenti e poi si stabilizzano in un nuovo standard su cui presto verranno costruite capacità ancora migliori. Questo processo diventò più veloce con il passare delle generazioni e in un periodo di soli dieci milioni di anni – che Parker chiama sarcasticamente un “battito di ciglia” evolutivo – la vita sulla Terra rinacque. A mediare questa dinamica competitiva c’era il rapporto tra la consapevolezza sensoriale e la capacità di agire. Persino le primissime forme di visione comunicavano a un organismo barlumi di informazione sull’ambiente che lo circondava, e non soltanto orientavano il suo comportamento ma lo sospingevano con un’immediatezza mai esistita prima. Sempre di più, affamati predatori ebbero il potere di individuare il loro cibo e persino di agire per procurarselo, anziché limitarsi ad aspettare che arrivasse. Le prede, a loro volta, utilizzarono la propria consapevolezza appena abbozzata per reagire con manovre evasive. Presto da questi barlumi di innovazione biologica sbocciò una danza collettiva e l’equilibrio di forze oscillò in una direzione o nell’altra mentre una tassonomia della vita in espansione si faceva strada in una nuova epoca. Con l’aumento della profondità e della quantità di informazioni fornite dai sensi, gli strumenti con cui un organismo poteva elaborare quelle informazioni subirono a loro volta pressioni per crescere, analoghe alla necessità odierna di dispositivi informatici sempre più sofisticati per gestire l’eccesso di dati del mondo moderno. Il risultato è stato un polo centrale per l’elaborazione dei vertiginosi input e output del sistema nervoso, le cui componenti sono state compresse sempre più fittamente in un organo che oggi chiamiamo cervello. Il cervello, pertanto, non è stato il prodotto di una misteriosa scintilla intellettuale bensì una reazione a un’immagine sempre più nitida e caotica del mondo esterno che attraverso i sensi arrivava verso l’interno. La capacità di percepire l’ambiente circostante ci ha incoraggiato a sviluppare un meccanismo per integrare, analizzare e infine dare un senso a quella percezione. E la visione era la parte costitutiva di gran lunga più animata.

Fei Fei Li

È professoressa presso il Computer Science Department della Stanford University, dove ha diretto l’AI Lab ed è co-direttrice dello Human-Centered AI Institute. È stata vicepresidente di Google e Chief Scientist of Artificial Intelligence and Machine Learning di Google Cloud. Autrice di oltre trecento pubblicazioni scientifiche e creatrice di ImageNet, il suo contributo ai campi più avanzati della cognitive IA, del deep learning, alla visione artificiale e del robotic learning la rende oggi una delle più importanti personalità scientifiche al mondo. Definita la “madrina dell’IA” e insignita di numerosi premi e riconoscimenti, è stata inserita da Forbes nella lista delle 50 donne più importanti in ambito Hi-tech e dal Time tra le cento più influenti figure della IA. Tutti i mondi che vedo, il suo primo libro, è stato inserito tra le letture essenziali sull’intelligenza artificiale da Barack Obama e tra i libri dell’anno del Financial Times.