Proponiamo un estratto da I figli dell’algoritmo. Sorvegliati, tracciati, profilati dalla nascita di Veronica Barassi. Viviamo in un periodo storico in cui ogni traccia lasciata da noi e dai nostri figli viene trasformata in dati. Per la prima volta stiamo creando una generazione “datificata” da prima della nascita. I dati dei nostri bambini vengono aggregati, scambiati, venduti e trasformati in profili digitali, sempre più utilizzati per giudicarli e decidere aspetti fondamentali della loro vita. Veronica Barassi riflette su questa trasformazione epocale, che sta avvenendo sotto i nostri occhi.

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Il giorno del Ringraziamento del 2016 ho scoperto di esser incinta della mia seconda figlia, e Google l’ha saputo prima dei miei genitori e di mia sorella. Eravamo in partenza per un lungo weekend fuori Los Angeles e in macchina, mentre raggiungevamo l’hotel, mi è venuta una preoccupazione improvvisa. Sapevo che sarei partita da lì a poco per l’Italia e ho pensato che un viaggio di quattordici ore in aereo potesse fare male al bambino.

Ero in ansia, avevo bisogno di una risposta e l’ho cercata su Google. Mentre mio marito guidava ho consultato diversi siti, passando da storie tragiche di aborti spontanei in volo a consigli rassicuranti di fonti specializzate. Appena arrivati in hotel sono stata colta da un altro dubbio: “Posso usare una vasca idromassaggio nei primi giorni di gravidanza? Quali sono i rischi?”. La maggior parte delle risposte alle mie domande le ho trovate su BabyCenter, un sito che offre informazioni sulla gravidanza e sul periodo neonatale molto frequentato dalle famiglie del Regno Unito e degli Stati Uniti, con più di cento milioni di utenti nel mondo.

Mentre cercavo le informazioni che mi servivano sapevo bene che qualsiasi click su BabyCenter sarebbe stato rimandato a Google, Amazon, AppNexus, DoubleVerify e via dicendo. Lo sapevo perché avevo appena finito una ricerca sulle app per la gravidanza, e ne avevo studiato le diverse policy e condizioni di utilizzo, incluse quelle di BabyCenter.

Non avevo ancora dato la notizia alla mia famiglia, ma quelle poche ricerche erano bastate per fare in modo che Google e tutti i data-tracker di internet mi profilassero come “soggetto in gravidanza”. Mia figlia stava venendo tracciata da prima della nascita, e io ne ero ben consapevole e in parte responsabile, perché non riuscivo a rinunciare a interrogare Google. Nei nostri mondi digitali, moltissimi genitori si trovano nella mia situazione: quando scegliamo di fare una ricerca, Google o il download dell’ultima app per la gravidanza espongono i nostri figli a un tracciamento e a una raccolta dati senza precedenti, che a volte comincia quando ancora non sono venuti al mondo.

Il processo di tracciamento e datificazione dei bambini ha origine proprio dalle nostre abitudini digitali, dall’uso che facciamo delle app sui nostri smartphone, dalle nostre ricerche online, dai nostri post sui social media e dalle cose che diciamo ai nostri assistenti virtuali. Proteggere i nostri figli da tutto questo è diventato difficilissimo anche quando scegliamo di non utilizzare le app o di fare ricerche su Google.

Lo ha dimostrato Janet Vertesi, docente di sociologia di Princeton, quando nel 2014 ha cercato di mantenere segreta la sua gravidanza ai bot, ai tracker, ai cookie e agli altri data sniffers che alimentano i database utilizzati per la pubblicità mirata. Vertesi era consapevole del fatto che le donne incinte sono tracciate più degli altri utenti, perché le aziende preposte alla raccolta e alla vendita dei dati stimano che identificare un “soggetto in gravidanza” equivalga a conoscere l’età, il sesso e la posizione di 200 utenti generici. In un articolo pubblicato sulla rivista Time, Vertesi ha spiegato che cercare di nascondere la sua gravidanza l’ha fatta apparire e sentire come una criminale, perché per accedere ai contenuti di BabyCenter è dovuta ricorrere a diversi escamotage, come, per esempio, l’utilizzo di Tor, il software che permettere di navigare in rete in maniera anonima. Grazie al suo esperimento, Vertesi è arrivata alla conclusione che cercare di nascondere la sua gravidanza era quasi impossibile per vie legali.

Il giorno del Ringraziamento del 2016, quando ho scelto di cercare le informazioni su Google, ero a conoscenza dell’esperimento di Vertesi e sapevo benissimo che provare a nascondere la mia gravidanza sarebbe stato non solo difficile, ma molto probabilmente inutile, perché le mie figlie venivano sorvegliate, tracciate e profilate in modi che sfuggono totalmente al mio controllo. Ma cosa succede ai dati dei bambini? Chi li controlla? Come funziona il sistema?

Datificati da prima della nascita: il ruolo delle app

Nell’aprile del 2019 il Washington Post ha pubblicato la storia di Diana Diller, una signora di trentanove anni residente a Los Angeles che aveva ricevuto dal suo datore di lavoro un incentivo di un dollaro al giorno in voucher per incoraggiarla a usare l’app di gravidanza Ovia. Si tratta di una pratica comune negli Stati Uniti, dove l’assicurazione sanitaria è molto spesso legata al posto di lavoro e quindi le aziende incoraggiano gli impiegati a usare diverse app mediche, conosciute in inglese come mHealth (mobile Health) in linea con i programmi aziendali wellness. Diana Diller non ci ha pensato molto: ha scaricato Ovia, accettandone i termini di utilizzo, e ha riportato tutte le informazioni sulla sua gravidanza e sul suo bambino, senza pensare che, così facendo, anche il suo datore di lavoro avrebbe avuto accesso alle informazioni che condivideva sull’app. 

Negli Stati Uniti diverse aziende stanno facendo accordi con le compagnie mHealth e offrono incentivi per utilizzare le app proprio per avere accesso a dati sulla salute dei loro dipendenti. Un’azienda come Ovia condivide con i datori di lavoro le informazioni raccolte attraverso l’app in forma aggregata, ovvero anonima. Superficialmente, simili incentivi e pratiche digitali sembrano innocue, eppure i rischi per la privacy individuale sono enormi. I dati aggregati, infatti, possono essere ri-identificati, soprattutto in quelle aziende con un piccolo numero di dipendenti o in quegli ambienti di lavoro dov’è possibile raccogliere altre informazioni sulle gestanti durante le conversazioni tra colleghi, e quindi incrociare queste informazioni con i dati aggregati.

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Al momento del download, Diana Diller non aveva pensato a tutto questo. Nella sua intervista apparsa sul Washington Post racconta che la sua scelta di usare Ovia – per quanto a posteriori le sembrasse naïve – in realtà era dovuta al fatto che lei aveva creduto davvero che la sua azienda “la stesse incoraggiando a prendersi cura di sé”. È proprio quest’idea della cura di sé e dei propri bambini che viene maggiormente enfatizzata dal business delle app mediche, cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni. Un’indagine di Grand View Research pubblicata nel febbraio del 2021 stima il valore totale del mercato delle mHealth nel 2020 in 45,7 miliardi di dollari e prevede un tasso di crescita annuale del 17,6 per cento tra il 2021 e il 2028. 

Il FemTech – ovvero il settore delle app di gravidanza, maternità e salute dedicato alla donna – costituisce una parte significativa di questo mercato che, secondo Emergen Research, nel 2027 varrà 60 miliardi di dollari. Una crescita così rapida indica che milioni di donne in tutto il mondo usano queste app, perciò se vogliamo capire il fenomeno della datificazione dei bambini dobbiamo cominciare proprio da qui. Il tracciamento medico dei nascituri e delle donne incinte non è certo una novità. Come fa notare la sociologa Deborah Lupton, è da secoli che i non (ancora) nati vengono monitorati, analizzati e datificati, da parte della ricerca scientifica (medici e ospedali) e delle stesse famiglie che in passato hanno documentato la gravidanza della futura mamma e i primi mesi di vita del neonato attraverso diari, fotografie, video amatoriali e altro. Quando è nata mia figlia, mia madre mi ha mostrato i quaderni dove lei annotava la mia routine quotidiana nei miei primi giorni di vita: quanto crescevo in peso e altezza, quanto avessi mangiato e dormito e così via. 

Le informazioni su quei quaderni ingialliti dal tempo non sono molto diverse da quelle che vengono condivise sulle app dai genitori al giorno d’oggi. Eppure, ci sono due grandi differenze rispetto al passato. Da una parte le famiglie che usano queste app possono aggregare in un’unica banca dati informazioni che prima erano raccolte in luoghi diversi: informazioni mediche (come le prime ecografie, le dimensioni del feto, il numero di calci…), informazioni sulla routine quotidiana (quello che hanno mangiato le gestanti o i neonati, quanto hanno dormito…), informazioni psicologiche e personali (oscillazioni o cambiamenti di umore, pensieri, progetti futuri…) e informazioni più mondane (liste della spesa, idee regalo, organizzazione di feste…). Dall’altra parte, mentre i quaderni ingialliti dal tempo utilizzati da mia madre sono rimasti chiusi in un cassetto, i dati che i genitori condividono attraverso le app vengono tracciati e condivisi da una grande quantità di aziende a livello globale.

Quindi, anche se il tracciamento della gravidanza e dei neonati esiste da molto tempo, le mHealth app hanno trasformato questa pratica storica in modo significativo, mettendola a servizio del business di raccolta e rivendita dei dati.

Nel marzo del 2019, i risultati di una ricerca pubblicata sul British Medical Journal hanno dimostrato come su 24 app mHealth, 19 hanno condiviso i dati degli utenti con i loro partner e fornitori di servizi (terze parti), i quali hanno a loro volta condiviso i dati con 216 “quarte parti”, tra cui società tecnologiche multinazionali, società di pubblicità digitale, società di telecomunicazioni e un’agenzia di credito (sì, le agenzie di credito stanno raccogliendo i dati dei bambini prima della loro nascita!).

Di tutte queste 216 quarte parti, solo tre appartenevano al settore sanitario. Il documento ha inoltre dimostrato che i dati sono stati condivisi con diverse aziende Big Tech, tra cui Alphabet (Google), Facebook e Oracle, tutte in grado di aggregarli facilmente sotto un unico profilo ID (Grundy et al., 2019). Durante la mia ricerca, ho incontrato molti genitori consapevoli di tutto questo  Come mai, dunque, sentivano comunque il bisogno di utilizzare queste tecnologie?

Perché le famiglie usano le app di tracciamento?

Katie, mamma di un bambino di sei mesi e di un ragazzino di tredici anni, mi ha raccontato un giorno di essere entusiasta del baby-tracker che usava, perché era un’app che le permetteva di condividere tutte le informazioni di suo figlio con il marito e la babysitter, e di sapere esattamente quanto il bambino avesse mangiato, dormito, giocato eccetera. Mi ha pure spiegato di utilizzare l’app per mostrare le statistiche al pediatra nel caso ci fossero cambiamenti o evoluzioni da notare.

Uno degli aspetti più affascinanti dell’intervista è stato registrare il suo entusiasmo per il tracciamento, il fatto che dichiarasse apertamente di “amare i dati e le statistiche” e che giustificasse tutto questo spiegando che la raccolta e analisi dei dati le davano una “sensazione di sicurezza e controllo”. Katie ovviamente non è la sola a pensarlo; la raccolta dati è spesso collegata a un bisogno di controllo.

Questo è emerso chiaramente nei commenti online che ho analizzato. Molti descrivevano l’app di gravidanza che usavano come “una fonte importante di informazioni a cui non posso rinunciare”, altri come “un grande supporto”, una mamma l’ha definita addirittura “la mia migliore amica”. I commenti che ho analizzato mi hanno fatto notare quanto fosse rassicurante la raccolta dati in un momento della vita che di solito è pieno di ansie e incertezze. “Sono una persona ansiosa per natura” scrive una utente dell’app What To Expect. “Quindi, come futura mamma, la mia ansia è fuori controllo! Questa app ha una risposta a ogni domanda che mi viene in mente, anzi conosce anche le domande che non mi sono ancora venute in mente.” 

Le aziende che producono queste app e che incoraggiano i loro utenti a “raccogliere il maggior numero di dati possibili” sono consapevoli del fattore umano e lo sfruttano vendendo “certezze” e rassicurazioni.

È per questo che offrono accesso a vari tipi di articoli di natura medico-scientifica e il supporto di “esperti” Le famiglie non usano queste app solo per un bisogno di controllo, molto spesso le usano anche per la loro dimensione interattiva e partecipativa. Quando ho condotto la mia ricerca, ho notato che molti commenti degli utenti non venivano scritti da donne incinte, ma da mariti, future nonne, future zie e via dicendo. Una futura nonna, per esempio, scriveva di come l’app “mi aiuta a ricordare il passato e a condividere l’esperienza con mia figlia incinta”. Un’altra utente si presentava come “la figlia di una mamma in attesa di un figlio” e raccomandava “di utilizzare l’app a tutti quelli che hanno una gravidanza in famiglia”. Un padre raccontava di come l’app “mi permette di capire meglio l’esperienza della mia compagna” e aggiungeva: “Quando diventerà mia moglie e il bambino sarà nato, ci ricorderemo di quest’app”.

Tra i tanti commenti entusiasti e quelli che invece si lamentavano per i problemi tecnici, ricordo di essere rimasta particolarmente colpita dalle parole di un neopapà lasciate sull’app MyPregnancy che gettavano una luce più sinistra sull’uso di queste app come forma interattiva: “L’app ha un sacco di informazioni sugli alimenti che si dovrebbero mangiare e su come mantenere la madre e il bambino in salute. […] Mia moglie è infastidita dal fatto che ho accesso a tutte queste informazioni quando le ricordo cosa dovrebbe mangiare per la corretta alimentazione sua e del bambino”.

Ho trovato questo commento particolarmente interessante. Una delle cose meravigliose dell’antropologia sta proprio nel fatto che i piccoli dettagli quotidiani che emergono durante la ricerca sul campo – che si tratti di una storia, di un’esperienza o anche di un semplice gesto o sguardo – molto spesso parlano delle grandi trasformazioni sociali e storiche che ci troviamo a vivere. Appena ho letto il commento del neopapà su MyPregnancy ho pensato alla teoria di Mark Andrejevic sulla “sorveglianza laterale”. Secondo lo studioso di scienza della comunicazione, i social media e altre tecnologie di raccolta dati, come le app, hanno portato a una normalizzazione e interiorizzazione di pratiche di sorveglianza che prima venivano utilizzate soprattutto da istituzioni governative, come la polizia, o nel mondo del marketing, e ci siamo trovati tutti a sorvegliare i nostri amici, conoscenti, familiari e figli. Il commento del neopapà “entusiasta” di MyPregnancy ci fa notare che quando le famiglie usano le app di tracciamento non c’è più confine tra partecipazione e sicurezza, sorveglianza e controllo. 

Da I figli dell’algoritmo di Veronica Barassi. In alto, illustrazione di copertina di Noma Bar. 

Veronica Barassi

È un’antropologa e docente universitaria italiana. Insegna Scienze della Comunicazione presso la Scuola di scienze umane e sociali dell’Università di San Gallo. Si occupa delle implicazioni sociali e politiche delle tecnologie dei dati e dell’intelligenza artificiale. I figli dell'algoritmo è il suo primo libro in italiano.