In Scrivere civile. Pubblicità e brand al servizio della società, Paolo Iabichino ci racconta che la pubblicità diventa civile quando è in grado di ribaltare i paradigmi e spingere all’azione. Quando riesce a costruire narrazioni che siano davvero al servizio del bene pubblico, quando si pone come obiettivo un impatto sociale e culturale che migliori la società intera. Non basta più ammantarsi dietro a un nobile purpose: oggi ciò che conta è come un brand agisce nel mondo reale, in che modo si fa portatore del cambiamento, quanto coraggio dimostra quando baratta un po’ di consenso per sollevare un dibattito all’interno della società. Perché contribuire al disegno di progetti di comunicazione che abbiano un impatto positivo sulle comunità e sull’ambiente, progetti che possano dare una risposta vera alle sfide che questo tempo ci impone, dovrebbe essere la vocazione ultima per chiunque faccia il mio mestiere.

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Il 5 novembre 1754, in un’aula dell’Università di Napoli, il filosofo Antonio Genovesi tenne una prolusione memorabile destinata a segnare la storia dell’intera penisola italiana: era appena nata la cattedra in Meccanica e Commercio, la prima in Europa interamente dedicata all’economia e la prima tenuta in italiano invece che in latino (ma questa è un’altra storia). Quel corso ben presto divenne una sorta di laboratorio di prassi e di teoria attorno a cui ruotavano gli intellettuali più vivaci dell’epoca, filosofi e agronomi, economisti e teologi, in un ribollìo di idee che in una decina d’anni si cristallizzò nelle Lezioni di commercio o sia di economia civile, la summa del pensiero genovesiano, base dell’insegnamento economico in Europa per tutto l’Ottocento.

Genovesi scrisse il suo trattato in una Napoli illuminista, che stava cercando di definire una nuova cultura scientifica, economica e tecnologica grazie a una comunità di intellettuali varia e cosmopolita che univa un sapere pratico agli studi filosofici. Le Lezioni sono un testo militante e appassionato, un manifesto per l’economia civile (anzi, un battesimo) che qui trova i suoi punti cardinali grazie a una teoria della reciprocità delle relazioni umane ispirata alle leggi di gravità newtoniane. “Mai la matematica e la fisica non han servito così bene alla teologia, quanto a’ nostri giorni”, scrive Genovesi nella sua biografia: le relazioni economiche sono rapporti di mutua assistenza, di amicizia e di fratellanza, sono bidirezionali. Un po’ come accade a due corpi che si attraggono nello spazio, anche questi tipi di rapporti si fanno meno intensi con l’aumentare di un certo tipo di distanza, la distanza sociale.

Due i cardini dell’economia civile: la fiducia e la felicità. E qui dovete darmi un po’ della vostra attenzione, ne varrà la pena, promesso. La fiducia, per Genovesi, è una precondizione allo sviluppo economico: non solo quella privata, ovvero la reputazione che un bene ha sul mercato, ma soprattutto quella pubblica che ha a che fare con l’amore che un’impresa ha per il bene comune, che rappresenta una sorta di capitale sociale, perché tiene conto di tutta quella trama di relazioni e di valori che mantengono in piedi un’economia. Non si tratta di un mezzo, ma di un fine: insomma, si tratta della vera ricchezza di qualsiasi mercato.

La felicità, d’altra parte, è intesa in senso aristotelico. Scrive Genovesi:

Fatigate per il vostro interesse; niuno uomo potrebbe operare altrimenti, che per la sua felicità; sarebbe un uomo meno uomo: ma non vogliate fare l’altrui miseria; e se potete, e quanto potete, studiatevi di far gli altri felici. Quanto più si opera per interesse, tanto più, purché non si sia pazzi, si debb’esser virtuosi. È legge dell’universo che non si può far la nostra felicità senza far quella degli altri.

Al contrario dell’Umanesimo protestante statunitense che pone al centro del mercato la ricerca della felicità individuale, l’economia civile coltiva un altro tipo di felicità, uno stato d’animo che è anche un diritto-dovere, perché legato non tanto a una dimensione personale, quanto alla società: si tratta di una felicità pubblica. Per Genovesi la vita civile è l’unico luogo in cui si possa davvero essere felici, perché essere felici vuol dire far felici le altre persone: la felicità o è pubblica o non è.

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Come si traduce all’interno di un’impresa? Be’, tanto per cominciare un imprenditore o un’imprenditrice civile incarna con la propria azienda un progetto più ampio, che ha come faro il bene comune, la comunità che abita, le istituzioni. Per un’impresa civile il profitto è importante, ma non è lo scopo principale. Il suo valore non è determinato soltanto dai profitti, ma dalla qualità dei beni che produce, dall’impatto che ha sull’ambiente e sulla vita delle proprie persone: insomma, un’impresa civile ha una missione da compiere, una storia da raccontare. Ha un valore intrinseco grazie agli effetti che ha sul pianeta, perché mette in scena una certa idea di mondo, un mondo più giusto.

Un’impresa civile ha bisogno di persone, di relazioni, di significati.
Genera senso e creatività, oltre che ricchezza.
Produce passione, oltre che prodotti.

Per questo, storicamente, l’economia civile è stata amata soprattutto da chi studia economia applicata, scienza politica e giurisprudenza…“L’economia civile è viva nella cooperazione sociale, nel commercio equo e solidale, nell’economia di comunione, nella banca etica, nelle imprese sociali e in tutte quelle forme di impresa che fanno della reciprocità e delle virtù civili interiorizzate il loro principale motivo d’azione”, scrivono Bruni e Zamagni nel loro L’economia civile. In tutti i brand civici, insomma.

Oggi le nuove generazioni stanno finalmente mettendo al centro dell’economia temi di natura sociale, come la crisi climatica, la gender equality, tutti i tipi di discriminazioni e di disuguaglianze. Perché i consumi reagiscono agli spostamenti di paradigmi che attraversano la società e a loro volta muovono i comportamenti delle aziende, che rimodellano il proprio business sui trend di mercato. Fino a qualche anno fa marketing, creatività, media e advertising trattavano queste istanze come dei semplici trend a cui adeguarsi, ma oggi l’urgenza di queste tematiche sta provocando uno tsunami nell’economia, un’onda anomala di consumi che non può più essere ignorata. Questa è una rivoluzione quantica ed è destinata a durare. Non si torna più indietro.

Le regole del gioco sono cambiate per sempre.

Paolo Iabichino

Scrive pubblicità dal 1990. È stato direttore creativo del Gruppo Ogilvy Italia, lavorando su importanti brand nazionali e internazionali. Il suo libro Invertising (2009) è diventato un manifesto per un messaggio pubblicitario più consapevole. Due volte giurato al Festival di Cannes, è tra i Maestri della scuola Holden. Attualmente è codirettore della Summer School Impact Design dell’Università di Urbino. Per anni è stato tra le firme di Wired Italia e del mensile del Non Profit Vita. Da sempre scrive per il fundraising e il terzo settore. Ha firmato progetti di comunicazione per Aba, Anlaids, Cadmi, Emergency, Legambiente, World Food Programme, ha curato il lancio di Clothest*, la prima startup solidale dedicata al mondo della moda sostenibile. Con Ipsos Italia ha fondato l’Osservatorio Civic Brands, progetto editoriale e di ricerca che racconta l’impegno sociale delle aziende e brand in Italia. Nel novembre 2021 è stato insignito della Laurea Magistrale Honoris Causa in Comunicazione e Pubblicità per le Organizzazioni all’Università di Urbino Carlo Bo.