Viviamo in un’era complicata – questo ormai lo ripetiamo, leggiamo o sentiamo dire talmente spesso che, a tratti, ho la sensazione che non sia proprio così. Con maggior precisione direi che, se la complessità è senza alcun dubbio un tratto caratteristico di questi tempi che percepiamo spesso come duri o difficili (ma siamo sicuri che quando ricordiamo tempi migliori, un’epoca magari antica e più bella e semplice, più bella in quanto più semplice, le cose stiano proprio così? Due o tre possibili risposte le troverete nelle pagine che seguono), non è forse possibile trarne indicazioni positive? È sulla base di riflessioni come questa che abbiamo pensato di dedicare il nuovo numero della Meraviglia al tema della memoria e dei ricordi, al loro apparente contrario, l’oblio, e alla coscienza, lo “strumento” che – mi perdonino le persone più esperte per la semplificazione estrema – percepisce lo scorrere del tempo, che ci mette per così dire nelle condizioni di ricordare, oppure ci difende dal rischio di farlo.

Coscienza, ricordo, dimenticanza

La coscienza, il ricordo e la dimenticanza ci sono sembrati, infatti, campi di indagine particolarmente favorevoli per ragionare sul nostro tempo, fatto di (apparenti) consapevolezze non umane; difficoltà di esercitare la nostra stessa memoria di fronte alla disponibilità – o tentazione – del gigantesco archivio del web sempre a disposizione; rimpianto delle tradizioni; confronto con sensibilità diverse, e tanto altro ancora. In effetti – e, significativamente, si tratta di un’intuizione che non emerge dal semplice ricordo, all’apparenza così lineare, ma dalla coscienza del ricordo – la memoria stessa è una facoltà umana fra le più complicate. Ogni giorno, ogni minuto, ogni secondo, ricordiamo e dimentichiamo, facendo e disfacendo la trama del tempo che la nostra coscienza riceve e ricrea.

Forse, e forse esagero, la complessità che sempre più insistentemente attribuiamo al mondo e la complessità della coscienza, luogo impossibile della memoria e dell’oblio, sono, in definitiva, nulla più che una questione di tempo. O, meglio, di accesso al tempo. Che vuol dire accesso alla storia, che, a sua volta, vuol dire narrazione. La storia e i suoi momenti sono forse solo momenti del processo misterioso, tortuoso e a tratti inquietante del tempo che viene recepito e narrato. Non è certo questo il luogo in cui soppesare i pro e i contro di tesi e controtesi secolari circa la natura del tempo – se esista come realtà fenomenica o se sia puro vissuto individuale – per cui con una mossa di una strategia involuta, quasi scacchistica, le sosterrei entrambe per sostenere che, se vogliamo iniziare a sondare il portato positivo, fantastico, della tanto invocata complessità, la strada migliore è forse l’intersezione fra tempo esteriore e tempo interiore. Riscoprire le infinite forme attraverso cui la nostra coscienza accede al tempo del mondo e il tempo del mondo si insinua nella nostra coscienza.

A leggere le pagine che seguono sembra in effetti di avere una conferma dal retrogusto ermetico della sostanziale isomorfia fra microcosmo e macrocosmo – il tempo della storia è afflitto dagli stessi dolori del tempo psichico. Per ricordare bisogna dimenticare, per dimenticare bisogna aver ricordato. Perché la nostra coscienza possa dare una forma al mondo, perché possa trovarvi nuove forme, nuove esperienze, nuove visioni, deve vivere senza sosta questa scissione. Altrimenti, come gli immortali narrati da Borges, saremmo schiacciati dal peso di una memoria infinita, e costretti a tracciare nella sabbia forme senza senso. Vedremo così in queste pagine come la figura di Leopold Bloom, anti-anti-eroe dell’Ulisse, sia un dispositivo esperienziale grazie a cui aprire la nostra coscienza a nuove realtà a un tempo passate e future; come l’esplorazione cosmica di Stanisław Lem sia in realtà un viaggio interiore al cuore dei processi psichici. O, ancora, come la culture war sia forse l’effetto della lotta per l’accesso alla storia da parte di chi dalla storia è sempre stato escluso. E se l’esclusione dalla storia equivale a essere consegnati all’oblio, forse la storia stessa, nella sua dimensione più umana, la politica, si serve, come leggeremo nelle prime pagine, fin dal fondamento della polis, della memoria e della dimenticanza come di due dispositivi fondanti dell’identità di un popolo.

Il tempo impossibile della memoria

Un’architettura paradossale, di frammenti mai stati unitari, quella della memoria e della coscienza – resa graficamente dalle figure impossibili di Ivan Seal, artista e musicista inglese i cui dipinti ci portano verso la conclusione di questo numero dove, fra molte altre cose, ricordate o solo immaginate, indagheremo la distorsione intrinseca del passato, che sola, forse, ci permette di ricordarlo. Dicevo, e me ne stavo quasi dimenticando, che la complessità è forse nulla più che una questione di tempo. Il tempo impossibile della memoria, che è storia, che è narrazione. Un tempo labirintico in cui convivono un passato fantasmatico – come direbbero gli psicanalisti – un presente sempre assente, e un futuro insondabile. La storia del mondo è narrata come la storia della nostra memoria – con ellissi, rimozioni, cancellazioni e spostamenti. Ma è proprio nel suo tempo impossibile che possiamo trovare nuovi meravigliosi percorsi della coscienza. L’inedita – in questo caso al di fuori di metafora e iperbole – quantità di dati dell’archivio digitale sembra condannarci, come suggerisce in un bellissimo e brevissimo libro il musicista e filosofo François Bonnet, a un costante e reiterato atto di amnesia.

Un’amnesia indotta in cui però, come suggerisce il prefisso, non è possibile ricordare e aver ricordato. Se sembra impossibile l’esplorazione fantastica della complessità è perché non ne capiamo il tempo e non capiamo come narrarlo. Queste pagine, si dirà, non possono avere la pretesa di capirlo – io di certo non lo capisco – tuttavia permettono di seguire il tortuoso sentiero bidirezionale che lega coscienza e storia: la memoria. E la memoria della memoria. E riconsegnare il tumultuoso vortice della realtà vissuta alla tranquillità dell’atto esplorativo per eccellenza – la scrittura. Scrittura che è, da sempre, dispositivo di oblio e dispositivo di memoria. Perciò mi piace pensare che anche questo numero possa a un certo punto – per qualche momento – essere dimenticato, per poi essere riscoperto e ricordato, trasformarsi in un nuovo tassello nella memoria, nella storia, nelle storie, di chi lo leggerà, o forse l’avrà già letto – un frammento nell’impossibile puzzle della storia che vorremmo poter raccontare in questo momento.

Daniele Rosa

è il direttore editoriale de "La meraviglia del possibile" e della Luiss University Press