Cosa c’è di più bello e sublime della Terra vista dal cielo? Un pensiero del genere deve aver attraversato anche la mente eccelsa di Immanuel Kant, che alle forme di vita extraterrestri dedicò pagine tanto enigmatiche quanto evocative.

Lo scorso novembre abbiamo pubblicato in italiano l’ultimo libro di Peter Szendy, autore eclettico e filosofo tra i più influenti in patria e non solo. Szendy è stato allievo di Jacques Derrida. Facendo ampio uso di fonti e strumenti provenienti dai più disparati ambiti del sapere e dell’arte, nei suoi lavori ha cercato incessantemente quel punto di vista alternativo che possa consentirci di decifrare il mondo. Kant e gli extraterrestri, tradotto oggi per la prima volta in italiano, è il suo lavoro più letto e amato. Di seguito vi proponiamo un estratto dal Capitolo Perché no? La filosofinzione del tutt’altro.

Kant Immanuel

Perché no? La filosofinzione del tutt’altro – Kant e gli extraterrestri, Peter Szendy

Kant credeva davvero agli extraterrestri? Ci credeva nel modo di chi, oggi, ritiene di essere stato testimone di apparizioni che preannunciano la venuta di questi abitanti di altri mondi? Kant non ha mancato di riportare qua e là le sue convinzioni. Possiamo inoltre trovare, a sua firma, dei passaggi che, letti distrattamente, potrebbero sembrare schizzi di un copione di fantascienza contemporanea. Per esempio, nella Critica del giudizio:

Se qualcuno scoprisse una figura geometrica, per esempio un esagono regolare, disegnata sulla sabbia, in un paese che gli sembra disabitato, la sua riflessione, cercando di farsene un concetto […] non giudicherebbe come principio della possibilità della figura la sabbia, il mare vicino, i venti, o anche le impronte dei piedi degli animali, o qualunque altra causa priva di ragione.

Leggendo questo paragrafo potremmo pensare, per esempio, al film Signs (2003) di Night Shyamalan, in cui l’arrivo degli extraterrestri è annunciato, inizialmente, da immense figure geometriche tracciate nei campi di una provincia scarsamente popolata degli Stati Uniti (Bucks County, in Pennsylvania). Proprio come Kant che dinanzi all’ipotetico esagono regolare disegnato nel deserto sostiene che “la causalità di un simile effetto non [potrebbe] essere contenuta in alcuna causa del semplice meccanismo della natura”, e cioè che si tratterebbe del risultato di un “concetto che solo la ragione può dare”, allo stesso modo i personaggi di Shyamalan escludono, una dopo l’altra, le possibili cause naturali degli improbabili, enormi disegni che scoprono nelle piantagioni di mais: i figli del pastore Graham Hess (Mel Gibson), la figlia Bo e il figlio Morgan, svegliati nelle prime ore del mattino dall’abbaiare dei cani, pensano subito che “sia stato Dio” (I think God did it), cosa a cui il padre si rifiuta di credere; eppure, parlando con la rappresentante della polizia locale che ha appena chiamato, lui stesso dice: “Non può essere stato fatto a mano, è troppo preciso” (can’t be by hand, it’s too perfect). Viene esclusa anche l’ipotesi di un atto vandalico, e, quando le reti televisive di tutto il mondo iniziano a trasmettere le immagini di giganti disegni tracciati nei campi di grano (crop signs) su tutta la superficie terrestre, il sospetto di una possibile causa aliena diventa un’ossessione.

Ma, al di là di queste superficiali analogie tra Kant e la fantascienza contemporanea, e al di là delle opinioni dichiarate o meno del filosofo stesso, quella che ci attende è una domanda ben più radicale: non cercheremo di scoprire che cosa pensasse Kant, nel suo intimo, in merito all’esistenza della vita extraterrestre; cercheremo piuttosto di individuare la necessità di un certo perché no?, di una dimensione filosofinzionale a cui la filosofia non può sfuggire, a cui deve invece esporsi nel momento in cui voglia giudicare e riflettere sul giudizio. O meglio: quando deve confrontarsi con quello che chiamiamo punto di vista.

Il narratore delle Conversazioni sulla pluralità dei mondi di Fontenelle annuncia esplicitamente che, nel futuro, esisteranno forme di “commercio tra la Terra e la Luna”, e alla Marchesa, ancora incredula, dice che “un giorno andremo fino alla Luna”. Quanto a Kant, nella conclusione della sua Teoria del cielo, prefigurava, in modo più cautamente congetturale, se non una futura epoca di viaggi interstellari, almeno la possibilità di soggiornare in altri mondi dopo la morte:

L’anima immortale, per tutta l’infinità della sua vita futura, che nemmeno la tomba può interrompere, ma solo mutare, è forse destinata a rimanere legata per sempre a questo semplice punto dell’universo che è la Terra? […] Chissà se non è invece destinata a conoscere da vicino, un giorno, quelle lontane sfere dell’universo […]? Forse si stanno già formando nuove sfere del sistema planetario, destinate ad accoglierci in altri cieli quando il tempo assegnatoci per il nostro soggiorno sulla Terra sarà scaduto.

In effetti, chi lo sa?

Perché no?

E quali sorprese ci potrebbe riservare l’esplorazione interplanetaria,da vivi o da morti?

Quali forme di vita, alle quali poter infine paragonare una specie umana divenuta in tal modo paragonabile, incontreremo?

Gli extraterrestri secondo Kant

Se negli scritti successivi alla svolta critica Kant si impone (non senza difficoltà) di non varcare la soglia della libera speculazione sugli abitanti di mondi diversi, qui, in questo testo cosiddetto giovanile o precritico, egli si imbarca in un tentativo ragionato di classificazione delle modalità di esistenza e di pensiero extraterrestri:

Il corpo degli abitanti di Giove sarà costituito di un materiale di gran lunga più leggero e fluido, così che l’azione molto limitata che il Sole può esercitare a questa distanza potrà fornire macchine dal potere motorio tanto potente quanto quello delle zone inferiori. Tutto ciò può essere espresso ora in un univoco concetto generale: il materiale di cui sono formati gli abitanti dei diversi pianeti, e anche gli animali e le piante che si trovano su di essi, deve in generale essere tanto più leggero e sottile – così come l’elasticità delle fibre e la conformazione dei corpi saranno tanto più perfetti – quanto maggiore è la distanza dei pianeti dal Sole. […] La perfezione del mondo spirituale, come quella del mondo materiale, cresce e progredisce gradualmente nei pianeti, in proporzione alla distanza dal Sole, da Mercurio a Saturno, o forse anche oltre.

In questa libera speculazione etnocosmologica sembra che Kant non si preoccupi ancora in modo eccessivo di regolare criticamente la dimensione finzionale insita nella sua filosofia. Nonostante l’ammonimento posto all’inizio della terza parte della sua Teoria del cielo (“ritengo che usare la filosofia per sostenere, con una certa leggerezza, le esagerazioni solo verosimili del proprio ingegno significhi diffamarne il carattere”), prevale quella che lui stesso chiama la “libertà d’invenzione”. E prevale a beneficio di un piacere che, come dichiara in sordina la conclusione, pare essere di natura estetica:

È lecito, anzi è conveniente dilettarsi con simili pensieri […]. In realtà, quando si è nutrito il proprio animo con osservazioni di questo genere, uno sguardo al cielo stellato, in una notte chiara, dà quel piacere di cui solo le anime nobili sono capaci. Nel silenzio universale della natura, nella quiete dei sensi, la nascosta facoltà di conoscere dello spirito immortale parla una lingua indicibile e suscita pensieri non sviluppati fino in fondo, che si sentono bene, ma non si lasciano descrivere.

Non è possibile leggere queste righe, che chiudono la Teoria del cielo, senza vedervi un’anticipazione di alcuni passaggi della Critica del giudizio, su cui torneremo più avanti. Ma soprattutto, la speculazione agisce come se – sì, come se – la prospettiva geografica e temporale, in ogni caso pienamente terrena, del progresso umano fosse proiettata nel cosmo ed estesa allo spazio cosmico. Poiché sono il Terreno e la sua Terra che, nella scala kantiana degli esseri viventi cosmici, si trovano nel mezzo, nel punto medio o mediano. Un punto che certamente non è più il centro, come negli antichi sistemi cosmologici dell’epoca antecedente alle scoperte di Newton e Copernico, ma che tuttavia ne conserva alcune caratteristiche.

La natura umana, che nella scala degli esseri occupa per così dire il gradino di mezzo, si trova a uguale distanza dai due limiti estremi della perfezione. Se l’idea di una classe sublime di creature razionali che abitano Giove o Saturno suscita inevitabilmente l’invidia dell’uomo e la consapevolezza della propria inferiorità l’umilia, può però consolarlo e dargli qualche conforto uno sguardo sul grado più basso delle creature che abitano Venere e Mercurio, le quali sono poste molto al di sotto della perfezione umana. Che incredibile spettacolo si aprirebbe a quello sguardo! Da un lato vedremmo delle creature pensanti, rispetto alle quali un groenlandese o un ottentotto si sentirebbe un Newton; dall’altro vedremmo delle creature che guardano Newton come si guarda una scimmia.

Qui l’aspetto importante non è tanto la semplice espansione o amplificazione cosmica di un’antropologia e di una geografia geocentriche, che fanno corrispondere l’Europa di Newton a Giove e le etnie primitive a Mercurio. In questo senso, la narrativa extraterrestre non è propriamente equiparabile alle Lettere persiane di Montesquieu, o a qualsiasi altro caso in cui si ricorra all’artificio dell’esotismo per meglio parlare, sotto le finzionali spoglie di un laggiù, di ciò che accade quaggiù, dove ci troviamo noi. Poiché la filosofinzione della Teoria del cielo – che, come vedremo, sopravvive, addolcita, negli scritti successivi di Kant – sembra doversi necessariamente estendere oltre l’esperienza possibile: non semplicemente verso l’altro, ma piuttosto verso il tutt’altro.

 

Kant e gli extraterrestri

Peter Szendy