Questo testo è tratto dalla rubrica ‘Ucronie’ de La meraviglia del possibile n. 6 – Stelle. Mondi celesti, poesie cosmiche e materie oscure

Nel 1955, in un’intervista apparsa il 17 novembre su Tempo, Enrico Roda chiese a Eugenio Montale chi fosse la sua “eroina nella vita reale”. “Una mia vecchia serva analfabeta” rispose il poeta. “Io solo ne ricordo il nome.” Due decenni dopo, nel 1977, Montale avrebbe incluso nel Quaderno di quattro anni una poesia intitolata “Quel che resta (se resta)”: “La vecchia serva analfabeta/ e barbuta chissà dov’è sepolta/ poteva leggere il mio nome e il suo/ come ideogrammi/ forse non poteva riconoscersi/ neppure allo specchio/ ma non mi perdeva d’occhio/ della vita non sapendone nulla/ ne sapeva più di noi/ nella vita quello che si acquista/ da una parte si perde dall’altra/ chissà perché la ricordo/ più di tutto e di tutti/ se entrasse ora nella mia stanza/ avrebbe centotrent’anni e griderei di spavento”.

Com’è ben evidente dai versi centrali della poesia, la vecchia serva analfabeta e barbuta non era per Montale un segnaposto affettivo e biografico, piuttosto il punto di partenza – anche affettivo e biografico, certo – di una riflessione sul valore dell’analfabetismo e, di conseguenza, della cultura. In quella stessa intervista a Enrico Roda, del resto, alla domanda su che cosa lo spaventasse di più il poeta aveva risposto citando l’istruzione obbligatoria, oltre al suffragio universale e al voto alle donne. Aggiungendo però che si trattava di tutte cose “purtroppo, necessarie”. Una chiosa non di maniera, ma sostanziale, sulla quale torneremo. Negli anni compresi fra il 1955 e il 1977 Montale riprese almeno altre due volte il tema degli incolti che “della vita non sapendone nulla, ne sanno più di noi”. In un articolo uscito sul Corriere della Sera il 9 ottobre del 1962 – “L’uomo nel microsolco” – affrontava una serie di argomenti tipici della sua riflessione: il “vitalismo sfrenato” del Novecento, e perciò il suo presentismo, il rapporto col passato, la necessità o casualità del divenire storico. Alla fine del ragionamento, congetturale e inconcludente, si chiedeva se non restassero altre ipotesi. E si dava una risposta che, non potendola io parafrasare senza danno, devo citare ampiamente: “Per l’uomo della strada – e qui intendo dire per l’uomo semplice – ne esistono certamente altre. L’uomo della strada ha appreso da secoli che c’è un bene e un male e che l’uomo, anche se ignora quasi tutto di sé, può essere il primo giudice del proprio comportamento; e sa pure che il giudizio ch’egli dà di se stesso lo qualifica ai propri occhi, lo rende diverso, lo muta e lo muta in meglio. L’uomo della strada sa che prima di lui sono esistiti i suoi antenati, che non possedevano la televisione e l’aeroplano ma che penetravano il tessuto del mondo con facoltà oggi totalmente atrofizzate […] L’uomo della strada non produce opinioni, non fonda partiti, non dirige giornali, non frequenta i festival, non conosce la critica del linguaggio, ignora i problemi centrali del cinematografo e non dispone di termini filosofici per definire la sua condizione di povero diavolo che lavora per vivere e suppone che sia cosa degna vivere da uomini ragionevoli in un serraglio di pecore laureate. L’uomo della strada, insomma, non fa la storia ed ha anche il vago sospetto che sia altamente dignitoso non farla. […] Eppure la vera storia, quella che conta e che non si trova nei libri, è proprio questa, fatta dagli uomini semplici; ed è la sola che regge ancora il mondo”.

Nell’aprile del 1971, in un’intervista a Raffaello Baldini per Panorama, Montale definiva l’analfabetismo “una grande forma di cultura”. E continuava: “È una forma primordiale di saggezza che distingue il bene dal male, il bianco dal nero, che limita le capacità dell’uomo al minimo, ma su queste basi sta saldamente in piedi, inconfutabile […] è l’uomo nella sua purezza, che giudica fermo e sicuro, che vede e sa più di noi. Sa quel che bisogna sapere, come si deve vivere secondo la natura umana”. Chiedendo al poeta “Ma come imparare dall’analfabeta?”, l’intervistatore gli consentiva d’altra parte di aprire nel ragionamento una breccia al di là della quale s’intravedeva un panorama ancora più vasto. “La cultura laureata”, rispondeva infatti l’intervistato, “può, se digerita bene, portare a un alto livello di analfabetismo. A un analfabetismo al quadrato. Purtroppo la digestione della cultura è un problema complesso”.

“ACCETTATE IL VOSTRO TEMPO” – AMMONIVA IL POETA – “MA PRENDETELO CON LE MOLLE, NON SIATENE VITTIME. CERCATE DI CONSERVARE LA DECENZA, LE REGOLE DELLA CARITÀ, L’AMORE, CHE È LA PIÙ GRANDE FORZA DELLA VITA”

Se scavalchiamo la breccia e ci addentriamo nei campi cui essa dà accesso, ci rendiamo conto di quanto le facoltà intuitive, istintive quasi, cui secondo Montale poteva accedere l’analfabeta assomigliassero a quelle che egli riteneva nutrissero la poesia – o quantomeno la sua poesia. “L’avvenire è nelle mani della Provvidenza, Marforio: posso continuare e posso smettere domani” aveva scritto nel 1946 in un’importante “intervista immaginaria” pubblicata da La Rassegna d’Italia. Perché “non dipende da me; un artista è un uomo necessitato, non ha libera scelta. In questo campo, più che in altri, esiste un effettivo determinismo. Ho seguito la via che i miei tempi m’imponevano, domani altri seguiranno vie diverse; io stesso posso mutare. Ho scritto sempre da povero diavolo e non da uomo di lettere professionale.

montale pop

Non posseggo l’autosufficienza intellettualistica che qualcuno potrebbe attribuirmi né mi sento investito di una missione importante. Ho avuto il senso della cultura d’oggi, ma neppur l’ombra della cultura che avrei desiderato, e con la quale probabilmente non avrei mai scritto un verso”. In quella stessa intervista immaginaria Montale aveva già affermato, significativamente, di non andare “alla ricerca della poesia”, ma di “attend[ere] di esserne visitato”. Il ragionamento svolto fin qui sembrerebbe mostrarci un poeta antirazionalista, anti-intellettualista, conservatore quando non reazionario, con più che una punta di populismo, robustamente antimoderno. “Terminare la vita / tra le stragi e l’orrore / è potuto accadere / per l’abnorme sviluppo del pensiero / poiché il pensiero non è mai buono in sé. / Il pensiero è aberrante per natura” leggiamo in un’altra poesia del Quaderno di quattro anni, che se possibile rincara la dose. “Era frenato un tempo da invisibili Numi, / ora gli idoli sono in carne ed ossa / e hanno appetito. Noi siamo il loro cibo. / Il peggio dell’orrore è il suo ridicolo. / Noi crediamo di assistervi imparziali / o plaudenti e ne siamo la materia stessa. / La nostra tomba non sarà certo un’ara / ma il water di chi ha fame ma non testa”. Ma come la digestione della cultura che porta all’analfabetismo al quadrato – e ricordate poi la chiosa del 1955 sulla necessità dell’istruzione obbligatoria, del suffragio universale e del voto alle donne? –, anche Montale è un problema complesso. Nessuna delle scelte politiche concrete del poeta, innanzitutto, fu reazionaria o antimoderna: dall’antifascismo piuttosto precoce alla militanza nel Partito d’azione (non certo nell’Uomo qualunque!), dalla scelta repubblicana nel 1946 fino al sostegno alle battaglie radicali degli anni Settanta, dal divorzio alla revisione del Concordato.

Ma non solo: gli scritti di Montale contengono delle esplicite, benché mai incondizionate, dichiarazioni d’amore per la modernità. “Eppure, malgrado tutto questo non vorrei confondermi con i balordi laudatori del passato che incontro ad ogni passo e che formano, anch’essi, una notevole sezione dell’industria delle false idee” scriveva ad esempio sul Corriere della Sera il 15 dicembre del 1961 (“Soliloquio”). “Di che cosa posso lamentarmi? Sono riuscito a vivere a lungo senza lustrare le scarpe a nessun tiranno; ho espresso talvolta opinioni eterodosse senza finire su un braciere ardente; ho visto ascendere ai fastigi della vita pubblica criminosi idioti e non mi è mancato il piacere di vederne alcuni – non tutti! – ruzzolare dai loro seggi (piacere temperato dagli orrori che hanno reso possibile questo evento); ho visto attuarsi grandi conquiste del pensiero umano: prodigiose, ma forse più stupide di quanto si creda; ho incontrato persino eroi inconsapevoli di esserlo e santi non registrati da nessuna anagrafe religiosa; ho visto scomparire molte miserie e molte piaghe, ma anche consolidarsi molte forme di servilismo collettivo; mi è parso di scoprire una sola legge generale: ogni guadagno, ogni avanzamento dell’uomo è pareggiato da equivalenti perdite in altre direzioni, restando invariato il totale di ogni possibile felicità umana. Ma tutto considerato: perché dovrei essere infelice di vivere in un tempo che ha ucciso tante stolte superstizioni e che ancora (non so fino a quando) mi permette di scrivere senza ricevere ordini dall’alto, o dal basso?” “Certo” – così Montale concludeva il ragionamento – “resta aperto il problema di uccidere le nuove superstizioni, non meno funeste delle antiche: e soprattutto quella che l’uomo possa trasumanarsi accettando di essere la semplice parte, una minima parte, dell’universale ingranaggio meccanico”. Il poeta non metteva sul banco degli imputati tanto la modernità, insomma, quanto la sua tendenza (inevitabile, però?) a trasformarsi in un sistema chiuso dopo aver (giustamente) fatto a pezzi tutti i sistemi chiusi precedenti. La sua ricerca ansiosa di nuovi idoli che sostituissero Dio, e soprattutto la propensione a elevare l’uomo a divinità – “E questo è ridicolo, grottesco”. Il suo stolto ottimismo: “Abbiamo ben grattato col raschino / ogni eruzione del pensiero. Ora / tutti i colori esaltano la nostra tavolozza, / escluso il nero”. La sua superba e ingenua fiducia nel proprio potere: “Non si può esagerare abbastanza / l’importanza del mondo / (del nostro, intendo) […] Solo / ci si deve affrettare perché potrebbe / non essere lontana / l’ora in cui troppo si sarà gonfiata / secondo un noto apologo la rana”. “Accettate il vostro tempo” – ammoniva il poeta in un’intervista a Corrado Stajano uscita su Tempo l’8 febbraio del 1964 – “ma prendetelo con le molle, non siatene vittime. Cercate di conservare la decenza, le regole della carità, l’amore, che è la più grande forza della vita”.

Giovanni Orsina

Insegna Comparative History
of Political Systems alla Luiss e dirige la School of Government.