Questo testo è tratto da La meraviglia del possibile n. 5 – Ibridi. Demoni, mostri e altri prodigi
Fra i più nitidi ricordi che conservo del liceo – periodo fra i più mostruosi della vita di chiunque, o, quantomeno, di molti – c’è una brevissima citazione. Ero in prima liceo la prima volta che l’ho letta o forse sentita leggere, non ricordo. La docente parlava a venti volti distratti, uno dei quali, il mio, sentendo la domanda posta da un Adamo disperato a un Creatore compartecipe della sua colpa, si illuminò. “Did I request thee, maker, from my clay to mould me man?” La seconda volta, in terza liceo, circa centocinquanta anni dopo, durante una lezione diversa lessi lo stesso verso in esergo al romanzo di una diciannovenne Mary Shelley. Forse già sapevo, dalla prima lezione, che lì l’avrei ritrovata, o forse no. L’ho accolta comunque con grande meraviglia.
Certo, sono due occasioni distinte, ma nella mia memoria prima e dopo si mescolano. Forse in realtà è Milton che cita Shelley, colpito dalla precisione con cui dipinge il dramma della colpa e della creazione.
Perché, se c’è qualcosa che mi fa tornare spesso a queste parole è proprio la fascinazione per la disperata alchimia di un’argilla inerte che non vuole diventare uomo. O di un uomo che vuole ritornare argilla inerte. Dopotutto il mostro è, etimologicamente, ciò che funge da ammonimento: che cosa c’è di più mostruoso della creatura che ammonisce il creatore della sua colpa? So bene che ogni mia considerazione è a posteriori. Prima c’è solo una profonda, istintiva e indistinta fascinazione. Ma ancora, forse questo a posteriori c’è sempre stato. Così quando ho pensato a questo numero ho voluto seguire un percorso inverso – è poi davvero inverso? Non elaborare un tema, ma lasciare che fosse la pura fascinazione delle autrici e degli autori a indagare quella zona di indistinzione la cui forma informe genera mostri: prodigi, ibridi, chimere.
Sorprendentemente, e proprio come mi aspettavo, i testi che indagano con occhi e stili diversi le diverse declinazioni del mostruoso, risultano tutt’altro che ibridi, o amorfi – sono, singolarmente e nel loro complesso, perfettamente coesi e sistematici. Ma quale mostro non lo è? E questa unità ha permesso, a posteriori – o, forse, già da sempre – a queste righe di prendere forma. Come vorrebbe insegnarmi tanta filosofia francese del secondo Novecento, è proprio nel limite, in ciò che sfugge alla norma, che si producono le più meravigliose creazioni. E l’ibrido, la chimera, è proprio una creatura del limite. Non questo, non quello – allora cosa? Un’altra cosa, più strana, più bella.
Cosa c’è di più strano del nostro rapporto con le nostre creazioni? È qui che si collocano diversi saggi, che ci chiedono, per esempio, se dovremmo rapportarci all’IA come genitori con un bambino prodigio, o, ancora, se la tecnologia non sia che uno specchio, un amplificatore che ci ammonisce e ci accusa delle nostre profonde paure. L’indistinzione segue anche il filo della specie, che non separa solo umano e non umano – il mostro non è solo l’altro, il mostro a volte siamo noi. E così seguiremo grazie a un’archeologia letteraria ciò che ha fatto sì che fra diverse specie di homines ne rimanesse solo una. Avanzando di poco, cronologicamente, evocheremo il demone sumero Pazuzu – dalla sua funzione mitologica alla sua duratura possessione della cultura pop contemporanea. E ancora, il limes di tutto ciò che è altro, affrontando ciò che vuol dire mostro o prodigio, per una cultura che purtroppo viene spesso neutralizzata da questi stessi attributi. Dalla mitologia ai movimenti queer seguiremo la meravigliosa faglia di indistinzione nella cultura islamica, o, altrove, in altri saggi, le implicazioni sociologiche dell’ibridazione e alla mostruosità ambivalente degli Stati sovrani. In breve queste pagine, questa argilla, sono tutto ciò che speravo che fossero: qualcosa di diverso, qualcosa di strano, e quindi più bello. L’alchimia prodigiosa di un’argilla che vuole diventare testo, e un testo che vuole diventare argilla.