I media definiscono le nostre percezioni, organizzano le nostre esperienze e reazioni emotive, condizionando ogni gesto e azione sociale. In breve, confezionano e convalidano un mondo possibile, rendendolo leggibile, coeso e attraente. Così intesa, la “realtà” si riduce a un immenso accumulo di pseudo eventi o di eventi mediali. Ma c’è una tipologia specifica di media che, più fra tutti, è stato in grado di innescare una sorta di ‘trasformazione antropologica’ che ha cambiato non soltanto il modo di fruire le informazioni, ma il fruitore stesso.
Dalla stampa alla televisione: la mutazione antropologica
Nel momento in cui il primato socioculturale della stampa entra in crisi e s’impone il modello audiovisivo, la realtà (percepita) cambia e, con essa, dunque, anche la società nel suo complesso. Di fatto, laddove la fruizione di un testo scritto presuppone una certa capacità di astrazione e l’applicazione di un pensiero logico, richiedendo di conseguenza un coinvolgimento cognitivo intenso, dialettico, profondo, imponendo un’attenzione prolungata e sostenuta, la televisione, al contrario, riduce ogni contenuto ad un flusso inarrestabile e continuo di immagini in movimento, montate in
rapida successione, secondo una logica tutt’altro che trasparente. Come scrive l’autore stesso:
Quello che la gente guarda e ama guardare sono immagini in movimento. Milioni di immagini di breve durata e con rapidi cambi di inquadratura. È nella natura del mezzo il fatto di sopprimere il contenuto delle idee per far posto all’interesse visivo, cioè per far posto a valori spettacolari.
(Neil Postman, Divertirsi da morire, Cap. ‘L’era dello spettacolo’)
La televisione, insomma, in quanto medium, privilegia una forma di comunicazione basata unicamente sull’intrattenimento e sullo svago – entertainment, infotainment, amusement – introducendo un’estetica squisitamente spettacolare. Promuove contenuti visuali, leggeri, rapidi, vacui, frammentati, mercificati, appositamente progettati per divertire, stimolare e distrarre. Pertanto, una società dominata dalla televisione è formata da individui superficiali, distratti, incapaci di sviluppare un pensiero critico. Postman chiarisce che il problema non è tanto il divertimento quanto il contesto: dato che la televisione presenta tutti i contenuti, anche quelli importanti, in modo disimpegnato e banale, essa finisce inevitabilmente per banalizzarli. Nella misura in cui la televisione acquista una centralità all’interno del mediascape americano, tutti gli altri mezzi di comunicazione tendono a conformarsi ai suoi pregiudizi, idiosincrasie formali e modalità di rappresentazione. “Quello che deploro non è che la televisione diverte, ma che ha fatto del divertimento il modello naturale per rappresentare ogni esperienza. Il problema, per usare le stesse parole dell’autore,” non è che la televisione ci regali del divertimento, è che tutti gli argomenti siano presentati come divertimento”. Secondo Postman, il rischio più grave che corrono le società tecnologicamente più avanzate è, per l’appunto, morire di divertimento.
Orwell vs Huxley: verità unica contro opinione
Con ‘Divertirsi da morire’, Neil Postman invita il suo lettore ad una presa di coscienza radicale, l’inizio di un percorso di redenzione: prendere atto che la società contemporanea ha assunto connotati distopici, concretizzando le profezie di un altro grande autore del passato. In questo senso, il termine di riferimento non è tanto il 1984 (1949) di George Orwell, quanto Il mondo nuovo (1932) di Aldous Huxley. Il primo, infatti, presuppone una logica coercitiva e punitiva che si realizza attraverso una sorveglianza costante, una propaganda totale e una manipolazione psicologica; sono questi gli strumenti con i quali il governo controlla l’intera popolazione e reprime il dissenso con violenza. Ma pare che la storia, secondo Postman, abbia dato ragione al secondo. La distopia huxleyana è assai più
insidiosa ed efficace, perché seducente e divertente. Nella società descritta in 1984, c’è una sola Verità, quella del Grande Fratello. Nel Mondo nuovo, mille verità proliferano in forma virale, con il risultato che la nozione stessa di evidenza perde ogni significato. La realtà e l’oggettività degli avvenimenti sfumano in un orizzonte frastagliato, mobile, caotico e confuso. Alla verità unica di Orwell, pare che il corso della storia abbia preferito la miriade di opinioni profetizzate da Huxley: oggi non contano più fatti, bensì ciò in cui uno “crede” o “sente”. Nella società descritta da Huxley, la tecnologia in tutte le sue manifestazioni esercita un controllo totale sulla cultura, sulla politica e sull’economia. Il futuro finzionale è il nostro presente, amministrato da un manipolo di edgelords multimilionari (Musk, Bezos, Zuckerberg, Dorsey…), adorati come demiurghi dalle masse e nuovi padroni del mondo.